DOVARA (Dovaria, Doara, Duera), Buoso da
Figlio di Girardo "de Clochaferis", fu il principale esponente della nobile famiglia cremonese, con ampie ramificazioni genealogiche e vasti possedimenti, che a partire dall'XI secolo risulta far parte dei ceto dirigente cittadino.
Forte della sua ricchezza, del prestigio che godeva come uno dei capi dei "barbarasi", la parte ghibellina di Cremona, ma anche dei suoi buoni rapporti col gruppo dei mercanti e col popolo guelfo di Cittanova, il D. cercò, prima come alleato, poi come avversario di Ezzelino da Romano e di Oberto Pelavicino, di estendere la sua sfera d'influenza al di fuori di Cremona. La sua spregiudicatezza ideologica gli procurò, probabilmente a torto, la fama di traditore (Dante, Inf., XXXII, 115 ss.). Ma nonostante la pragmatica volontà di potere ed espansione il D. finì col naufragare nell'imprevedibile e mutevole gioco delle alleanzé e delle parti nell'Italia settentrionale. Non riusci a conservare la signoria di Cremona, abilmente conquistata, e dovette trascorrere in esilio gli ultimi decenni della sua vita.
Il D. è ricordato per la prima volta nel 1244 come podestà di Lodi, nominato dall'imperatore Federico II. Tre anni dopo lo troviamo podestà a Reggio Emilia, e sempre nel 1247 divenne signore di Sabbioneta, nel cui territorio la sua famiglia aveva proprietà. Nel giugno del 1248 il Comune di Soncino lo confermò podestà e signore per dieci anni; nel 1255 quest'ufficio gli fu concesso a vita.
Nel maggio del 1249, insieme con re Enzo, figlio di Federico II, venne catturato a Fossalta dai Bolognesi; fu liberato sul finire del 1251, per intercessione di Innocenzo IV. Restò legato a Enzo anche in seguito e lo aiutò tra l'altro in alcune transazioni finanziarie che riguardavano la scarcerazione, definitiva o temporanea, di prigionieri bolognesi ancora detenuti a Cremona. Enzo gli affidò anche la protezione di sua figlia. D'altronde pure il D. e Gandiono da Dovara (probabilmente suo cugino) fecero dei propri prigionieri una lucrosa fonte d'entrata.
Ottenuta, nel luglio del 1253, la signoria su Staffolo e consolidato il proprio dominio su Soncino, al principio del 1255 il D. compare nuovamente a Cremona, dove tra il 1249 e il 1250 Oberto Pelavicino si era fatto "perpetuus dominus" della città, approfittando della lotta tra la ghibellina Società dei militi ("barbarasi") e la guelfa Società dei popolo di Cittanova ("cappelletti"), in parte rifugiatasi a Lodi. In veste di "potestas mercatorum" (1258), ovvero "perpetuus potestas mercadandiae" (dal 1261 in poi), il D. stipulò nel 1258 un trattato commerciale con Venezia e prese altre misure di politica economica, che contribuirono significativamente ad appianare temporaneamente i conflitti tra le fazioni e conseguentemente a stabilizzare la signoria del Pelavicino. Insieme con Gandiono (sposato con una sorella di Delfineto Pelavicino), partecipò a molti atti di governo di Oberto e diventò una sorta di suo luogotenente a Cremona dopo che il marchese aveva esteso la sua influenza su Piacenza, Pavia e Vercelli, ed infine anche su Milano, Parma, Novara, Bergamo, Tortona e Alessandria. Sostenne il Pelavicino contro il partito guelfo di Piacenza e insieme con lui stipulò un'alleanza con Ezzelino da Romano.
Nel 1258 i tre alleati riuscivano persino a conquistare Brescia, dove Gandiono, che già deteneva questa carica in altre città, diventò podestà. Ma sul dominio di questa città, su cui già in precedenza si erano accumulati dissapori e sospetti, si sfaldò la coalizione a tre. Nel giugno del 1259 Oberto e il D. si allearono con il marchese Azzo d'Este e con altre forze guelfe, contro Ezzelino. Nella cattura e morte di Ezzelino (tra Cassano d'Adda e Soncino) il D., animato da speciale rancore, pare abbia avuto un ruolo determinante, e così anche nel massacro di San Zenone del 1260, in cui perse la vita il fratello di Ezzelino, Alberico, con la propria famiglia.
Con Oberto Pelavicino, il D. fu il principale beneficiario della morte di Ezzelino. Già nel maggio del 1259 ottenne la signoria di Treviglio (probabilmente d'accordo coi Torriani di Milano), nel novembre quella di Orzinuovi nel territorio di Brescia e una cospicua rendita annua in natura dal partito dei fuorusciti bresciani che Ezzelino aveva cacciato dalla città. Nel 1262 diventò signore di Fara Olivana, un anno dopo "rector" di Bariano. Inoltre, dalla fine degli anni Cinquanta in poi incrementò l'acquisto di diritti d'uso su castelli e vaste terre nel contado di Cremona e acquistò contemporaneamente altre proprietà immobiliari in città. Dal 1264 risiedette in un nuovo palazzo, splendido quanto munito.
Ma anche con Oberto Pelavicino i rapporti furono sempre problematici. Già nel 1261 il marchese, con l'appoggio di una fazione della nobiltà bresciana, cercò di sottrargli il dominio su Orzinuovi, ma invano poiché il D. fu informato del progetto. Un nuovo Mutamento dei rapporti di forza nell'Italia settentrionale indebolì di lì a poco la posizione del Pelavicino e avvicinò la resa dei conti. Nell'estate del 1265, per iniziativa di Filippo Della Torre, che aveva già spodestato il Pelavicino a Milano, i guelfi, tra cui, in testa a tutti, Obizzo d'Este, ma anche il marchese del Monferrato e il conte di Savoia, si allearono con Carlo d'Angiò, aspirante alla corona siciliana. Questo patto era espressamente rivolto contro Manfredi di Sicilia, Oberto Pelavicino e il D., e avrebbe dovuto aprire alle truppe francesi la via verso l'Italia centrale e meridionale. Sebbene il D. e il marchese Pelavicino, con forze molto inferiori di quelle degli avversari, tentassero di sbarrare loro il passaggio dell'Oglio a Soncino e Orzinuovi, alla fine del 1265 gli invasori varcarono il fiume indisturbati più a settentrione, presso Palazzolo, unendosi a Mantova con le truppe estensi. Quest'episodio, soprattutto, alimentò il sospetto che il D. fosse stato corrotto dall'"argento de' Franceschi" (così Dante nell'Inf., XXXII, 115).
Oberto Pelavicino perse Brescia che passò ai Torriani e l'influenza su quasi tutti gli altri Comuni, con le sole eccezioni di Cremona e Piacenza. Dopo la sconfitta di Manfredi di Svevia nella battaglia di Benevento (febbraio 1266), ancor più isolato il marchese cercò di mettersi in contatto con Clemente IV, ma indipendentemente da lui anche il D. e Ubertino di Lando (de Andito), suo luogotenente a Piacenza, perseguirono un accordo con la Curia romana. Di fronte al massiccio predominio della "pars Ecclesiae", che nel marzo del 1266 aveva ulteriormente rafforzato l'alleanza con l'Angiò, ciascuno cercò il proprio tornaconto, senza curarsi degli altri.
Con l'aiuto dei legati pontifici, che fin dall'estate facevano la spola tra Piacenza e Cremona, attizzando ovunque il conflitto tra le parti invece di sedarlo, nel novembre del 1266 il D. riuscì a spodestare Oberto, ricacciandolo a Piacenza; poi, con il concorso dei Pavesi, lo neutralizzò, ottenendo la carica di podestà, che affidò a un proprio parente, Girardino da Dovara.
A Cremona, invece, il D. riuscì a conservare la sua signoria solo per poco tempo. Per tutto il lungo periodo in cui era stato podestà dei mercanti egli si era adoperato per un compromesso tra i barbarasi e i capelletti; nel novembre del 1266 si fece persino eleggere "perpetuus potestas et dominus communitatis et universitatis omnium hominum Citanovae", sperando di ottenere l'appoggio dell'irrequieto centro del partito guelfo cremonese. Ma anch'egli dovette soccombere di fronte all'azione sotterranea e decisa degli inviati pontifici che, a Cremona come a Piacenza, lavoravano per i guelfi fondando un "Consorzio di fede e pace". Nella lotta per il potere, in cui intervennero anche i seguaci del Pelavicino, il D., che non si era voluto piegare ai legati del papa, fu bandito da Cremona nell'aprile del 1267.
Nel maggio seguente si tenne a Romano una grande ma infruttuosa conferenza di pace di città e signori guelfi, che tolse al D. le proprietà e le signorie nel Bresciano (Orzinuovi) e nel Bergamasco (Fara Olivana e Bariano). Il D., a differenza del Pelavicino, non era stato escluso dal convegno, ma non si era fidato e aveva riparato nel castello di Rocca (Villarocca a Pessina Cremonese) sull'Oglio, portando con sé tesori e famiglia: la figlia Lisia, il nipote Guglielmo, nato dal matrimonio di Antoniolo (precocemente defunto) con Antoniola Oldoini, Gandiono da Dovara, la figlia Filippina, suo marito Cavalca degli Amati e il fratello di quest'ultimo, Folco. Assediato da Cremonesi, Milanesi e altre forze della "pars Ecclesiae", riuscì a difendersi grazie all'appoggio di Mastino Della Scala e fu lì che nel gennaio del 1268 Corradino di Svevia, con l'aiuto del D., varcò l'Oglio. Ma anche stavolta le speranze ghibelline, riposte nell'ultimo degli Svevi, andarono deluse.
Il castello di Rocca sostenne vari assedi e capitolò solo nel luglio del 1269. Ma il D. già nell'agosto dell'anno precedente era andato a Verona, cercando invano di reclutare nuove truppe. Di lì passò a Lodi nel novembre e quindi, nel luglio successivo, a Pavia, dopo che Lodi si era alleata con i Torriani. Nel frattempo aveva perso i suoi possedimenti nella città e nel contado di Cremona, anche se una parte delle terre rimase agli eredi (sua figlia Lisia e suo nipote Guglielmo). Come "ancianus partis extrinsecae imperii de Cremona", con altri esuli ghibellini, si oppose tenacemente alla sua città e alla "pars Ecclesiae", ma senza successo.
Verso la fine del 1271, con altri capi ghibellini, giurò fedeltà al re Alfonso X di Castiglia, proclamatosi "rex electus Romanorum"; nel 1274 si recò personalmente in Spagna, per rilevare delle truppe castigliane, con cui l'anno seguente affrontò i Torriani. Nel 1278 si unì al marchese del Monferrato, nuovo capo delle forze ghibelline. Con l'appoggio suo e dei Visconti, nel 1281-82 riuscì a impossessarsi di Crema, Soncino e Romanengo. Ma, a poca distanza dal traguardo, l'improvvisa alleanza tra Milano e Cremona, contro di lui e i Torriani, spazzò via i suoi progetti che gli avrebbero permesso di tornare in patria. Da allora, pare che abbia abbandonato le sue ambizioni su Cremona. Nel 1285 venne eletto podestà di Vercelli, nel 1287-88 dimorò ancora a Pavia, da dove si trasferì infine a Verona. Fece testamento a Pavia nel giugno del 1288, dichiarando suo nipote Guglielmo erede principale e lasciando quasi tutto il resto a Ordini mendicanti e ospedali.
Il D. morì a Verona, probabilmente tra l'agosto e il settembre del 1291.
L'ascesa politica del D. era stata accompagnata da un'abile strategia di investimenti fondiari della quale siamo bene informati attraverso i registri del notaio Olivero de Salarolis. Gli acquisti, avvenuti durante tutto l'arco del ventennio che vide il D. al potere a Cremona, furono particolarmente numerosi tra il 1260 e il 1266, gli anni dell'apogeo della sua potenza. Abbiamo testimonianza di più di centoventi acquisti: case a Cremona e castelli, terre e decime nel contado, per i quali il D. spendeva centinaia se non migliaia di lire all'anno. Altri beni gli erano concessi in feudo, senza contropartita né di servizio né di fedeltà, il che equivaleva in pratica ad una pura e semplice donazione. Tuttavia dietro tutte queste operazioni è facile indovinare le pressioni esercitate dal D. in quanto consignore della città. Nel giro di pochi giorni intere consorterie, come i Tinti, i Biaqui, gli Oldoini, i Mariani, gli Ardenghi, gli Avvocati, i Maltraversi, gli Obici, e altri, cedettero i diritti di proprietà sui loro castelli o le loro torri cittadine. Lo stesso genere di pressioni spinse le Comunità rurali, più o meno di buon grado, a eleggere il D. loro podestà. Il fatto che nella persona del D. si fossero accumulati poteri d'ordine diverso (politico, militare, feudale, fondiario) è un fenomeno notevole: infatti, sara proprio questa molteplicità di mezzi la base delle signorie urbane che a mano a mano andranno costituendosi.
Le acquisizioni del D. si ripartivano secondo una geografia dai contorni ben precisi: in città si raggruppavano attorno alla porta Ariberti, la stessa che verso il 1030 sarebbe stata consegnata ai Dovara dall'arcivescovo di Milano e nel dintorni della quale si trovavano da sempre le case e i clienti della famiglia. Il D. acquistò torri e case nelle più immediate "vicinie": S. Pietro, S. Sofia, S. Bartolomeo, S. Trinità, S. Nicola, Mercato Coperto. All'interno del contado egli rafforzò i territori demaniali che già da tempo appartenevano ai Dovara: di questi, il principale si estendeva lungo l'Oglio, tra Isola Dovarese e Gabbioneta. In questa zona il D. comprò il castello di "Costa Ripae Olii", la motta fortificata di Cicognolo e inoltre terre, diritti signorili e decime. Egli poteva poi contare sul castello di Carzago (comprato nel 1241-42 da Girardo da Dovara), sui villaggi di Monticelli e di Isola (controllati già da tempo dalla sua famiglia) e soprattutto sul castello di Rocca (oggi Villarocca), il più importante punto di difesa, dove nel 1267 si arroccarono i partigiani del Dovara. Allo stesso tempo accrebbe i possedimenti dei Dovara alla confluenza dell'Oglio e del Po: egli vi comprò il castello, la motta e la signoria di Rivarolo del Re, il castello di S. Giovanni in Croce, quello degli Ardenghi a Casalmaggiore e si costituì un podere a Solarolo Rainerio e un altro a Sabbioneta, di cui era stato proclamato signore. Acquistò inoltre terre intorno a Monticelli d'Ongina, altro centro di potere tradizionale dei Dovara.
L'entità dei beni accumulati dal D. è rilevata, anche se solo in parte, dai suoi testamenti del 1269 e del 1288. Quello del 1269 divideva tra il nipote del D. Guglielmo e la figlia Lisia 788 ettari di terreni, la metà delle terre del D.; l'altra metà era stata confiscata dal Comune di Cremona, che ne vendeva una parte tra il 1288 e il 1297. Il testamento del 1288 non elenca dettagliatamente le proprietà fondiarie lasciate in eredità a Guglielmo, ma enumera legati in denaro per un totale di 6.000 lire, e ricorda inoltre 7.000 lire che sarebbero state rubate al D. dalla nipote Filippina, che l'aveva abbandonato dopo la sua sconfitta e si era anche impadronita di alcune terre. Gran parte delle proprietà del D. (e così pure dei suoi archivi) giunse alla fine nelle mani dei Gonzaga, attraverso il matrimonio di Anna, figlia di Gandiono da Dovara, con Filippino Gonzaga (1322).
F. Menant
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E. Voltmer-F. Menant