CORBERA, Calcerando
Nacque tra la fine del 1559 e i primi del 1560, probabilmente a Palermo, da Antonio barone di Miserendino e da Elisabetta Scavuzzo.
Fu il primogenito di una famiglia che aveva goduto un certo prestigio per avere fornito in ogni generazione diversi alti ufficiali all'amministrazione pubblica (nel Quattrocento un antenato suo omonimo, il maestro razionale Calcerando Corbera, era arrivato a ricoprire la carica di presidente del Regno), ma che ormai si trovava in piena decadenza economica, come molta parte della nobiltà siciliana dell'epoca. Il padre Antonio era però un ambizioso, e benché fosse inseguito dai creditori, ai quali continuava a ipotecare i frutti dei suoi feudi, e pur vivendo sotto la continua minaccia di azioni esecutive, nel desiderio di aumentare i propri redditi e il proprio prestigio, aveva chiesto la licentia populandi di Miserendino (territorio in Val di Mazara, tra Sambuca e Calatamauro) dove voleva costruire un casale con una torre. La licenza gli era stata concessa nel 1572, ma la situazione finanziaria gli avrebbe impedito di realizzare questo disegno (il paese verrà poi fondato da un Filangieri nel 1620 con il nome di Santa Margherita Belice). Solo un indovinato matrimonio del figlio avrebbe potuto permettere al barone di Miserendino di rinsanguare il patrimonio familiare. Così, a causa della cupidigia del padre, il C., nella sua vita breve ed infelice, verrà a trovarsi, suo malgrado, al centro di un caso che, per la tragicità delle conseguenze e per i personaggi coinvolti, è tra i più sensazionali del Cinquecento siciliano.
I disegni del vecchio barone trovarono realizzazione nel 1575 quando riuscì a combinare con il cugino, Vincenzo Siracusa (Zaragossa), appartenente. a un'agiata famiglia borghese, il matrimonio dei rispettivi figli. Forse spinto dai parenti (da tempo inseriti nella magistratura e nelle cariche civiche e pertanto ansiosi di conquistare un blasone), piuttosto che per interesse personale, Vincenzo Siracusa si impegnò a dare in sposa al giovane C., appena quindicenne, l'unica figlia, Eufrosina, giovinetta di eccezionale bellezza, di un anno maggiore di lui. Il contratto di matrimonio, stipulato "per verba de futuro", in attesa che arrivasse la necessaria dispensa (essendo gli sposi legati da consanguineità di terzo grado), è del 19 maggio 1575. Le intenzioni di entrambe le parti sono svelate dal contenuto dell'atto di dote e dalle clausole particolari in esso inserite: il padre della sposa assegna 1.600 onze, di Cui 1.200 in denaro liquido che verranno consegnate al barone Antonio; la madre Vincenza Valdaura dona due territori in Val di Mazara ("Maganuci" e la "Traversa di Iato"), alcuni magazzini, un trappeto, un oliveto, vari "tenimenti" di case e altri immobili e rendite; beni dei quali la dotante si riserva però l'usufrutto. Da parte sua Antonio trasferisce al figlio il titolo platonico di barone di Miserendino, riservandosi ovviamente i frutti della baronia.
L'atteggiamento di Antonio, che per riacquistare la fiducia dei creditori non perde tempo a far capire quale destinazione avrà la dote della nuora, dovette però dar luogo a un ripensamento da parte di Vincenza Valdaura, che si affxettò, con i mezzi giuridici a sua disposizione, a salvaguardare la situazione patrimoniale propria e del marito (con un atto del 6 agosto lo nominava usufruttuario dei beni già assegnati in dote alla figlia). Fu un tentativo inutile, perché i genitori di Eufrosina morirono nello stesso mese di agosto a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro; e questa circostanza forse fece abbreviare i tempi per la celebrazione del matrimonio, che avvenne il 25 sett. 1575.
Il fatto che Eufrosina fosse rimasta unica erede di tutto il patrimonio della famiglia, comprendente beni sia feudali sia burgensatici, rappresentando un'inattesa fortuna per i Corbera, ci fa chiedere se la scomparsa . quasi contemporanea dei coniugi Siracusa non sia stata in qualche. modo propiziata da Antonio Corbera nell'attuazione dì un piano diabolico. In questa ipotesi sarebbe più che giustificato l'odio mortale che Eufrosina mostrò sempre nei confronti del marito e del suocero, nelle cui mani si venne di colpo a trovare senza alcuna difesa. Il giovane C., d'altra parte, non sembrava minimamente in grado, "metu et timore reverentiali", come si legge nelle fonti, di contrastare la vanità e le rovinose manie di grandezza del padre. Un solo esempio basti: nel marzo 1577 questi costrinse la giovane nuora e il C. a contrarre in solido un mutuo di 500 onze, concesso dal barone di Cutò, per ingrandire e abbellire il palazzo dove abitavano (al Cassaro, nella vanella S. Cristoforo) e per altre spese voluttuarie.
L'atteggiamento succubo del C. aveva creato un abisso incolmabile tra lui e la moglie, che cercò appoggio altrove e lo trovò proprio in Marcantonio Colonna, il vicerè, che, sensibile al fascino della giovane, reso ancor più accentuato dalla penosa situazione in cui ella si trovava, non esitò a prenderla sotto la sua protezione, senza curarsi del fatto che ciò avrebbe compromesso la sua dignità e il suo prestigio. La relazione nacque subito dopo il suo arrivo in Sicilia (1577) e si trasformò presto in una passione travolgente. Il contemporaneo Vincenzo Di Giovanni, che vi dedica largo spazio, compiacendosi dei particolari, presenta la baronessa come l'amante ufficiale del viceré, non senza la tolleranza della moglie di lui, donna Felice Orsini.
Dopo l'incontro con il Colonna l'atteggiamento di Eufrosina cambia radicalmente: ora si rifiuta con decisione di pagare i debiti del suocero e di far fronte alle obbligazioni che il marito si era accollato a nome del padre; arriva al punto di costringere il marito a farle una donazione fittizia di tutti i suoi beni al fine di salvaguardare la propria dote. A questo punto matura la tragedia. All'azione apertamente ostile della nuora il vecchio barone mette in opera una crudele vendetta per diffamarla agli occhi del marito. Da alcuni documenti utilizzati dal Koenigsberger risulta che, con l'aiuto di un parente, Ottavio Bonett, fece credere al C. che la moglie lo aveva tradito con un paggio, morto in seguito alle violenze subite nell'intento di fargli confessare Ja verità. L'omicidio sarebbe poi stato taciuto per intervento del presidente della Gran Corte.
Divenuta ormai di dominio pubblico la relazione con il viceré, questi, per impedire le reazioni minacciate dal vecchio barone, non trovò di meglio che allontanarlo da Palermo, nominandolo capitano d'armi a Sciacca. Ma il Corbera ritornò improvvisamente, convinto che solo la sua presenza potesse ancora salvare l'onore della famiglia. Immediatamente il Colonna lo fece imprigionare sotto l'accusa di insolvenza. Pochi mesi dopo, il 2 febbr. 1581, il barone morì in carcere per ragioni rimaste oscure.
La morte di Antonio Corbera fu per la baronessa una liberazione perché finalmente poté trionfare sui suoi avversari. Di contro, appare ora più che mai patetica la figura del C., rimasto solo ad accusare la moglie, e il suo amante della morte del padre, completamente in balia di un nemico potente e alla mercé dei creditori, nelle mani dei quali la moglie impietosamente lo lascia. Infatti, immediatamente con una serie di atti, tutti del 26 giugno 1581, effettua tra sé e il marito la divisione dei beni in modo da essere sollevata da tutte le obbligazioni che era stata costretta ad assumere in solido con lui. Essa dichiara apertamente di essersi accollata quei debiti solo per compiacere al marito, che ora cita addirittura davanti alla corte pretoriana per recuperare la dote. Nonostante la restituzione della dote, il matrimonio resta, sia pure formalmente, in piedi. E il giovane barone, ormai completamente privo di mezzi, è costretto a porre un'ennesima ipoteca sulla sua baronia della quale prende possesso soltanto il 27 luglio, per mezzo del suo procuratore, lo zio Ottavio Bonett, curatort degli interessi della famiglia.
Il C. sembra voler reagire soltanto ora, colpito più dalla morte del padre che dal tradimento della moglie, verso la quale aveva mostrato piuttosto indifferenza; e si può pensare che anzi avesse accettato con una certa compiacenza la situazione dalla quale forse sperava di trarre favori e vantaggi per sé e per la famiglia. Ma mentre un individuo scaltro e avveduto avrebbe in realtà saputo approfittare, il C. al contrario si lasciò ingenuamente irretire dai suoi nemici. Così, senza avvertire il pericolo incombente su di lui ormai divenuto scomodo, accettò l'invito a far parte di una missione che, guidata dal fratello del viceré Pompeo Colonna e composta, tra gli. altri, dal presidente della Gran Corte Cifuentes e dallo stratigoto Diego Osorio, nell'estate 1581 fu inviata a Malta per sedare una sommossa dei Cavalieri contro il gran maestro dell'Ordine. Pochi giorni dopo, il 28 agosto, venne trovato assassinato con numerose pugnalate, dietro la porta della sua abitazione.
La corrispondenza ufficiale accenna alla possibilità che sia stato ucciso in una rissa da rivali occasionali, peraltro mai identificati, dopo che si era intrattenuto con una cortigiana. Era invece opinione largamente diffusa in Sicilia (e forse la più attendibile) che anche il giovane barone fosse stato vittima di una macchinazione, e che il Colonna l'avesse mandato a Malta con la specifica intenzione di farlo eliminare, servendosi di un suo sicario non nuovo a tali imprese (fra' Flaminio di Napoli, cavaliere dell'Ordine, condannato a morte qualche tempo dopo per un delitto analogo). Eufrosina non curò di fare trasportare in Sicilia il corpo del marito che fu seppellito a Malta.
Se era finita la vita del povero C. non erano però finiti i drammi legati al suo nome e alle sue vicende. Quale che sia la verità sulla sua morte, è certo che la vedova e l'amante non godettero alcun frutto dalla sua scomparsa, ché anzi segnò l'inizio della loro disgrazia.
La difesa degli interessi di casa Corbera era stata assunta da Ottavio Bonett, il quale da una parte cercò di sottrarre alla tutela di Eufrosina il fratello ed erede del C., Vincenzo, bambino di sei anni (vi fu un seguito giudiziario che terminò con l'affidamento della tutela ad Andrea Alliata e al dott. Mario Mastrillo), dall'altra intraprese un'azione tesa a vendicare la morte del congiunto. Le aperte e circostanziate accuse portate addirittura alla corte di Madrid, dove il Bonett con coraggio si recò personalmente, trovarono terreno favorevole soprattutto presso la fazione avversa al Colonna, capeggiata dal Granvelle, lo stesso che in quegli anni manderà in Sicilia la visita di Gregorio Bravo.
Se non furono proprio queste accuse a determinare la caduta in disgrazia del viceré - come vorrebbero alcuni storici - certo esse si aggiunsero alle altre che già si discutevano contro di lui in seno al Consiglio d'Italia. Richiamato in Spagna nel 1584, il Colonna morì improvvisamente a Medinaceli durante il viaggio, anche lui in circostanze misteriose. C'è chi sostiene che sia stato ucciso da mandatari della famiglia Corbera per vendicare il barone di Miserendino.
Ma la tragedia non si era ancora conclusa; anche Eufrosina avrebbe pagato. presto con la vita i suoi errori. Trasferitasi a Roma sotto la protezione di donna Felice Colonna e andata sposa a un patrizio romano, Lelio Massimo, già amico dei Colonna, sarebbe stata dopo poco tempo assassinata dai figli di costuì, che consideravano disonorante l'entrata in famiglia di una cortigiana.
Anche la famiglia Massimo finì miseramente: i due giovani furono condannati a morte e il vecchio padre morì di crepacuore.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Palermo, Conservatoria, vol. 169, c. 116v; Processi di investiture, b. 1536, n. 2844; Notaio A. Occhipinti, reg. 3734, c. 735, 6 ag. e 25 sett. 1575; reg. 3738, 26 giugno 1591; Notaio A. Carasi, reg. 6299, 21 marzo 1577; Notaio M. Avanzato, reg. 1852, 22 sett. 1578; reg. 1854, 3 e 27 luglio 1581; Notaio S. Scalisio, reg. 9627, 9 dic. 1581 e 19 genn. 1582; Archivo General de Simancas, Estado, legg. 1154, 1155; Secretarias Provinciales, legg. 982, 983; libro 802, c. 191; V. Di Giovanni, Del Palermo restaurato, in Bibl. stor. e letter. di Sicilia, II, Palermo 1872, pp. 227 ss.; M. Emanuele Gaetani di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo 1754, II, p. 161; B. Giacone, Del castello arabo "Manzil-Sindi" ovvero Santa Margherita Belice, Palermo 1907, p. 32; H. Koenigsberger, The government of Sicily under Philip II of Spain, London 1951, pp. 188 ss.; E. Di Blasi, Storia cronol. dei viceré, presidenti e luogotenenti del regno di Sicilia, Palermo 1974, II, p. 196; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, Palermo 1924-41, VII, p. 192.