BULGARO
Della vita di colui che fu considerato il più grande e famoso degli allievi d'Irnerio sappiamo ben poco. Il gusto per le biografie doveva cominciare più tardi; e i contemporanei di B. ci tramandarono soltanto alcuni aneddoti, ad illustrazione di qualche sua tesi o ad esaltazione della sua dottrina e della sua tempra morale. Perfino per il suo luogo di nascita siamo costretti a ricorrere a un argumentum ex silentio, che ha però un certo peso. Poiché il suo nome, "Bulgarus", o "Bulgarinus", o "Bulgarus de Bulgarinis", non è mai accompagnato da alcun attributo relativo alla sua patria, bisogna dedurne che egli nacque appunto a Bologna. Il Savigny ricordò anche, a questo proposito, che i cosiddetti "quattro dottori", cioè B., Martino, Ugo di Porta Ravegnana e Iacopo, furono definiti dall'irato Piacentino "miserabiles Bononienses"; ma Bolognesi erano detti i maestri della Scuola di Bologna con riferimento appunto più allo Studio nel quale insegnavano che non al luogo d'origine.
Del resto, che Bologna gli avesse dato i natali era già affermato da Guglielmo da Pastrengo, e poi dal Panciroli, dall'Alidosi e dall'Orlandi. Secondo il Sarti, fu proprio il Panciroli a scoprire le ragioni di un'opinione erronea, ma abbastanza diffusa presso gli antichi, che faceva B. pisano. L'errore, già contenuto in alcuni manoscritti della Glossa accursiana (ad Dig. Vet., l'ult. fin. reg. = D. 10, 1, 13, alle parole "sciendum est"), dipendeva da una falsa lettura ("Bulgarus" per "Burgundio"), già peraltro identificata da Odofredo (Comm. ad Dig. Vet., De leg. et Senatusconsult., l. nam et Demosthenes), odallo scambio tra B. e "Bandinus", come avviene in un passo di Bartolo da Sassoferrato (Comm. ad Cod., l. Ac consultissima, tit. Qui testamen. facere possint = C. 6, 22, 8), anche qui per un errore del copista. Bisogna però aggiungere che pisano lo riteneva ancora lo stesso Diplovataccio, che comincia la pagina dedicata a lui con le parole: "Bulgarus, natione Pisanus...".
Ignoto ci è anche lo stato sociale della sua famiglia. Nonostante vi fossero famiglie nobili con quel nome in altre città italiane, il Savigny concluse che nobile non fu. Di famiglia agiata dovette però trattarsi, perché agli studi giuridici si accedeva allora dopo aver frequentato la scuola di arti liberali; un lusso riservato agli abbienti. Inoltre si sa che egli sposò due volte e che dalla prima moglie ebbe diversi figli, due dei quali di nome Bonaccursio e Bulgarino. Uno dei figli pare diventasse anche dottore. Dal secondo matrimonio con una vedova di nome Imelda non ebbe figli. Accursio e Odofredo, sulla scia diAzzone e di Giovanni Bassiano, raccontano che gli studenti scoppiarono a ridere quando, il mattino seguente il matrimonio, B. affrontò il commento della l. 14 del libro 3, tit. 1 del Codice, che comincia con le parole: "Rem non novam neque insolitam adgredimur"; uno dei tanti episodi, veri o falsi, con i quali si circondava la memoria degli uomini famosi e che corrispondevano al gusto, un po' pesante, dominante nell'ambiente scolastico di quel tempo.
B. visse a lungo, almeno se si tien conto della media della vita umana di allora. Possiamo dedurlo da una frase di Odofredo ("vixit tanto tempore quod deductus est ad infantiam") e dalla combinazione di alcune date, quella della morte, 1º genn. 1166, peraltro certa per il giorno e il mese che troviamo nel Necrologium Rhenanum, men certa per l'anno, e altre, relative a qualcuna delle sue opere: la Summula de iuris et facti ignorantia, per la quale però il terminus ad quem del 1140 stabilito dal Kantorowicz appare oggi vacillante, e il trattato De iudiciis, dedicato ad un cancelliere di S. R. Chiesa in carica tra il 1123 e il 1141; uno spazio di diciotto anni, dal quale è arduo dedurre delle conclusioni. Il Kantorowicz ha ritenuto però di stabilire su questa base che B. dovette nascere un po' prima del 1100 e cominciare il suo insegnamento prima del 1115. Una vaga concordanza è anche possibile trovare tra queste date e quelle del suo maestro Irnerio, che insegnò diritto tra la fine del sec. XI e gli anni intorno al 1125. Nessuna valida testimonianza sulla lunga vita di B. può invece esser tratta da una canzone elogiativa scritta per il figlio di Martino, Guglielmo, che nei versi 41-44 dice: "Vivat diu iuvenis iuventutis bone / Maior erit Bulgaro, doctior Ugone /, Iacobum iam superat lepido sermone /. Isti sunt tres domini, tribus hunc prepone". Il Kantorowicz ha sostenuto che qui "maior", riferito a B., si deve tradurre "più vecchio" e non "più grande". Quest'ultima interpretazione sarebbe "scarcely compatible with the context". Ma è un'affermazione gratuita. L'autore della canzone, che aveva posto al di sopra e fuori del novero degli altri tre dottori Martino, ben poteva augurare al figlio di imitare il padre, diventando, come quello era stato, più grande di B., più dotto di Ugo e miglior oratore di Iacopo.
Comunque, B. entrò come giovane allievo di Irnerio nell'epopea bolognese. Ottone Morena, imitando in un passo della sua Historia Laudensis la narrazione che Aulo Gellio fa nelle Noctes Atticae della morte di Aristotele, immagina che anche Irnerio morente, ai quattro allievi accorsi presso di lui, cantasse in due versi famosi i loro meriti e designasse il suo successore: "Bulgarus os a(u)reum, Martinus copia legum, / Mens legum est Ugo, Iacobus id quod ego". Se quell'epiteto di "Os aureum", con il quale fu infatti rispettosamente chiamato dai posteri il famoso giurista e che corrisponde al greco "crysostomos", gli fosse attribuito per la sobria sapienza del suo insegnamento e non soltanto, come volle il Panciroli, "cum venusta etiam pronunciatione (sc. B.) doceret", par certo. Che egli venisse ricordato per primo dipendeva d'altronde da un ordine tradizionale, quasi costante nel posporre il nome di Martino a quello di B., non altrettanto nel ricordare gli altri due più giovani e men famosi maestri. Ed era un ordine nel quale non si volle, o non si volle soltanto, indicare l'età di ciascuno secondo una successione cronologica; ma la fama ed il seguito, di cui B. godé in maggior misura degli altri.
Testimonianza della celebrità dei "quattro dottori", e specialmente dei primi due, è del resto il ricorso che, secondo gli antichi scrittori, l'imperatore fece ad essi più volte, probabilmente consigliatone dal suo grande cancelliere, Rainaldo di Dassel. Ne parla genericamente Odofredo, in un luogo del suo commentario al Codice:"Olim, sicut fertur a maioribus nostris, quando imperator Fridericus senior regnabat in Italia, dominus Martinus et Bulgarus legebant in civitate ista, et dominus Fridericus utebatur consilio dominorum Martini et Bulgari, et unusquisque multa a principe habuit, et in arduis quaestionibus recurrebat ad eos". Lo Pseudo-Ottone Morena, lo stesso Odofredo ed Accursio, seguiti dal Saliceto, da Pietro da Bellapertica e da un antico Libro di novelle citato dal Savigny, ci narrano poi, e non sempre nell'identico modo, di un episodio nel quale la fantasia si mescolò probabilmente con fatti realmente accaduti, per esaltare la grande importanza assunta dal pensiero di quei giuristi nella soluzione dei massimi problemi giuridici e politici dell'Impero. Dopo la morte d'Irnerio, dunque, l'imperatore, cavalcando tra B. e Martino, "exquisivit ab eis, utrum de iure esset Dominus mundi". B. rispose che l'imperatore non era "dominus quantum ad proprietatem": Martino invece dette il parere opposto; al che Federico, sceso di sella, gli fece dono del suo cavallo. B. avrebbe allora amaramente commentato: "Amisi equum, quia dixi aequum, quod non fuit aequum". Che nell'episodio possa leggersi anche un maggior favore dell'imperatore per Martino, che altre narrazioni dello stesso genere confermano, non è inverosimile. La maggiore duttilità della teoria martiniana poté ben procurargli la benevolenza imperiale come, e questo lo sappiamo, un largo accoglimento nella pratica e negli statuti cittadini.
Dalla leggenda, però, si esce a poco a poco quando ci si riferisca ad alcuni atti legislativi, l'autentica Sacramenta puberum, emanata in uno degli anni tra il 1155 ed il 1167, e l'autentica Habita del 1158. La prima era stata provocata da un rescritto di Alessandro Severo (C. 2, 27, 1) e dal dissenso sorto sulla sua interpretazione tra B. e Martino. Il rescritto negava al minore che avesse confermato con giuramento un contratto di compravendita la possibilità di chiedere la "restitutio in integrum" - B. aveva però chiarito che ciò poteva avvenire solo nel caso che l'obbligazione del minore fosse valida; Martino, al contrario, aveva sostenuto che il giuramento confermava anche l'obbligazione non valida. Federico I adottò la soluzione di Martino, non conforme al diritto romano, ma evidentemente più rispondente al modo di pensare del tempo, se anche il diritto canonico l'accolse. La questione, che ebbe un'eco enorme nella dottrina medievale, è condita nei vari autori con i soliti aneddoti, che attribuiscono la vittoria di Martino alla sua influenza personale sul sovrano.
I quattro dottori, o i loro scholares, provocarono anche la pubblicazione della seconda costituzione (Habita), alla quale i primi prestarono comunque la loro sapienza giuridica. Quella legge era destinata a rimanere fondamentale per la vita delle università medievali.
Ma nei grandi avvenimenti politici del sec. XII B. entrò, insieme con gli altri tre, nel 1158, allorché l'imperatore li interpellò sulla questione dei diritti di regalia a lui spettanti in Italia. La drammaticità di quel ricorso alla scienza bolognese da parte dell'Impero trapela dalle storie di Ottone e di Radevico, dove si dipinge la perplessità dei quattro dottori e si indovina il popolo delle città italiane pendere dalle labbra di quei giuristi e precipitare nella delusione e nell'onta a causa del loro responso. La questione concerneva una materia non propriamente romana. Ma dalla conoscenza delle fonti giustinianee e dalla sapienza giuridica acquistata con il loro studio ben potevano trarsi i criteri per risolverla. E così i dottori bolognesi fecero, non distratti dalle passioni politiche, con l'obiettività di chi sa di compiere una funzione quasi sacerdotale, deducendo dall'idea della maestà imperiale le conseguenze necessarie. I quattro dottori, a sentire almeno Goffredo da Viterbo, si rivolsero all'imperatore chiamandolo "lex animata" ("Tu lex viva potes dare, solvere, condere leges, / Stantque caduntque: duces, regnant te iudice reges; / Rem, quocumque, velis, lex animata geris") e traendo termini e concetti dalla Novella 105, c. 4. Se non la forma, il pensiero era comunque questo.
Che B., come sommo conoscitore del diritto romano, esercitasse anche la professione legale, risulta da alcuni documenti redatti per cause di particolare importanza, e dall'appellativo di "causidicus" con il quale, come già Irnerio, è talvolta indicato. Che quei documenti ci conservino soltanto una pallida eco di tale sua attività e che ben più frequentemente di quanto da essi non risulti B. sia stato richiesto di consiglio, abbia difeso in giudizio ed abbia anche esercitato funzioni di giudice, è molto probabile. Si deve notare, però, che il primo ricordo di ciò è contenuto. in uno spropositato documento dell'8 luglio 1151, nel quale egli figura come delegato del papa Eugenio III in una lite tra un ecclesiastico e dei laici. Se ne dovrebbe dedurre che in cause di tanta importanza e con così elevate funzioni egli comparisse soltanto nell'ultima parte della sua vita, quando la sua fama si era consolidata. Ma prima di ciò egli sarà stato più volte avvocato e giudice, perché l'attività pratica, che consentiva di applicare ai casi della vita la nuova scienza del diritto romano, accompagnò il magistero dei professori bolognesi fin dagli inizi dello Studio.
Nel documento citato, che il Savigny non conosceva e che fu pubblicato dal Ficker, si aggiungeva che la causa fu decisa nella casa di B. ("Actum in Guaita Marchionis in domum et sede predictus donnus Bulgarus...") situata nella allora via Marchesana, divenuta poi via de' Foscherari, che limitava a nord l'archiginnasio. Più esattamente la casa di B. doveva essere situata nel vicolo della Scimia, che sboccava appunto in via de' Foscherari. Questa casa, acquistata poi dal Comune, e divenuta la sede del podestà, avrebbe conservato il nome di B., unito a quello di "Curia" perché vi si tenevano i giudizi. Lo proverebbero un documento del 1198, pubblicato dal Sarti, "Actum in domo quondam domini Bulgari, ubi moratur prefata potestas" e le allusioni, frequenti negli antichi autori, - a una consuetudine scritta "in curia Bulgari", che corrisponderebbe alla "curia palatii communis" di un documento del 1204. Gli antichi, confondendo la funzione di giudice esercitata talvolta da B. con queste posteriori testimonianze, ne dedussero che il nostro giureconsulto avesse anche rivestito la carica di vicario imperiale. Ma la conclusione è manifestamente erronea; e del resto il vicariato non fu concesso ad alcuno dei maggiori maestri dello Studio.
Che invece B., con gli altri dottori, sedesse quale assessore nel tribunale podestarile è provato da un documento del 24 marzo 1154, nel quale a lui si allude come "causarum et legis doctor". Il 9 aprile dello stesso anno B., Martino, Ugo e Iacopo, "causidici et legum doctores", intervennero come avvocati in una causa d'appello tenutasi a Bologna davanti al cardinale Ildeprando, delegato papale, e, in quanto tali, "huic sententiae interfuerunt". L'8 ott. 1159 un altro documento ce lo presenta come "DominusBulgarus causidicus cognitor controversiae quae vertebat inter canonicos..."; e finalmente da Azzone (Lect. in Cod., l. 10, de don. inter vir. et ux. [5, 16]) si sa che, avendo per avversario Rogerio, patrocinò nel 1162 gli interessi del conte di Barcellona contro i conti di Baux per il possesso della Provenza, rimanendo soccombente.
La produzione scientifica di B. fu copiosa. Alle glosse apposte a tutte le parti del Corpus iuris si deve aggiungere un commentario al tit. de regulis iuris (50, 17) del Digesto composto prima del 1141, poi arricchito da Piacentino, che è il primo apparatus della scuola bolognese ed è opera insigne per profondità, acutezza, concisione e correttezza formale. Viene poi un tractatus, il cuititolo De iudiciis (anche De arbitriis, come si legge in alcuni mss.) corrisponde però soltanto ai primi tre paragrafi sui quattordici che lo compongono, perché ad una prima parte dedicata al diritto processuale fanno seguito delle osservazioni su regulae iuris. L'importanza di tale trattato, che porta il titolo assegnatogli dal suo primo editore, Nicolaus Rhodius, che lo pubblicò come il terzo libro del Libellus de varietate actionum di Piacentino nel 1530, dipende in primo luogo dal fatto di essere ancora una volta la prima opera di un genere letterario estremamente importante, dedicato ad una materia che, come quella del processo, univa i due aspetti scientifico e pratico e che doveva avere un peso immenso per lo sviluppo del pensiero bolognese e per il suo influsso sulla vita giuridica e sociale. A causa della grandissima parte riservata alla materia processuale nel Corpus iuris e, nello stesso tempo, della mancanza di una sua trattazione sistematica, i glossatori furono costretti ad abbandonare l'analisi del contenuto dei testi giustinianei secondo la falsariga offerta dalla loro successione e ad affrontare il problema di una trattazione organica di quanto era sparso in infiniti frammenti non collegati tra loro. B. si propose così per primo un problema delicatissimo di organizzazione razionale della materia, raccogliendo intorno ad un argomento complesso ma ben delimitato una dottrina che non offriva nel Corpus iuris alcun modello per questo. L'intimo contatto con la vita del diritto quale si andava effettivamente svolgendo ai suoi tempi suggerì a B. la necessità di spezzare il cerchio che impediva una visione soddisfacente del diritto processuale romano ed un suo più diretto ed efficace influsso sul processo del sec. XII.
La ratio, che aveva ispirato B. nel compiere questo passo decisivo, aveva quindi superato d'un colpo le angustie metodiche della dialettica del tempo, operando con una potente intuizione e con un procedimento che le trascendeva. La stessa potenza razionale e la stessa capacità di intuire le linee maestre ed essenziali del sistema sono contenute nella seconda parte della trattazione, dedicata alle regulae, vale a dire a principi generali del diritto. Il fatto che B. avesse rivolto l'attenzione a quei principi dimostra che, questa volta seguendo le orme dei giureconsulti del Digesto, egli aveva compreso l'importanza di un dominio razionale del sistema, mediante l'analisi delle regulae offerte dai Romani, condotta con il metodo della solutio contrariorum e con l'uso della logica scolastica. Si veda, ad esempio, il paragrafo "Quod nullius in bonis est, occupanti conceditur", per la proposizione: "Cum ergo dissimiliter ponatur 'nullius' in propositione et assumptione, quippe in propositione excludit homines, sed deum in assumptione, homines tamen non contexerit silogismus". La via per dominare la materia dall'alto era aperta; e doveva progredire con più arditi tentativi fino al Libellus disputatorius di Pillio.
Il De iudiciis è dedicato al cardinale Aimerico, cancelliere di S. R. Chiesa dal 1123al 1141 - "Karissimo amico et domine A(imerico)..." -, che se ne giovò per decidere una complicata causa nel 1125. Ciò è degno di nota: è la prima testimonianza di un rapporto scientifico tra un glossatore e la Chiesa romana.
Che B., anticipatore geniale di indirizzi e di metodi destinati ad avere poi grande fortuna nello Studio, avesse anche trattato di diritto feudale, è asserzione che si trova nei vecchi scrittori ma che non si ha alcun elemento per confermare. Già il Savigny negò ogni attendibilità all'Alvarotto, quando afferma che "Bulgarus enim et Pileus primitus glossaverunt" i Libri feudorum;e non sapremmo fare diversamente oggi di fronte alla proposizione del Diplovataccio che B. "scripsit etiam super librum feudorum; credo, qued fuerit primus, qui in dicto libro scripserit". Ma sicuramente sue sono invece altre opere, una piccola trattazione che in un manoscritto si trova di seguito alla Summa institutionum di Piacentino e che altro non è che una summula alla rubrica del titolo "De regula Catoniana" del Digesto (34, 7), che comincia con le parole "Quod medicamenta morbis" e finisce "et sic ea regula non pertinet ad novas leges"; ed altre tre summulae, scoperte e per la prima volta pubblicate dal Kantorowicz nel 1938. Le prime due, De stipulationibus e De dolo, erano delle lunghe glosse, rispettivamente al paragrafo 2 del D. 45, 1, 83e a quello del D. 43 3, 7, ed avevano per oggetto un solo problema ciascuna, per quanto comincino con definizioni e norme generali. La terza, De iuris et facti ignorantia, è invece, al pari del De regula Catoniana, una glossa ad una rubrica (D. 6, 1, 18) e riassumeva perciò un intero titolo o una sua parte. I caratteri intrinseci delle tre summulae (una non piena padronanza delle fonti e una stretta aderenza alla loro lettera nella De stipulationibus;una maggiore autonomia nella De dolo;ed infine una maggiore capacità di sintesi nella De ignorantia)indicherebbero in questa successione il rapporto cronologico delle tre operette, la prima delle quali soprattutto sarebbe un lavoro giovanile. L'ultima, invece, appare il frutto di un pensiero più maturo. Ma a fissarne il terminus ad quem al 1140, come ha voluto il Kantorowicz, non è più decisiva l'influenza che tale scritto avrebbe avuto sulla parte VIII e IX del dictum sulla prescrizione, che si trova in C. 16, qu. 3, del Decretum di Graziano nell'edizione del Friedberg, a causa delle nuove vedute sulla redazione dell'opusmaius del diritto canonico. È però da notare che un passo della summula dimostra che, per quanto giurista rigorosamente aderente alle fonti giustinianee, B. era sensibile anche al pensiero medievale e cristiano. Il passo (paragrafo 6) enuncia il principio: "plus est culpe, naturale ius ignorare quam civile", che non trova appoggio nelle fonti romane e che diverge dalla più corretta formulazione d'Irnerio in una glossa a D. 22, 6, 8: "In iuris errore eodem loco est naturale ius et civile". L'opinione di B. ebbe però accoglimento da parte di giuristi come Ugo, Azzone ed Accursio. Di lui sono conservate anche alcune distinctiones.
Un'altra opera, anch'essa scoperta e pubblicata dal Kantorowicz, è una raccolta di quaestiones che va sotto il nome di Stemma bulgaricum, dove "stemma" ha il significato di "ghirlanda". Delle quaestiones di B. conosciamo altre raccolte (Parisiensis,Gratianopolitana), ma la più antica è lo Stemma. Il Savigny non conobbe nessuna di esse, per quanto le ricordasse Alberico e, sulla sua testimonianza, ne parlasse il Diplovataccio nel suo De claris iuris consultis:"HicBononie legens maximo fuit in pretio et plures utiles questiones in iure nostro reliquit secundum Albericum in l. hac consultissima C. qui testamenta facere possunt". Si trattava di un certo numero di dispute (quaestiones disputatae)che si svolgevano tra studenti sotto la direzione del maestro e che riguardavano casi fittizi. Queste discussioni, che venivano riportate in iscritto da uno studente (quaestiones reportatae), formarono un genere letterario che ebbe vari sviluppi e forme nella scuola bolognese e che fu il solo che non derivasse dalle singole glosse. Le sue origini sono dunque dovute a B. ed il loro carattere risulta affine alle quaestiones quodlibetales della teologia, per quanto le quaestiones, le disputationes, i responsa contenuti nel Digesto e certe costituzioni giustinianee possano aver fatto sentire la loro influenza su di esse.
Le opinioni di B. ricorrono molto frequentemente in un altro genere di controversie, o effettivamente avvenute o create dall'autore delle raccolte contrapponendo le tesi sostenute dai maestri bolognesi, che vanno sotto il nome di Dissensiones dominorum. Nel proemio della collezione parigina di dissensiones B. e Martino sono chiamati i "duo capita" di due tendenze contrapposte; il che ha fatto pensare, non sappiamo con quanto fondamento, che i loro seguaci fossero in qualche modo organizzati.
L'impressione che si trae dalle dissensiones nelle quali è riferita la dottrina di B. lo conferma campione dello iusstrictum, in polemica con Martino, il cui favore per un'interpretazione più elastica, aperta verso l'aequitas, è ben noto. Vale a dire che B. rappresentò in Bologna la dottrina romanistica più rigorosa ed anche quella che riscosse tra i dotti i maggiori consensi, come conferma l'atteggiamento prevalente nello Studio nei confronti dei due grandi antagonisti e la denominazione di "nostri doctores" e, a quanto pare, anche di "Bononienses", con cui furono indicati i numerosi seguaci di B., in contrapposto ai "Gosiani", cioè agli aderenti alle tesi di Martino Gosia. Il peso della dottrina di B. fu, dunque grandissimo; e a confermarlo è sufficiente ricordare che le sue opinioni furono condivise certamente da giureconsulti della fama e dell'importanza di Giovanni Bassiano e di Azzone, nel mentre Iacopo, Ugolino, Carlo di Tocco, Iacopo Colombi, Odofredo lo seguono frequentemente e la Glossa accursiana è sulla sua scia. Ma anche un maestro come Piacentino, la cui opinione diverge spesso da quella di B., lo ricorda in molti luoghi con venerazione.
È proprio da un passo della Summa Codicis di Piacentino, infine, che si ha notizia di una materia Codicis composta da B.: "Vel, sicut egregie excogitavit Os aureum, omnium principum materia sunt tria: equitas rudis, ius approbatum, et quod servatur pro iure, ut ultime voluntates deficientium, legitime voluntates paciscentium". Queste parole corrispondono quasi letteralmente a quelle del manoscritto londinese (il famoso Royal Ms. II. B. XIV del British Museum), dove formano non un'introduzione ad una Somma al Codice, ma una glossa. Essa ebbe la funzione di modello per la "materia Codicis" di Giovanni Bassiano e per quelle delle susseguenti Summae Codicis, la Trecensis, la Londiniensis, le Somme di Rogerio, di Piacentino e di Azzone. All'influsso di B. può ascriversi anche la Summa Institutionum Vindobonensis, appartenente probabilmente alla sua scuola.
Lo stile letterario di B. fu, dati i tempi, corretto, conciso e lucido. Come poi Piacentino, anche lui si compiacque di comporre dei casus metrici. Se ne ricorda uno a C. 4, 36, 1, pubblicato dal Seckel. Se ciò si aggiunga che la prima discussione condotta secondo gli status ciceroniani è probabilmente quella di B. (Materia Cod., paragrafo 4) e che nell'appendice al suo Ordo Judiciarius B. aveva già discusso regulae iuris secondo il metodo delle solutiones contrariorum come abbiamo già ricordato, se ne può concludere che egli fu nelle arti liberali molto più preparato di altri. L'aspetto stilistico e letterario dell'opera di B. non può essere avulso, come accadde anche per Piacentino, dalla tendenza speculativa del suo pensiero.
Un'esatta valutazione dell'opera di B. non è però possibile allo stato delle nostre conoscenze. Si può dire soltanto che, derivando da Irnerio, il sommo padre della dottrina bolognese, l'impostazione della propria teoria, ne sviluppò la tendenza alla rigorosa penetrazione del testo, senza indulgere a forzature per il desiderio di adattare a situazioni consolidate ed alle necessità della vita contemporanea la lettera del Corpus iuris. Sotto questo profilo la dottrina di B., intesa ad una severa e scientifica ricostruzione del diritto giustinianeo, era, nonostante le contrarie apparenze e se si considerino le premesse da cui scaturì lo Studio bolognese, più rivoluzionaria di quella del suo antagonista Martino, che nella maggiore latitudine della sua interpretazione seguitava tendenze prebolognesi e prestava ascolto ad altri diritti che non il romano.
Gli aneddoti che la tradizione bolognese ci ha conservato e che contrappongono la tempra morale di B. a quella di Martino, che sarebbe stata assai meno salda, sono molto probabilmente un riflesso dell'adesione che la tendenza scientifica prevalente nello Studio manifestava nei confronti della rigorosa dottrina bulgariana e della riprovazione con cui viceversa voleva colpirsi quella dell'antagonista, che poteva apparire lesiva del diritto giustinianeo nella sua versione autentica.
La verità è che in B. si identificò un modo d'intendere il testo del Corpus iuris, di interpretarne la funzione e di stabilirne il rapporto con la società contemporanea che rimase caratteristico di Bologna; e fu un insegnamento che nessuno dei glossatori dimenticò, anche quando nuovi criteri di giudizio, nuovi problemi e nuove istanze si aggiunsero a quelli che avevano impresso alla dottrina di B. un segno inconfondibile.
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