LETTERALE, CALCOLO
Si dice anche calcolo algebrico, ed è quell'insieme di convenzioni e di regole, con cui si estendono le operazioni dell'aritmetica ai numeri rappresentati per mezzo di lettere. È, per così dire, la tecnica dell'algebra e, più in generale, dell'analisi; e, in linea storica, si è venuto formando e organizzando attraverso una graduale elaborazione, che rispecchia, sotto l'aspetto formale ed estrinseco, quel secolare processo concettuale, che, partendo dalla matematica degli antichi, quasi esclusivamente orientata, nel suo primo stadio razionale, verso la geometria, si è concluso con la costituzione dell'algebra in scienza autonoma.
Di questo vasto e complesso sviluppo di idee è dato un quadro completo sotto la voce algebra. Qui si vogliono soltanto esporre, nella forma più rapida ed elementare, i principî del calcolo letterale, considerato in sé stesso; e solo da ultimo si passerà dagli sviluppi puramente simbolici a considerazioni d'ordine concettuale, per accennare l'applicazione del calcolo algebrico alla risoluzione delle equazioni di 1° e 2° grado (nn. 10-14).
1. Quando si vuol parlare dei numeri e delle loro proprietà in generale, cioè indipendentemente dai particolari valori che, caso per caso, si possono a essi attribuire, si conviene di rappresentarli con lettere, come a, b, c, .... Qui s'intende parlare di numeri relativi, cioè indifferentemente positivi o negativi (o anche nulli), talché a ogni numero, che non sia lo 0, si può associare il numero opposto (o di segno contrario). L'opposto di un numero a si designa con − a, cosicché, viceversa, l'opposto di − a è a. Si suol dire che "− a ha in evidenza il segno −", e per contrapposto si dice che "davanti ad a si sottintende il segno in evidenza +"; ma bisogna guardarsi dal confondere il segno −, che è messo in evidenza davanti a una lettera, o il segno +, che vi si sottintende, col segno, vero e proprio, del numero relativo, rappresentato, caso per caso, da quella lettera. Così se ad a si attribuisce il valore 3 o − 5 ovvero 0, il simbolo − a vuol dire, rispettivamente, − 3 o 5 ovvero 0. Se del numero a si vuol designare il valore assoluto, si scrive ∣a∣.
2. Il risultato di una qualsiasi operazione su numeri rappresentati da lettere − 0, come si dice per brevità, su lettere − non si potrà che indicare; si potrà calcolare effettivamente solo quando si fisserà un valore per ciascuna delle lettere considerate.
Ogni scrittura, che indichi il risultato di una o più operazioni da eseguirsi su lettere, si dice espressione letterale o anche algebrica.
La somma di due numeri a, b s'indica con a + b, la differenza con a − b; e così il prodotto con ab (soltanto in qualche caso con a × b o con a • b) e il quoziente di a per b con
(talvolta anche con a: b). Circa quest'ultima espressione
(o a: b) va osservato che la divisione di due numeri non ha alcun senso quando il divisore è nullo; perciò nel calcolo algebrico, mentre di regola una lettera può rappresentare un numero relativo qualsiasi (e quindi anche nullo), si deve sempre escludere per essa il valore 0, quando codesta lettera si voglia usare come divisore.
Qualche ulteriore avvertenza è necessaria, quando fra le lettere, su cui si opera, qualcuna abbia in evidenza il segno -. Così la somma di a e − b andrebbe scritta a + (− b), dove il secondo addendo si è chiuso ìn parentesi per ricordare che il - spetta in proprio, come segno in evidenza, a codesto addendo; ma, in armonia con la regola per la sottrazione dei numeri relativi (da un numero se ne sottrae un altro, sommando al primo l'opposto del secondo), alla scrittura a + (− b) si sostituisce sistematicamente la scrittura più semplice a − b. Quando poi si tratta del prodotto, si mantiene valida per i segni in evidenza la medesima regola, che caratterizza la moltiplicazione dei numeri relativi, cioè:
E, analogamente, nel caso della divisione si ha:
3. Le regole del calcolo letterale discendono tutte, direttamente o indirettamente, dalle cosiddette proprietà formali dell'addizione e della moltiplicazione (v. numero). Esse sono per l'addizione:
1. La proprietà commutativa, espressa in simboli letterali dall'uguaglianza
2. La proprietà associativa, espressa analogamente dall'uguaglianza
dove (a + b) + c indica il numero, che si ottiene sommando prima a e b, e aggiungendo poi al risultato il numero c, mentre a + (b + c) indica il numero, che si ottiene sommando al numero a la somma, preventivamente eseguita, di b e c. E, in base a questa proprietà, il valore comune di (a + b) + c e a + (b + c) si rappresenta più semplicemente con a + b + c.
Le proprietà formali della moltiplicazione sono:
1. La proprietà commutativa
2. La proprietà associativa
e, in forza di questa proprietà, il valore comune di (ab) c e a (bc) si denota semplicemente con abc;
3. La proprietà distributiva rispetto alla somma
o, indifferentemente,
4. La proprietà dello zero (o legge dell'annullamento del prodotto), per cui il prodotto ab di due numeri è nullo sempre, e soltanto, quando è nullo almeno uno dei fattori.
Qui, per ben comprendere che cosa si possa attendere dal calcolo letterale, giova fissare l'attenzione sulla natura delle varie uguaglianze, con cui si sono dianzi espresse le proprietà formali dell'addizione e della moltiplicazione. In ciascuna di esse compaiono due espressioni letterali diverse (membri dell'uguaglianza), una scritta prima del segno = (primo membro), l'altra dopo (secondo membro); e la corrispondente proprietà formale ci assicura che codeste due espressioni assumono il medesimo valore, comunque si fissino, fra i numeri relativi, i valori da attribuire, caso per caso, alle lettere che vi compaiono. Due espressioni siffatte si dicono identiche, e ogni uguaglianza fra espressioni letterali identiche si chiama una identità, talché tutte le uguaglianze dianzi scritte sono altrettante identità.
Orbene, ogni qual volta si è condotti a considerare un'espressione letterale, comunque complicata, in cui siano indicate quante si vogliano addizioni e moltiplicazioni, da eseguire l'una dopo l'altra su lettere, è manifesto come, applicando a codeste singole operazioni le corrispondenti proprietà formali, si possa trasformare la data espressione in altre espressioni identiche e, quindi, a essa sostituibili; e può accadere che queste nuove espressioni risultino, in confronto della primitiva, più convenienti ai fini che si vogliono raggiungere, in particolare più semplici e più comode per poterne calcolare il valore, quando si attribuiscano valori numerici particolari alle varie lettere, che vi compaiono. Oggetto del calcolo letterale è appunto lo studio sistematico delle regole per codesta trasformazione e semplificazione delle espressioni algebriche.
4. Fra le conseguenze immediate delle proprietà formali vanno rilevate le due seguenti:
1. La proprietà distributiva della moltiplicazione vale rispetto a ogni somma algebrica, qualunque sia il numero degli addendi: per es.
2. Per moltiplicare due somme algebriche basta sommare tutti i prodotti, che si ottengono moltiplicando ciascun addendo di una delle due somme per ciascun addendo dell'altra: p. es.
5. Si dice frazione algebrica ogni quoziente di due espressioni letterali. Nel caso più semplice una frazione algebrica è, dunque, del tipo
(con b ≷ 0). Alle frazioni algebriche si estende la nomenclatura consueta delle frazioni numeriche ordinarie. Così in
le lettere a e b si chiamano i termini, e, più precisamente, a è il numeratore, b il denominatore. In particolare una frazione del tipo
è identica al numero a.
Valgono per le frazioni algebriche regole di calcolo perfettamente analoghe a quelle ben note per le frazioni numeriche. Così una frazione algebrica è identica a quella che se ne deduce moltiplicando ambo i termini per un'espressione letterale (per cui si escluda il valore 0). Per es., supposto c ≷ 0,
Di qui la possibilità di ridurre due o più frazioni allo stesso denominatore e, quindi, di sommarle algebricamente. Così
dove, naturalmente, va preso dappertutto, secondo i casi, il segno superiore o quello inferiore.
E per il prodotto e il quoziente di due frazioni algebriche si ha, come nel caso delle frazioni numeriche,
6. Si estendono ai numeri rappresentati da lettere anche le definizioni relative alle potenze. Dati un numero qualsiasi a e un intero positivo (o assoluto) n, si dice "potenza nma di a" e si denota con an il prodotto di n fattori uguali ad a. Il numero a si chiama base, l'intero n esponente della potenza. In particolare a2 e a3 si chiamano quadrato e cubo di a.
Dalla definizione di potenza e dalle proprietà formali delle operazioni discendono per le potenze le proprietà espresse dalle seguenti identità
Mentre le (1) valgono senza eccezione (cioè comunque si scelgano i numeri relativi a e b e gli interi positivi m e n), l'identità (2) ha senso soltanto per m > n: e ciò costituisce un inconveniente rispetto ai fini del calcolo letterale, che, per adeguarsi a quello spirito di generalità che informa l'algebra, di cui è lo strumento essenziale, tende sistematicamente a evitare ogni eccezione nella sua applicabilità. Ora questo inconveniente si elimina estendendo il concetto di potenza nel modo seguente.
Si comincia con l'osservare che, se è m = n, è bensì vero che il secondo membro si riduce, graficamente, al simbolo a0, che, secondo la definizione di potenza, non ha alcun senso, ma il primo membro conserva un significato preciso, in quanto, qualunque sia il numero a e qualunque sia l'intero m = n, assume il valore 1. Perciò la (2) si rende valida anche per m = n, stabilendo la convenzione di attribuire al simbolo a0, qualunque sia il numero a, il valore 1. Similmente se è m 〈 n, l'intero m − n risulta negativo, talché il simbolo am-n, che compare a secondo membro della (2), non ha senso, rispetto alla definizione di potenza a esponente positivo (o nullo), ma la frazione algebrica a primo membro conserva ancora un significato, e precisamente si riduce, ove se ne dividano ambo i termini per am, a
con n − m > 0. Perciò la (2) si rende valida anche per m 〈 n, convenendo che, quando p sia un intero positivo (e a un qualsiasi numero diverso da 0), il simbolo a-p significhi il reciproco di ap, cioè si ponga
Introdotte così, accanto alle potenze a esponente intero positivo, anche quelle a esponente nullo o intero negativo, si riconosce agevolmente che per le potenze, in questo senso esteso, le identità (1), (2) si mantengono valide senza eccezione.
7. Infine si trasportano ai numeri rappresentati da lettere anche le operazioni e il simbolo di estrazione di radice. Dati un qualsiasi numero a e un intero positivo n (> 1), si dice "radice nma o di indice n del numero a" e si denota con
un numero tale che la sua potenza nma sia uguale ad a, cioè si pone per definizione
In particolare la, radice di indice 2 o quadrata si designa più semplicemente con √a. Il simbolo
(o √a) si chiama un radicale, e a si dice radicando.
Nelle applicazioni all'algebra elementare, in cui di solito si considerano soltanto numeri reali, l'uso dei radicali va subordinato a qualche avvertenza. Si ricordi infatti che, mentre per n dispari ogni numero reale (sia esso positivo o negativo) ha una radice nma reale, e una sola (rispettivamente positiva o negativa), per n pari un numero positivo ammette due radici reali fra loro opposte, e invece un numero negativo non ammette alcuna radice reale. Perciò, ogni qual volta, nel campo dei numeri reali, si vuole usare il simbolo
con n pari (e, in particolare, il simbolo √a) bisogna supporre a ≥ 0. Sotto l'ipotesi a > 0, si fa generalmente la convenzione di denotare con codesto simbolo la radice nma (o, in particolare, quadrata) positiva o aritmetica, mentre la radice negativa si designa premettendo in evidenza il segno −, cioè scrivendo
Va aggiunto incidentalmente che, se dal campo dei numeri reali si passa a quello più ampio dei cosi detti numeri immaginarî o complessi (v. immaginario), si dimostra che, qualunque sia l'indice n (pari o dispari), ogni numero (reale o anche complesso) ammette n radici nme diverse, e per l'uso del simbolo
che diventa perciò suscettibile di n valori distinti, occorrono convenzioni e avvertenze particolari, su cui non è qui il caso di dilungarsi.
Si resti, dunque, nel campo dei numeri reali. Il calcolo dei radicali si fonda tutto sulle seguenti identità, che discendono immediatamente dalla definizione di radice e che valgono, ciascuna, sotto la condizione che tutti i radicali, che vi compaiono, nell'uno e nell'altro membro abbiano senso;
Queste identità presentano una manifesta analogia con le proprietà fondamentali (1) delle potenze; e, con opportune convenzioni, si può estendere ulteriormente il concetto di potenza (al caso degli esponenti frazionarî), in guisa da dare al calcolo dei radicali l'aspetto formale di un calcolo di potenze. Per questa estensione, che qui non interessa direttamente, si veda la voce Potenza.
8. Per la classificazione delle espressioni algebriche in razionali e irrazionali, per le definizioni di monomio e polinomio e dei rispettivi gradi, per le operazioni sui polinomî ordinati secondo le potenze di una data lettera (indeterminata o variabile) vedasi la voce algebra, nn. 26-33.
Qui basterà ricordare che un polinomio di grado n rispetto a una indeterminata x, ordinato secondo le potenze decrescenti di questa lettera, assume la forma
dove i coefficienti a0, a1,..., an-1, an rappresentano altrettanti numeri (o altrettante espressioni letterali non contenenti la x), e, all'infuori di a0, che va supposto diverso da 0, possono anche essere, in parte o tutti, nulli. In particolare, se un tale polinomio è di 1° o di 2° grado, si riduce, rispettivamente, a un binomio o a un trinomio del tipo
9. Fra le identità di uso frequente nel calcolo letterale vanno ricordate le seguenti:
Si veda inoltre la voce Binomio.
Equazioni di 1° e di 2° grado.
10. A illustrare i precedenti sviluppi gioverà una breve escursione fuori del campo puramente formale, in cui si è rimasti sin qui, sull'applicazione del calcolo letterale alla risoluzione dei problemi, da cui, anche storicamente, esso ha tratto la sua origine.
Si consideri il seguente problema, suggerito da un noto paradosso di Zenone di Elea (v. giuoco: Giuochi matematici). Il piè-veloce Achille, sfidato alla corsa da una tartaruga, le dà un vantaggio, ad es. (per usare unità moderne) di 1000 m. Sapendo che, mentre Achille percorre 10 m., la tartaruga ne fa soltanto uno, si vuol trovare dopo quanti metri Achille raggiungerà la tartaruga. A tal fine, indicato con x questo numero incognito di metri, si osservi che la tartaruga, prima di essere raggiunta, percorrerà x − 1000 m.; d'altra parte, in quanto i cammini percorsi simultaneamente dalla tartaruga e da Achille stanno fra loro come 1 a 10, si avrà che x − 1000 risulterà uguale a 1/10 di x, cioè il numero x soddisferà alla condizione
Per trovare un tale numero x, basta ragionare nel modo seguente. Affermare che la differenza x − 1000 è uguale a x/10 equivale a dire che x si ottiene aumentando x/10 di 1000, ossia che la differenza fra x e x/10, cioè 9/10 di x, è uguale a 1000, il che vuol dire che x è uguale a 10/9 di 1000, sicché il numero di metri, che Achille deve percorrere per raggiungere la tartaruga è dato da
11. Il problema così risolto è un caso particolare del seguente. Si pensino due punti M e M′, i quali descrivano entrambi di moto uniforme (nello stesso senso o anche in senso contrario) una medesima traiettoria, p. es. una retta r. Per aver modo d'individuare, istante per istante, la posizione di M e di M′ su codesta retta, si fissino su essa un punto O e uno dei due sensi, p. es. quello in cui si muove M; e si convenga di misurare, istante per istante, ciascuna delle due distanze OM, OM′ con un numero positivo o negativo, secondo che essa ha (da O verso il punto) il senso or ora prefissato o il senso contrario. Ciò premesso, sapendo che, quando M si trova a passare per O, il punto M′ è alla distanza (positiva o negativa) a da O e che i cammini percorsi simultaneamente da M′ e da M stanno sempre fra loro in un dato rapporto (positivo o negativo) k, si chiede a quale distanza da O i due punti si troveranno a passare insieme per una stessa posizione.
Indicata con x codesta distanza incognita, si riconosce, ragionando come al numero precedente, che essa deve soddisfare la condizione
la quale si riduce alla (3) del numero precedente, quando si prenda a = 1000, k = 1/10. E dalla (4), con un ragionamento analogo a quello fatto al numero precedente partendo dalla (3), si deduce
12. Nei due esempî dianzi considerati si ha, pur nella forma più semplice ed elementare, lo schema della trattazione algebrica di un qualsiasi problema (a dati numerici o letterali). In entrambi i casi la condizione; nposta dal problema all'incognita, cioè alla misura della grandezza che si cerca, si è tradotta in una certa uguaglianza, cioè la (3) o la (4), che lega l'incognita ai dati. E qui va rilevata la differenza essenziale che corre fra queste uguaglianze e le identità che prima d'ora si erano incontrate nel calcolo letterale: mentre le identità sono vere per sé stesse, cioè risultano soddisfatte per qualsiasi scelta dei valori delle lettere che vi compaiono, le (3), (4) non sussistono per ogni possibile valore della x, bensì soltanto per qualche valore particolare, anzi in questi due casi per uno solo, che è appunto quello che risolve il corrispondente problema. Perciò ciascuna delle uguaglianze (3) e (4) si chiama un'equazione.
Parlando in generale, si chiama equazmne ogni uguaglianza
in cui A e B denotino certe due espressioni letterali, contenenti un'indeterminata o incognita x, e non identiche fra loro, talché l'uguaglianza risulti soddisfatta soltanto quando si attribuiscano alla x certi valori particolari (soluzioni o radici dell'equazione), che sono appunto quelli che si vogliono trovare.
Per risolvere un'equazione, cioè per trovarne le soluzioni, si può cercare di dedurre da essa, con le regole del calcolo letterale, qualche nuova equazione, che sia più semplice e, al tempo stesso, equivalente alla data, cioè tale che ammetta tutte, e sole, le sue soluzioni. Così, deducendo successivamente dall'equazione data un certo numero di equazioni equivalenti, si può pervenire a un'equazione così semplice, che sia possibile riconoscere direttamente quali siano le sue soluzioni; e si avranno così tutte, e sole, le soluzioni dell'equazione da cui si è partiti.
Per questa deduzione di equazioni equivalenti a una data servono certi principî o teoremi generali, di cui qui basterà indicare i due seguenti:
I. Da un'equazione si ottiene un'equazione equivalente, aggiungendo ad ambo i membri uno stesso numero o una stessa espressione letterale, in particolare trasportando da un membro all'altro dell'equazione data un termine, purché, nello stesso tempo, a questo termine si cambi il segno.
Perciò, trasportando tutti i termini di un'equazione in uno stesso membro, si può sempre darle la forma
dove E denota una certa espressione contenente l'incognita x. Se questa espressione è un polinomio in x, l'equazione considerata si dice un'equazione (algebrica) intera di grado uguale a quello del polinomio E (rispetto all'incognita x).
2. Da un'equazione si ottiene un'equazione equivalente, moltiplicandone o dividendone ambo i membri per uno stesso numero diverso da zero, o anche per un'espressione letterale, non contenente l'incognita, purché per le lettere, che vi compaiono, si escludano quegli eventuali valori, per cui l'espressione considerata si annulli.
13. Applichiamo i principî precedenti alla risoluzione di un'equazione di 1° grado, cioè di un'equazione intera, che, ove se ne trasportino tutti i termini al primo membro e si eseguiscano le riduzioni possibili, assuma l'aspetto
dove a e b denotano due numeri o due espressioni letterali.
Supposto a ≷ 0, dalla (6) si deducono successivamente le due equazioni seguenti, che, in forza dei principî pocanzi enunciati, sono equivalenti alla data:
e quest'ultima dà senz'altro l'unica soluzione della (6).
Se poi si ha a = 0, mentre b è diverso da 0, la (6) non ammette alcuna soluzione o, come si suol dire, è impossibile o assurda, perché non esiste nessun valore x, che, moltiplicato per 0, dia − b, come vorrebbe la prima delle (7), equivalente alla (6).
Infine, se è simultaneamente a = 0 e b = 0, la (6) è soddisfatta da ogni possibile valore di x, in quanto, moltiplicando un qualsiasi numero x per 0 e aggiungendo 0, si ottiene sempre 0. Essa si riduce dunque a una identità, ma, nell'uso corrente, si suol dire un'equazione indeterminata.
Si riprenda, ad es., l'equazione (4) del n. 11, la quale , ove se ne trasporti il termine − a al secondo membro e il termine kx al primo, assume la forma
Se è 1 − k ≷ 0, cioè k ≷ 1 (il che vuol dire che i due punti M, M′ hanno velocità diverse), basta dividere per 1 − k ambo i membri della (8) per ottenerne la soluzione (5), già trovata al n. 11. Ma se è k = 1, mentre a è diverso da 0, la (8) diventa impossibile, sicché il problema del n. 11 non ammette alcuna soluzione; e la ragione è evidente. Infatti la condizione k = 1 significa che i due punti M, M′ si muovono con la stessa velocità e nello stesso senso, talché descrivono la retta r, mantenendosi sempre alla medesima distanza a l'uno dall'altro, e non possono mai trovarsi a passare insieme per una medesima posizione. Se, infine, è simultaneamente, k = 1, a = 0, la (8) diventa indeterminata; e anche questa circostanza trova il suo riscontro nel problema. I due punti non solo si muovono con la stessa velocità (e nel medesimo senso), ma, in quanto si trovano a passare insieme per O, si muovono sempre di conserva.
14. Un'equazione di 2° grado, ove se ne trasportino tutti i termini a primo membro e si riducano i termini simili, prende la forma
e si può supporre a ≷ 0 per non ricadere su un'equazione di 1° grado.
Se è b = 0 o c = 0, essa si risolve immediatamente, perché nel primo caso è equivalente alla
e, purché sia c/a ≤ 0, ammette le due radici
coincidenti nel valore 0, se è c = 0 (mentre se è c/a > 0 ha due radici immaginarie). Quando poi si ha c = 0 e b ≷ 0, la (9) si può scrivere
sicché, per la legge di annullamento del prodotto, è soddisiatta sia da x = 0, sia da x = − b/a.
Resta da esaminare il caso generale, in cui i coefficienti a, b, c siano tutti e tre diversi da 0. Sotto questa ipotesi la (9) si risolve con un artificio (il cosiddetto completamento del quadrato), che sembra fosse noto a Erone (fra il sec. I e il III d. C.) e a Diofanto (sec. III) e si trova nelle opere dei matematici indiani Brahmagupta (sec. VII) e Bhaskara (sec. XII). La (9), in quanto è a ≷ 0, risulta equivalente alla
e, quindi, anche all'equazione, che da questa si ottiene, aggiungendo ad ambo i membri l'espressione b2/4 a2, cioè alla
la quale, in forza delle due identità (per la prima v. il n. 9)
si può scrivere
Di qui si rileva che x va scelto in modo che il quadrato di
risulti uguale alla espressione a secondo membro della (10), cioè sia
o infine
Si vede così che, se l'espressione b2 − 4 ac (discriminante dell'equazione di 2° grado) è positiva, la (9) ammette due radici (reali) distinte, mentre se è b2 − 4 ac = 0, queste due radici coincidono nel valore (radice doppia)
Se poi è b2 − 4 ac 〈 0, la (9) non ammette radici reali, bensì due radici immaginarie, date ancora dalla formula risolutiva (11).
Per le applicazioni dei risultati così indicati alla risoluzione dei problemi di 2° grado, si veda uno qualsiasi dei trattati di algebra elementare, correnti nelle scuole medie.