MONTEFELTRO, Buonconte di
MONTEFELTRO, Buonconte di. – Figlio forse primogenito di Guido e di Manentessa di Guido conte di Giaggiolo, nacque nel sesto decennio del secolo XIII ed era ancora giovane quando trovò la morte nella battaglia di Campaldino l’11 giugno 1289. Educato al mestiere delle armi, fu creato cavaliere, stando a quanto riferisce Sansovino (1670), da Rodolfo d’Asburgo. La sua breve vicenda biografica ruota interamente intorno alla città di Arezzo, della quale fu capitano del Popolo nel primo semestre del 1289, e va considerata come complementare alla fervente attività politica e militare condotta dal padre in Toscana per ricompattare la lega ghibellina.
Nel corso del 1287 si era instaurato in Arezzo un governo popolare che obbligò i ghibellini a fuoriuscire e iniziò una lotta contro il vescovo Ugolino degli Ubertini. Ma i magnati, guelfi e ghibellini insieme, si accordarono per rovesciare il reggimento popolare e ritornarono fedeli al vescovo. Ciò permise all’Ubertini di rientrare in città nel giugno di quello stesso anno, di sciogliere le arti e quindi di cacciare i guelfi, compresi i capi che lo avevano sostenuto, i quali si rifugiarono a Firenze.
Buonconte con il suo podere (Villani 1990-1991) concorse alla cacciata dei guelfi da Arezzo, essendo ricordato da più cronache come uno degli artefici principali di questo episodio, insieme con i Pazzi di Valdarno, gli Ubertini, i Lamberti e altri fuoriusciti ghibellini da Firenze. I fiorentini, preoccupati per la nuova minaccia, si misero in allarme e il 1° giugno 1288 mossero l’esercito alla volta di Arezzo, nonostante un infruttuoso tentativo di mediazione del papa. Tentato un inutile assedio, l’esercito guelfo corse per sfregio il palio di s. Giovanni (24 giugno) sotto le porte della città e il giorno dopo tolse l’assedio. Ma il ripiegamento fu condotto in modo tatticamente sbagliato, poiché il contingente senese, di circa 3400 uomini, si separò dal corpo di spedizione principale, forte secondo Villani (ibid.) di 2600 cavalieri e 12.000 fanti, allo scopo di prendere il castello di Lucignano. I due capitani aretini, Buonconte e Guglielmino de’ Pazzi, riuscirono a precedere i senesi con una parte delle loro milizie e li attesero alla Pieve al Toppo, a pochi chilometri da Arezzo, che era un punto di passaggio obbligato per guadare la paludosa Val di Chiana. Attaccati di sorpresa mentre erano ancora in formazione di marcia, i senesi furono duramente battuti e persero almeno 300 uomini. La battaglia provocò un consolidamento della fazione ghibellina e certamente valse a Buonconte la fama di capace condottiero. Fu forse anche questo successo del figlio che spinse Guido da Montefeltro ad accettare, dopo tre anni circa di inattività e di confino, la carica di podestà e capitano del Popolo di Pisa nel corso del 1289. Mentre Guido riarmava l’esercito da Pisa, intratteneva rapporti diplomatici con il re aragonese per spingerlo all’azione e iniziava una guerra di logorio contro Firenze nella Toscana nord-occidentale, Buonconte era capitano del Popolo ad Arezzo e comandava anch’egli scorrerie e distruzioni nella Toscana orientale e meridionale. Evidentemente, si poteva prospettare un «attacco combinato» (Franceschini, 1970, p. 126) contro Firenze, operazione che avrebbe permesso un ritorno dell’egemonia ghibellina in tutta la Toscana. Consapevole di questa emergenza, il 7 aprile 1289 papa Niccolò IV intentò un processo contro Guido, Buonconte e Galasso da Montefeltro, che era luogotenente di Guido a Pisa. Tuttavia, la mossa a tenaglia non fu tentata e anzi l’esercito fiorentino ebbe la possibilità, nel giugno successivo, di marciare alla volta di Arezzo e di schierare le truppe per la battaglia campale senza venire contrastato.
Gli aretini, e sopra tutti il vescovo Ugolino, provarono a negoziare, ma senza ottenere risultati. Secondo quanto racconta Benvenuto da Imola, Buonconte, «iuvenis strenuissimus armorum», sarebbe stato inviato dal vescovo Ubertino a Bibbiena prima della battaglia, per valutare la consistenza delle forze nemiche. Buonconte sarebbe tornato affermando che per nessuna ragione si sarebbe dovuto combattere. Il vescovo gli avrebbe risposto tacciandolo di vigliaccheria e dicendo che non poteva di certo appartenere alla casa di Montefeltro, al che Buonconte avrebbe risposto: «Si veneritis, quo ego, numquam revertemini» (1887, p. 157).
Sabato 11 giugno 1289, giorno di s. Barnaba, fu combattuta la battaglia di Campaldino, nei pressi di Poppi in Casentino, considerata uno dei fatti d’arme più importanti tra quelli avvenuti in Italia centrale durante tutto il Medioevo, grazie soprattutto ai grandiosi racconti che ne fecero Giovanni Villani e Dino Compagni (il quale rivestiva la carica di priore proprio in quei giorni, e dunque era molto ben informato) e al fatto che vi partecipò Dante Alighieri.
Le forze erano molto diseguali. I guelfi fiorentini, pistoiesi, lucchesi, bolognesi, senesi, sanminiatesi, insieme con Maghinardo Pagani da Susinana, schierarono circa 1600 cavalieri e 10.000 fanti al comando di Aimeric de Narbonne, coadiuvato da Guillaume de Durfort. Gli avversari, invece, erano «il fiore de’ Ghibellini di Toscana, della Marca, e del Ducato, e di Romagna, e tutta gente costumati in arme e in guerra» (Villani [1990-1991], lib. VIII, 131), in numero di circa 800 cavalieri e 8000 fanti, comandati da Buonconte, da Guglielmino de’ Pazzi e dal vescovo Ugolino. I fiorentini, dunque, avevano «due cotanti cavalieri di loro» (ibid.), ma i ghibellini li sfidarono ugualmente a combattere. La battaglia si svolse nel corso dell’intera giornata. Partirono all’assalto i ghibellini, che però dovettero indietreggiare per l’aiuto portato ai guelfi dalle riserve della cavalleria pistoiese di Corso Donati, allora podestà di Firenze, il quale li attaccò di fianco e li mise in rotta, mentre la riserva ghibellina comandata da Guido Novello dei conti Guidi non interveniva, ritirandosi «sanza dare colpo di spada» (Compagni [2000]).
La mischia fu furibonda e si concluse con la disfatta dei ghibellini, che ebbero almeno 1700 morti e 2000 prigionieri. Rimasero sul campo tutti e tre i comandanti ghibellini, oltre a molti altri cavalieri tra cui i figli di Manente (Farinata) degli Uberti. Tra i comandanti di parte guelfa morì Guillaume de Durfort. La battaglia ebbe conseguenze disastrose per la lega ghibellina e si può considerare l’ultimo grande scontro armato tra le due fazioni, benché nell’immediato non sortisse effetti tattici rilevanti, in quanto i fiorentini non riuscirono a conquistare Arezzo, pur avendola posta sotto assedio.
Il cadavere di Buonconte non fu mai ritrovato. Sulla sua sparizione sono state fatte diverse congetture, nessuna delle quali è però documentabile. Per esempio si è ipotizzato che Buonconte avesse voluto portare i suoi uomini fuori dallo scontro e che, raggiunto dai fiorentini ormai lontano dal campo, fosse stato ucciso; ma in realtà questa ipotesi sembra riprendere il comportamento tenuto da Guido Novello. La scomparsa del cadavere, che si può forse crudamente attribuire al suo essere divenuto irriconoscibile nella mischia, e il ricordo idealizzato del giovane e prode cavaliere caduto in battaglia, materia colma di un pathos che trascende le età, dovettero dare presto adito a leggende, poi riprese da Dante nel canto V del Purgatorio, del quale Buonconte è il personaggio principale.
Morto troppo giovane per avere avuto il tempo di divenire un protagonista di fatti storici, Buonconte è comunque uno dei personaggi più famosi della casa di Montefeltro: Dante lo colloca nell’antipurgatorio, tra le anime di coloro che, periti di morte violenta, si pentirono all’ultimo momento e per questo furono salvati. Il racconto dantesco si apre con Buonconte che rivolge una breve preghiera al poeta perché lo ricordi ai viventi e li esorti a pregare per lui, e che poi si presenta con il proprio nome: «Io fui di Montefeltro, io son Bonconte» (Purg. V, 88). Rispondendo a una domanda postagli da Dante, Buonconte passa dunque a raccontare la propria morte: ferito nella gola, si allontanò dal campo di battaglia fino al torrente Archiano e lì cadde morto invocando la Vergine. Buonconte descrive l’ira dell’angelo infernale, che si vede privato dall’angelo di Dio di un’anima che era a lui destinata, e che si è salvata solo «per una lagrimetta» (Purg. V, 107). Il demonio, non potendo avere l’anima di Montefeltro, si vendica scempiandone il cadavere. Al cadere della notte si scatena un temporale che gonfia le acque dell’Archiano. La piena improvvisa travolge il corpo di Buonconte e lo getta nell’Arno, sciogliendo il segno di croce che questi aveva fatto con le braccia subito prima di morire, e nell’Arno, sbattuto contro le rive e sul fondo, Buonconte scompare sotto un cumulo di ghiaia.
La critica dantesca si è soffermata su questo episodio, soprattutto per chiarirne il valore autobiografico (secondo la testimonianza di Leonardo Bruni, Dante combatté infatti a Campaldino), senza però poter fornire nuovi dati biografici sul personaggio. Nicola Zingarelli e Giovanni Papini arrivarono a suggerire che Dante stesso potesse avere ucciso il giovane conte. I due personaggi della casa di Montefeltro citati da Dante, padre e figlio, sono evidentemente costruiti in antitesi l’uno rispetto all’altro. Mentre il primo non è individuato per nome e dichiara che risponderà al poeta solo perché è certo che questi non ritornerà nel mondo dei vivi, rischiando altrimenti l’infamia, Buonconte è fiero del proprio nome e desidera essere ricordato nel mondo. Soprattutto, la disputa sull’anima di Buonconte è da leggersi in simmetria con l’analoga disputa tra s. Francesco e il loico cherubino nero, che si contendono l’anima di Guido, ma con esito opposto.
Buonconte ebbe in moglie una certa Giovanna (nominata in Purg. V, 89) e una figlia di nome Riccarda (Ugolini, 1859, p. 91), o, più probabilmente, Manentessa, che fu sposa di Guido Salvatico dei conti Guidi, conte di Dovadola. Di lei parla Franco Sacchetti nella novella CLXXIX per una pronta risposta che richiama la terribile vicenda del conte Ugolino della Gherardesca. La donna, della quale Sacchetti non ricorda il nome, andò un giorno sul piano di Campaldino con una sua parente, figlia di Ugolino, anch’ella sposata a un Guidi: «or la figliuola del conte Ugolino si volse alla compagna e disse: “o Madonna tale, guardate quanto è bello questo grano, e questo biado, dove furono sconfitti i ghibellini da’ fiorentini; son certa che ‘l terreno sente ancora di questa grassezza”. Quella di Buonconte subito rispose: “Bene è bello, ma noi potremo morire prima di fame che fosse da mangiare”».
Il personaggio di Buonconte ebbe un qualche recupero durante il Romanticismo, soprattutto in un romanzo di Antonio Bartolini (La battaglia di Campaldino, Firenze 1876), che si conclude con la morte di Buonconte per mano di Corso Donati. La figlia Manentessa è protagonista di una novella di Emma Perodi, L’ombra del sire di Narbona (Fiabe fantastiche: le novelle della nonna, Roma 1892).
Fonti e Bibl.: Chronicon Senense, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XV, Mediolani 1729, ad annum 1289; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, a cura di N. Rodolico, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXX, 1, pp. 65 s.; L. Bruni, Historiarum Florentini populi libri XII, a cura di E. Santini, ibid., XIX, 3, pp. 75-77; o. Artwig, Quellen und Forschungen zur altesten Geschichte der Stadt Florenz, Halle 1880, II, pp. 220, 229- 323; Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, a cura di F. Lacaita, Florentiae 1887, III, pp. 156-164; Les registres de Nicolas IV [1288-1292], a cura di E. Langlois, Paris 1905, nn. 2174, 7096; G. Villani, Nuova cronica (sec. XIV), a cura di G. Porta, Parma 1990- 1991, lib. VIII, 115, p. 578; 120, p. 586; 131, p. 602; F. Sacchetti, Il trecentonovelle, a cura di V. Marucci, Roma 1996; D. Compagni, Cronica (sec. XIV), a cura di D. Cappi, Roma 2000, I, 43, p. 15. F. Sansovino, Origine e fatti delle famiglie illustri d’Italia…, Venetia 1670, p. 312; F. Ugolini, Storia dei conti e duchi d’Urbino, Firenze 1859, I, pp. 90- 92; A. Bini, Arezzo ai tempi di Dante (1289-1308), in Atti e memorie dell’Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze, n.s., II (1922), pp. 1-58; L. Dominici, Il Montefeltro e i suoi tiranni nella Divina Commedia, Lanciano 1926, pp. 39-42; N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, Milano 1931, pp. 115 s.; G. Papini, Dante vivo, Firenze 1933, p. 110; R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1956-1968, III, p. 420 e ad ind.; G. Franceschini, I Montefeltro, Varese 1970, pp. 126-131, 172; La battaglia di Campaldino e la società toscana del ‘200, in Atti del Convegno. Firenze- Poppi-Arezzo... 1989, Firenze 1989; F. Canaccini, Gli eroi di Campaldino: 11 giugno 1289, Firenze 2002; Id., Ghibellini e ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (1260-1289), Roma 2009, pp. 162, 247, 260 s., 272; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, disp. 126, Conti del Montefeltro, duchi d’Urbino, tav. I; Enc. dantesca, I, pp. 779 s.; III, pp. 1017 s.; IV, p. 517.
Tommaso Di Carpegna Falconieri