ca
. Apocope di ‛ casa ', normale nei dialetti settentrionali; è presente anche negli scrittori toscani, e ha lasciato tracce di sé nei nomi di luogo (cfr. Parodi, Lingua 274, 289). In If XV 54 è usato da D. nel suo discorso a Brunetto Latini, per spiegare lo scopo del suo viaggio: questi... / reducemi a ca per questo calle. L'espressione è stata variamente interpretata; parecchi commentatori antichi non si sono fermati a esaminarla (Bambaglioli, Iacopo, Ottimo, Anonimo), altri ne hanno dato una spiegazione in senso morale: Virgilio conduce D. al cielo, alla vera casa dell'uomo, secondo la Scrittura (Hebr. 13, 14: cfr. Buti: " Ad domum, idest ad beatitudinem "; Boccaccio: " ottimamente dice ‛ e reducemi a casa ', per farne vedere qual sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e noi siamo tutti cittadini del cielo "; Landino: " A casa, cioè, in stato di salvazione ". I commentatori più tardi hanno abbandonato questa interpretazione (primo il Venturi, seguito da tutti fino al Tommaseo), preferendone una più concreta: " Al mondo di sopra mi riconduce, passando per questo tenebroso di quaggiù " (Venturi), fino alla precisazione quasi geografica del Torraca (" alle campagne toscane ") e del Porena (" a casa, nella mia città "). Ma l'interpretazione più esatta sembra quella dei primi commentatori, fedele, del resto, alla lettera e allo spirito dell'allegoria dantesca dello smarrimento nella valle: a ca va inteso, quindi, nel senso di ritorno sulla " diritta via " (Sapegno, Mattalia, Chimenz; Pagliaro, Ulisse 200-201).