CALAMITÀ NATURALI
Nel decennio 2005-14 si calcola che circa 1,7 miliardi di persone nel mondo siano state colpite da c. n., per un totale di 734.817 morti e di oltre 1400 miliardi di dollari di danni, secondo i dati 2014 del CRED (Centre for Research on the Epidemiology of Disasters). Tra le c. n., sono stati i terremoti a causare il più alto numero di vittime (55% dei morti), cui seguono, nell’ordine: tempeste tropicali (17% dei morti), condizioni climatiche estreme (10%), alluvioni (8%), epidemie (7%), altro (4%). I Paesi più colpiti, sempre in termini di perdite umane, sono risultati, per i terremoti: Haiti (222.570 morti, 2010), Pakistan (73.338 morti, 2005), Cina (68.946 morti, 2008) e nell’aprile 2015 Nepal (con 8604 morti, dati UN Office for the coordination of humanitarian affairs, 18 maggio 2015); per le tempeste tropicali: Myanmar (84.530 morti, 2008), Filippine (6354 morti, 2013), Bangladesh (4275 morti, 2007); per le condizioni climatiche estreme: Russia (55.736 morti, per l’eccezionale ondata di caldo del 2010), Somalia (circa
20.000 morti, per la siccità del 2010). La peggiore alluvione del decennio ha invece interessato l’India nel 2013 (6453 morti); mentre epidemie di colera hanno colpito Haiti dopo il terremoto del 2010 (6908 morti) e lo Zimbabwe nel 2008 (4276 morti). Più di recente (2014), un’altra epidemia – di ebola – ha raggiunto dimensioni importanti in Africa occidentale, con 6388 morti, secondo i dati dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) del dicembre 2014. Anche l’Italia risulta tra i Paesi colpiti da c. n.: nell’ultimo decennio le vittime sono state quasi 550, soprattutto a causa di terremoti (L’Aquila, aprile 2009; Emilia, maggio 2012) e di alluvioni o frane (tra le quali, Messina, 2009 e 2011; Cinque Terre-Lunigiana e Genova, 2011; Maremma, 2012; Sardegna e Basilicata, 2013; Refrontolo, 2014; Gargano e Liguria-Toscana, 2014).
Il concetto di c. n. implica però qualche considerazione critica: nonostante i recenti sforzi a livello internazionale per definire e classificare le c. n. e per mettere a punto metodologie di raccolta e sistematizzazione di dati alla scala mondiale, resta infatti controverso e per certi aspetti discutibile. Relativamente alle cause che possono determinare una c. n., si è concordi nel distinguere eventi di natura idrometeorologica (inondazioni, tempeste, cicloni, ondate di freddo o caldo intenso ecc.), geofisica (terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, smottamenti, frane) e biologica (epidemie, infestazioni, contaminazioni). Tuttavia, oggi si tende a ridimensionare l’enfasi posta sulla specificazione naturale, ritenendola fuorviante rispetto alle reali cause di un disastro: esse non andrebbero ricercate nell’evento naturale in sé ma nel contesto socioterritoriale, economico, politico-istituzionale sul quale l’evento stesso interviene. In tale prospettiva, la specificazione naturale sarebbe dunque fuorviante in quanto deresponsabilizzante rispetto alle scelte politico-istituzionali di gestione del territorio in funzione preventiva dei rischi e dei disastri. In sostanza, la critica alla ‘naturalità’ delle calamità riguarda la presunta imprevedibilità/ineluttabilità delle calamità stesse, che farebbe dipendere queste ultime, in una relazione di causa-effetto, solo dagli eventi naturali e non dalle condizioni di vulnerabilità socioterritoriale che precedono gli eventi. Da più parti si è ormai più o meno concordi nel ritenere che nell’attribuire a un evento naturale il grado di calamità è necessario considerare le seguenti condizioni: 1) l’entità dell’evento in termini di numero di persone colpite, estensione spaziale interessata, numero e qualità delle risorse naturali compromesse e degli elementi e risorse antropici colpiti; 2) la vulnerabilità del territorio, determinata dalle scelte collettive e individuali che nel corso del tempo definiscono una maggiore o minore esposizione a rischi e pericoli; 3) la capacità simbolica, materiale e organizzativa della comunità di resistere e di reagire all’evento a livello politico-istituzionale, economico e sociale.