Diocleziano, C. Aurelio Valerio
Imperatore romano. Nato in Dalmazia da umilissima famiglia, percorse i gradi della carriera militare finché divenne comandante della guardia imperiale sotto Numeriano. Eletto imperatore dall'esercito nel 284 d.C. in seguito all'assassinio di costui, intraprese un'energica restaurazione dell'autorità imperiale che pose fine a un lungo periodo di anarchia militare e di confusione politica e amministrativa.
Perfezionò l'evoluzione del principato verso il dominato, accentuando il carattere autocratico e sacrale del potere: " Primus omnium Caligulam post Domitianumque dominum palam dici passus et adorari se appellarique uti deum " (Aurelio Vittore Liber De Caesaribus XXXIX 4): Tuttavia il cardine delle riforme intraprese da Diocleziano fu la creazione della tetrarchia, istituto che ripartiva il peso del potere e della responsabilità imperiale fra due Augusti (Diocleziano stesso, in posizione preminente, e Massimiano) e due Cesari destinati alla successione. Al ristabilimento della situazione militare e a un risanamento che non fosse solo amministrativo ed economico, ma anche religioso e morale, mirava probabilmente anche la persecuzione contro i cristiani ordinata nel 303; la quale, violentissima, procurò a Diocleziano nella tradizione storiografica medievale la taccia di pessimo tra gl'imperatori, sulla base del fosco e tendenzioso ritratto che ne dà Lattanzio nel De Mortibus persecutorum (VII ss.; cfr. Orosio Hist. VII XXV 13 ss.; e per qualche strana eccezione A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1923, 188-189). Il 10 maggio 305, giudicando compiuta la propria opera e ormai avviato autonomamente il funzionamento delle nuove istituzioni, Diocleziano abdicò costringendo Massimiano a fare altrettanto e si ritirò a Salona in Dalmazia dove, amareggiato dal crollo del suo sistema, morì nel 313.
La rinuncia di Diocleziano a un potere assoluto e a onori divini è riferita con perplessità dagli storici: Aurelio Vittore testimonia di un'opinione che l'attribuiva a vile e occhiuta prudenza (" Imminentium scrutator, ubi fato intestinas clades et quasi fragorem quendam impendere comperit status Romani, celebrato regni vicesimo anno valentior curam reipublicae abiecit "); aggiungendo peraltro: " nobis tamen excellenti natura videtur ad communem vitam spreto ambitu descendisse " (Liber De Caesaribus XXXIX 48). La risonanza di questa decisione, che non ha altro esempio in un imperatore romano, fa comprendere come Pietro Alighieri, nella seconda (1350-55) e nella terza (entro .il 1358) redazione del Comentarium spiegasse If III 59-60 colui / che fece per viltade il gran rifiuto respingendo l'identificazione del personaggio più comune, e già da lui proposta nella prima redazione (1340-1342), con Celestino V e affermasse: " dicamus... quod auctor loquatur hic non de eo [cioè Celestino], sed de Dioclitiano, qui dum imperator existeret imperio renuntiavit ". Ma la chiosa non pare attendibile e non ha avuto alcun seguito (v. CELESTINO V).
Bibl. - G. Padoan, in " Studi d. " XXXVIII (1961) 115; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 393.