BUDDHA
. Questo epiteto che significa "lo Svegliato, l'Illuminato" designa comunemente il Buddha storico, ma la dommatica degli stessi testi più antichi (Nikāya) sancisce la credenza ch'egli non fu il solo Buddha. Una concezione panindiana insegna che la nostra età cosmica fu preceduta e sarà seguita da innumerevoli altre. Secondo i buddhisti, ognuna di esse ebbe ed avrà i suoi Buddha.
Ogniqualvolta sia necessario far conoscere le "auguste verità" che siano venute meno con la distruzione del mondo o siano cadute, dopo lunghi secoli, in oblio, un Buddha compare tra gli uomini a insegnare la via della salvezza. La nostra età porta il nome di "benedetta", perché essa ha già avuto quattro Buddha (l'ultimo dei quali fu Gotama e cioè il Buddha storico) e sarà fra tremila anni allietata dalla comparsa del quinto, Metteyya (sanscr. Maitreya), il futuro Buddha. Mentre alcuni indianisti credono alla storicità di Koṇagamana (sanscr. Kanakamuṇi), il terz'ultimo Buddha, di cui Aśoka ampliò lo stūpa ("tumulo con reliquie") nel 255 a. C., altri mettono in dubbio fin l'esistenza di Gotama. Il primo a sostenere il carattere mitico della vita leggendaria di Gotama fu il Wilson nel 1854. Ma soltanto il Sénart (Essai sur la legende du Buddha, Parigi 1875) tentò di dare una sistematica dimostrazione che il Buddha è un eroe solare e i più importanti episodî della sua vita rispecchiano fenomeni naturali: erompere del sole dal grembo delle nubi, rasserenarsi del cielo dopo la tempesta e via dicendo. Malgrado l'autorità dello scrittore e l'innegabile acume di certe sue interpretazioni, la teoria del mito solare trovò pochi fautori e fu magistralmente confutata dall'Oldenberg nel suo Buddha (5ª ed., p. 92 segg.).
La stragrande maggioranza degli indianisti fu ed è convinta della realtà storica del Buddha, e se qualcuno torna di quando in quando all'ipotesi del mito, non può tuttavia distruggere quelle che noi consideriamo testimonianze storiche. I testi pāli più antichi abbondano di particolari intorno alla vita non del Buddha soltanto, ma anche del suo grande rivale Nātaputta (v. mahāvīra). Ora le notizie di fonte buddhistica concordano con quelle di fonte giainica, salvo lievi differenze, né si può considerare attendibile il canone buddhistico in ciò che concerne Nātaputta, di cui nessuno mette in dubbio la realtà storica, e non in quel che riguarda il Buddha. Tanto più che non manca alla tradizione il suffragio delle scoperte archeologiche. Nel 1895 fu trovata a Rummindeī, nel Tarāi nepalico, la colonna che Aśoka fece quivi inalzare per ricordo del suo pellegrinaggio al luogo di nascita del Buddha, nel 249 a. C. Essa porta un'iscrizione in lingua māgadhī e caratteri brāhmī, che commemora l'esenzione dalle tasse accordata dal re al villaggio Lumbinī "perché quivi il Buddha era nato". A oltre due secoli di distanza dalla morte dell'Illuminato, la tradizione avea dunque ancora tanta forza probativa, da determinare la concessione di un privilegio così importante. Non basta. Nel 1898 W. Claxton Peppé, scavando entro il koṭ di Piprāhavā, chiamato poi "stūpa dei Sakya", nel Tarāi medesimo, scopriva con altri vasi un'urna cineraria di steatite, piena di frammenti d'ossa misti con ornamenti d'oro e pietre preziose, che portava graffita attorno al coperchio l'iscrizione: "Quest'urna delle reliquie del beato Buddha, della stirpe dei Sakya, è un pio ricordo dei fratelli e delle sorelle, con le mogli ed i figli". Quest'interpretazione, che risale al Bühler e fu accettata, con qualche variante, dal Pischel, dialettologo altrettanto insigne, non ebbe unanime consenso fra i dotti. Il Fleet la lesse e interpretò in tutt'altro modo, facendosene forte a sostenere che l'urna accolse le ceneri dei congiunti del Buddha, uccisi, secondo la tradizione, per una faida di Viḍüḍabha, re del Kosala. Comunque, resta egualmente provata la realtà storica dei Sakya e quindi del Buddha. Certo nella vita tradizionale di Gotama il meraviglioso prevale, sì che riesce difficile sceverare la storia dalla leggenda. Ma non per questo dobbiamo trascorrere a negare che la leggenda sia intessuta sopra una trama storica, tanto più salda quanto meno la narrazione si allontana dalle fonti pāli più antiche (v. Bibl.). A queste noi ci atterremo nel delineare la vita del Buddha, prescindendo dalle biografie leggendarie propriamente dette, come il Mahāvastu e il Lalitavistara.
V'è ancora chi si compiace immaginare il Buddha non solo come l'apostolo di un nuovo verbo religioso, ma anche come un riformatore sociale, che affrancò il suo popolo dal giogo di una teocrazia, sotto la quale languiva da secoli l'India settentrionale. Questa concezione è altrettanto erronea quanto quella di chi vede nel Buddha una specie di libero pensatore, che neghi fede al culto, ai sacerdoti e agli dei, per un atto di ribellione alle credenze tradizionali. Più si studiano le dottrine dell'Illuminato, più se ne riconosce la scarsa originalità, sì che il loro successo fu certo dovuto non solo a peculiari condizioni del paese dei Sakya, dove la casta sacerdotale non giunse mai a imporre il suo predominio, ma anche alle straordinarie qualità personali del Buddha. Il brahmano Soṇadaṇḍa lo dipinge aitante della persona e di bell'aspetto, reso più attraente da un colorito magnifico. E aggiunge che la sua voce era armoniosa e sonora; chiara, fluida ed eletta la sua loquela. Le biografie leggendarie ci rappresentano il Buddha come l'unico figlio di un potente re, trasportando nel sec. VI a. C. condizioni politiche che l'India conobbe soltanto in età posteriore al crollo della dominazione macedone. Ma il supposto grande monarca fu invece il reggitore (rājā "rex") di una piccola repubblica aristocratica, che aveva, in cifra tonda, circa un milione di abitanti insediati tra il corso medio della Rapti (Aciravatī della letteratura buddhistica) e la Rohiṇi, oggi Rohin, a pié del Himālaya nepalico. I Nikāya ricordano i nomi di otto città, oltre alla capitale Kapilavatthu, ma alcune eran forse soltanto grosse borgate, come Koli, ove nacque la madre del Buddha. La vasta pianura, solcata da innumerevoli corsi d'acqua minori, che traggono dalle nevi eterne del Himālaya perpetuo alimento, si adatta alla cultura del riso, che era infatti, col bestiame, la maggior ricchezza del paese. Ma non la sola. Insieme con l'agricoltura fiorivano i commerci, che per via terrestre e fluviale si spingevano a occidente fino a Kosambī (Kosann) e ad oriente fino a Suvaṇṇabhūmi (Pegu nel golfo di Martaban). Mussoline di Sivi e di Benares, ricami, tappeti, profumi, avorio, armi, gioielli eran le merci più ricercate e costose. La proprietà fondiaria era in mano della nobiltà militare, che l'aveva ereditata dagli Arî conquistatori della valle del Gange. Questi signorotti, orgogliosi della loro pelle bianca, che li distingueva dalle razze aborigene, di colorito scuro, erano di solito molto superbi L'alterigia dei Sakya (sanscr. Śākya o "Potenti"), la stirpe alla quale appartenne il Buddha, è esplicitamente affermata dal Cullavagga, VII, 1, 4. Lavorare per mercede si considerava la peggiore delle sventure che potessero toccare ad uomo libero, e però al lavoro dei campi e alla custodia del bestiame eran di solito addetti i śūdra, schiavi o servi non arî, appartenenti all'ultimo colore (vaṇṇa) o classe sociale. Nessun maltrattamento veniva inflitto agli schiavi, poco numerosi in confronto dei liberi e quasi sempre prigionieri di guerra o miserabili che, assillati dalla fame, rinunciavano alla libertà in compenso del cibo. Gli artigiani, riuniti in corporazioni di mestiere, erano ben retribuiti, a giudicare dall'alto prezzo di certi manufatti. Erano tuttavia a buon mercato le cose necessarie alla vita. L'abbondanza della selvaggina nelle immense foreste, il gran numero di corsi fluviali, le ampie distese prative, sulle quali gli abitanti del villaggio esercitavano il diritto di pascolo, spiegano il basso prezzo delle carni e del pesce. Né la regione soffriva di siccità, causa consueta delle carestie che afflissero l'India, grazie al progredito sistema d'irrigazione, che faceva somigliar la campagna "alla tunica rattoppata di un monaco buddhista". Si può calcolare che l'ottanta per cento della popolazione vivesse in istato di relativa agiatezza, sì che gli abitatori dei villaggi, "felici e contenti gli uni degli altri, stavano a uscio aperto palleggiando fra le mani i loro bambini". Ma già nel 400 d. C., a testimonianza di Fa Hian, l'uomo, nemico all'uomo, aveva restituito alla selvaggia natura le fertili pianure faticosamente contese alla Grande Foresta.
In città, specialmente se capitale, la vita era raffinata e frivola. La professione più lucrosa era la mercatura, alla quale si dedicavano anche brahmani e nobili, decaduti o desiderosi di quella maggior considerazione che proviene dal possesso d'ingenti ricchezze. I capi delle corporazioni mercantili avevano accesso a corte, quando non erano addirittura tesorieri o ministri. Non pare che la gente traesse alla città con l'avidità di oggigiorno; nell'immensa pianura tra l'Himālaya e il Vindhya troviamo appena ricordate una ventina di città di considerevole grandezza, dove il ricco gentiluomo divideva il suo tempo fra i trattenimenti e i piaceri, egualmente pronto a entusiasmarsi per la cortigiana (gaṇikā) più in voga e per il predicatore di moda. In questo mondo singolare, combattuto fra la sazietà dei piaceri e la ripugnanza alle mortificazioni, che gli asceti del tempo (samana, muni) proclamavano necessarie alla suprema salvezza, Gotama getta, come il seminatore della parabola, il buon seme della sua parola, e la messe è tale che ancor se ne saziano, nell'India e fuori, milioni d'anime.
Quando Gotama nacque, nel 567 a. C. secondo una delle più probabili cronologie, la repubblica aristocratica, di cui era in quel tempo reggitore suo padre Suddhodana, non riconosceva ancora la sovraniià del Kosala. Come la maggior parte dei nobili, i Sakya eran grossi proprietarî e Suddhodana "dal bianco riso" è forse un soprannome conferito al rājā per la bellezza del riso prodotto dalle sue terre. Due sorelle, figlie di un magnate di Koli, furono contemporaneamente mogli di Suddhodana, cosa non disdicevole ai costumi del tempo. La maggiore, Māyā, "mirabile virtù", era ormai nel quarantacinquesimo anno e priva di figli quando concepì il futuro. Buddha. Le biografie leggendarie, compresa la Nidanākathā, attribuiscono a miracolo la concezione di Māyā. Rinunciando alle celesti gioie, frutto delle buone opere di anteriori esistenze, il futuro Buddha risolve d'incarnarsi nel seno di Māyā per affrancare gli uomini dalla soggezione al dolore e alla morte. La regina lo vede in sogno penetrare nel suo fianco destro sotto forma di bianco elefante, emblema della mansuetudine. Da allora l'elefante è sacro per i buddhisti. Quando il tempo della gestazione volgeva al suo termine, Māyā partì per Koli, distante da Kapilavatthu una dozzina di miglia, senza dubbio per desiderio di essere assistita dalla famiglia paterna. Ma giunta al parco di Lumbinī, poco lungi da Kapilavatthu (forse l'odierno Tilaurā Koṭ), fu costretta a sostare e dette alla luce un nglio, all'ombra di alcuni alberi sāl. Il Bodhisattva che balza fuori dal fianco destro di Māyā, ritta sotto un sāl, di cui stringe nella destra un ramoscello, è soggetto favorito dell'iconografia buddhistica. In capo a una settimana la puerpera morì e il bambino fu allattato dalla seconda moglie di Suddhodana, Paj āpatī "la prolifica", della quale si ricordano il figlio Nanda ed una figlia rinomata per la sua bellezza. Il futuro Buddha ebbe nome Siddhattha, "colui che ha raggiunto lo scopo", ma poiché i Sakya, forse vantando una discendenza dal ceppo vedico dei Gotamidi, amavano fregiarsi dell'appellativo di Gotama, i contemporanei furon soliti designare Siddhattha, ormai entrato nella via del nirvāna, col nome di samaṇo gotamo, "l'asceta Gotamide", quasi a distinguerlo dagli altri asceti mendicanti del tempo. Un altro nome frequentissimo nel Canone è tathāgata, "colui che è in possesso del vero". Gotama non chiama mai sé stesso l'Illuminato, il Buddha, ma sempre il Tathāgata. Comune è pure l'epiteto di bhagavā "l'Eminente"; sakyamuni, "l'asceta dei Sakya", ricorre raramente nei testi pāli. Siddhattha aveva diciannove anni quando sposò la cugina Yasodharā, figlia di un fratello di sua madre. I testi pāli la chiamano semplicemente Rāhulamātā "la madre di Rāhula", il figlio del Buddha. Ma poiché essa porta in altri testi altri nomi, Bhaddakaccā, Gopā, ecc., sorse spontaneo il dubbio che Gotama avesse avuto più di una moglie. Per quanto la cosa non abbia nulla d'inverosimile, dati i costumi del tempo, ci atteniamo alle testimonianze più antiche, che attribuiscono a Gotama una sola legittima sposa, e spieghiamo i diversi nomi con epiteti della stessa persona, "dalla bella cintura", alla Protettrice", ecc. Gotama passò la giovinezza a Kapilavatthu nel lusso e nella mollezza. A ventinove anni lo assalì improvvisamente il disgusto di quella vita di piacere e risolse di abbandonare la famiglia e la casa per indossare la veste gialla dell'asceta mendicante. A ciò fu indotto, secondo l'Anguttara-nikāya, III, 38, 2, dalla meditazione sul dolore umano nelle sue forme precipue della malattia, della vecchiezza e della morte. La leggenda ha dato corpo alle riflessioni dell'Illuminato narrando com'egli successivamente incontrasse, per volere degli dei e malgrado la vigilanza del padre desideroso di occultare al figlio i mali dell'esistenza, un vecchio, un malato e un putrido cadavere. Gli incontri avvennero nel parco reale, dove Gotama andava a passeggiare in carrozza, e ogni volta Channa, l'auriga, spiegò al futuro Buddha esser quello il destino di tutti i viventi. L'ultima volta si offerse al principe l'immagine serena di un giocondo fraticello, che ispirò a Siddhattha il desiderio della vita ascetica. Già quasi deciso di farsi monaco, faceva ritorno al palazzo reale, quando un messo gli portò la notizia della nascita di un figlio. "Rāhula è nato, un vincolo è nato", si narra esclamasse Siddhattha, e triste e pensoso rientrò nella reggiạ. A corte intanto si festeggiava la desiderata nascita e Gotama fu attorniato da una schiera di ancelle, che cercarono di distrarlo con musiche e danze. Non fu certo un meschino poeta quegli che ideò per il primo l'episodio dell'abbandono della famiglia e della casa, quale è descritto dalle seriori biografie leggendarie. Stanco e annoiato, il principe si assopisce nella sala ancor piena del tripudio della festa, e il sonno vince a poco a poco anche le ancelle. Nel cuor della notte Gotama improvvisamente si desta e vede le danzatrici giacere come altrettanti cadaveri attorno a lui. I loro atteggiamenti, non più dominati dalla volontà, appaiono ripugnanti. Questa russa a bocca aperta stillando bava dalla bocca; quella borbotta in sogno coi capelli sparsi e in disordine, e una terza, con le vesti slacciate, scopre imperfezioni nascoste. Nauseato, il principe va in cerca del fido Channa, che monta la guardia, e gli comanda di sellargli il cavallo. Il ricordo del figlioletto, che ancora non ha veduto, lo spinge alla soglia della stanza nuziale. Yasodharā dorme sopra un letto di fiori, l'una mano protesa sulla testa del figlio, onde Gotama, per non destarla, reprime il desiderio di prendere in braccio il piccino e si allontana promettendo a sé stesso di tornare dopo aver conseguito la dignità di Buddha. Fuori lo attende Kanthaka, il bianco palafreno, a cui gli dei fanno tappeto della palma delle loro mani per impedir che si senta il rumore dei passi. Gotama parte in compagnia del fido Channa, le porte della città si spalancano silenziosamente davanti a lui, e il principe scompare senza traccia nella notte plenilunare. La grande rinunzia è compiuta, ma sei anni di vani sforzi dovranno passare prima che la mente di Gotama s'apra alla sospirata chiaroveggenza. Intanto Māra, il principio della distruzione personificato, re della caducità e della morte, vede il pericolo della rivelazione di Gotama, intesa a strappare al suo dominio miriadi di esistenze, e dall'alto cielo apostrofa il partente promettendogli, entro sette giorni, la signoria dei quattro grandi continenti, se desiste dal suo proposito. Gotama respinge il tentatore, che da allora lo segue come la sua ombra, spiando il momento nel quale un pensiero impuro o malvagio gli dia in possesso il formidabile rivale. Anche qui la fantasia del poeta ha trasformato un'interna lotta nella concreta rappresentazione di un duello fra il Bodhisattva (v.) e il demonio buddhistico, personificante la tentazione. Dopo aver rapidamente percorso trenta leghe, Gotama giunge all'alba sul fiume Anomā, di là dal territorio dei Koliya. Quivi scende da cavallo, si recide con la spada le lunghe chiome e consegna al fido Channa gli ornamenti e il cavallo perché li riporti alla reggia. Le vesti di fine mussolina di Benares non son più adatte a un asceta mendicante. Egli le depone e il dio Ghaṭīkāra, disceso dal cielo, gli fornisce il corredo del samaṇa: abito monastico, cintura, pignatta da elemosine, rasoio, ago e colino per filtrar l'acqua. Così trasformato, Gotama s'incammina verso Rājagaha (oggi Rājgīr), ove risiedeva Bibbhisāra, re del Magadha. Assisa ai piedi del Vindhya, Rājagaha era la meta preferita degli asceti girovaghi, che trovavano nelle grotte de' suoi monti tranquillità e sicurezza, e nella vicina città gli aiuti di cui avevano bisogno. Spinto alla rinuncia dal saṃvega, "subitaneo turbamento" o vocazione, come diremmo modernamente noi, Gotama non era preparato alla vita religiosa. Egli dunque seguì l'uso comune di ricorrere a un maestro spirituale, che lo iniziasse alle discipline ascetiche. Qui la verità storica traspare, e noi possiamo senz'altro sceverarla dalle amplificazioni della leggenda, continuando la narrazione di ciò che serba l'impronta del vero. In quel tempo era in onore lo Yoga (v.), metodo pratico per raggiungere la suprema conoscenza, basato sulla psicologia del Sāṃkhya (v.). Era naturale ehe Gotama si rivolgesse alle dottrine e ai maestri più in voga. N'ebbe successivamente due: Āḷāra Kālāma e Uddaka Rāmaputta, brahmani e maestri di quella concentrazione mentale (jhāna, sanscr. dhyāna), ch'ebbe poi tanta importanza nell'etica buddhistica come ultimo stadio dell'"augusto cammino". Āḷāra aveva raggiunto "la sede della nullità" (ākiñcaññãyatana), era assorto alla contemplazione del nulla, la qual cosa tuttavia presuppone un'attività del pensiero. Più oltre era quindi arrivato Uddaka, che si era spinto, mediante il jhāna, fino alla "subcoscienza" (nevasaññāññãyan Mvatana), quella forma di estasi, prossima a traboccare nella catalessi e nell'ipnosi, nella quale la coscienza non è ancora del tutto spenta. Ma pur avendo appreso tutto quanto i suoi maestri erano in grado d'insegnargli, Gotama non fu soddisfatto e lasciò con altri cinque anacoreti la scuola di Uddaka, deciso a raggiungere con le sue proprie forze la chiaroveggenza. Si ritirò in un bosco sulle rive della Nerañjarā, oggi Phalgu, presso Uruvelā, l'odierna Urel a mezzogiorno di Patna, e quivi si sottopose alle più dure penitenze, sempre assistito e incoraggiato dai cinque compagni, desiderosi di farsi suoi discepoli appena egli avesse raggiunto il supremo grado di santità. Racconta egli stesso nel Majjhima-nikāya, 12 (ed. Trenckner, Londra 1881, p. 81), di avere spinto talvolta il digiuno fino a nutrirsi di un granello di riso al giorno, talché perdette il bel colorito e divenne emaciato e livido. Per sei anni egli sostenne la tremenda lotta, finché le forze gli vennero meno e restò come morto. Quando rinvenne, la luce si era fatta nel suo spirito; riconobbe che la via delle mortificazioni non conduceva alla sospirata chiaroveggenza, e trascinando penosamente il corpo affranto fino al prossimo villaggio, andò in cerca di cibo. Ma i suoi compagni di solitudine, perduta in lui ogni fiducia, invece di porgergli aiuto; lo abbandonarono. Ristorato di abbondante cibo da una pia campagnola per nome Sujātā, "Eugenia", Gotama restò lunghe ore seduto sotto un albero di pīpal (ficus religiosa) in preda allo scoraggiamento e al dubbio. Per lunghi anni aveva avuto in dispregio il mondo e i suoi beni. Ma ora, perduta la fede nell'efficacia delle mortificazioni, il miraggio tentatore delle ricchezze e dei piaceri risorgeva dinanzi alla sua mente e il dubbio dell'inutilità della rinunzia si faceva più tormentoso e più vivo. La leggenda ha nuovamente trasformato le lotte spirituali di Gotama in una battaglia da lui sostenuta con Māra, che, aiutato dal suo esercito, mise questa volta a soqquadro il cielo e la terra nel vano sforzo di scuotere la fermezza del Bodhisattva. Al cader della notte Gotama, purificato dalla vittoria sulle ultime tentazioni, vide brillare dinanzi alla sua mente la luce del vero. Il mistero della rinascita gli si fece improvvisamente palese, intuì le cause del dolore mondiale e scoperse la via che conduce alla liberazione dal dolore. Da quel momento egli fu il chiaroveggente, il Tathāgata; sentì di aver raggiunto il nibbāna, sanscr. nirvāṇa (v.). Il Mahavagga (I, 1, 1) racconta che il Buddha rimase sette giorni sotto l'albero di pīpal, godendosi la "gioia della liberazíone" (vimuttisukha). Il fico che protesse con la sua ombra le lunghe meditazioni dell'Illuminato divenne sacro col nome di "albero della chiaroveggenza" (bodhirukkha) o più brevemente "albero Bo". Gli ultimi avanzi della pianta sacra, senza dubbio rinnovata più di una volta, furono distrutti da un uragano nel 1876. Ma un ramo dell'antico bodlhirukha, trasportato a Ceylan nel sec. III a. C., fu piantato con grande solennità presso Anurādhapura e divenne un albero tuttora venerato dai buddhisti dell'isola. La certezza di possedere la verità incuorava il Buddha a divulgare la sua dottrina, ma il dubbio di non esser compreso lo rendeva perplesso. La leggenda vuole che il dio Brahmā in persona vincesse le ultime riluttanze dell'Illuminato, inducendolo a iniziare la sua predicazione. Per un sentimento di gratitudine, il Buddha avrebbe desiderato che i suoi antichi maestri venissero per i primi a conoscenza della sua scoperta, ma seppe che erano morti. Allora pensò ai cinque compagni di penitenza e s'incamminò verso Benares, dov'essi erano andati a cercar rifugio nel parco Isipatana. La predica di Benares (v. buddhismo), con la quale l'Illuminato "mise in moto la ruota della Dottrina", fu tenuta a questi cinque anacoreti, di cui il Buddha fece altrettanti apostoli. Ma non senza contrasto, poiché solo dopo lunghe discussioni i cinque s'indussero ad accettare la rivelazione del Tathāgata, di cui furono i primi discepoli. La piccola "comunità monastica" (saṅgha) si accrebbe tosto di un nuovo seguace, il giovane Yasa, figlio del ricco capo di una corporazione mercantile. Suo padre e quella che era stata sua moglie fecero professione di fede con la formula: "cerco rifugio nel Buddha, cereo rifugio nella Dottrina, cerco rifugio nella Comunità", e furono i primi "adoratori" (iupāsaka) laici dell'Illuminato. Sebbene infatti la sola vita monastica possa, secondo l'antica dottrina, conferire "la santità" (arahatta), chi non si sente di rompere i legami di famiglia può, con una vita conforme ai principî buddhistici, meritar dopo morte una rinascita atta a conseguire ìl nirvāṇa. Dopo Yasa presero la veste gialla e la tonsura molti altri suoi compagni di gioventù, sicché gli "asceti mendicanti" (bhikkhu) raggiunsero presto il numero di sessantuno. Eran tutti di nobile famiglia, perché la dottrina del Buddha non poteva esser compresa senza un certo grado di raffinatezza e d'istruzione. Perciò il buddhismo fu sin da principio un movimento di carattere aristocratico, come attesta la qualità dei discepoli che vissero in intimità con l'Illuminato. Ānanda e Devadatta, il Giuda della comunità buddhistica, erano della stirpe di Gotama, e alla nobiltà militare apparteneva anche Anuruddha. Sāriputta e Mogallāna eran brahmani e Upāli barbiere, ma nella famiglia dei Sakya, i quali lo trattavano come uno dei loro. L'eguaglianza proclamata dal Buddha era religiosa soltanto. Il grado sociale, la casta, conseguenza del karman (v.), aveva la sua profonda ragione etica, per quanto ogni distinzione venisse a cessare sotto l'uniformità dell'abito monastico.
Il Buddha passò a Benares la stagione delle piogge (21 giugno 21 ottobre) e mandò poi i discepoli a predicar la dottrina "per la felicità degli dei e degli uomini". "Non fate in due lo stesso cammino" disse congedandoli. "Insegnate la dottrina benefica in principio, benefica nel mezzo, benefica alla fine. Divulgate la vita di santità, interamente perfetta e pura tanto nella sostanza quanto nella forma" (Saṃyutta, IV, 1, 5). Da allora il Buddha fu sempre solito raccogliere intorno a sé i discepoli nella stagione delle piogge e dedicare alla Predicazione i mesi rimanenti. Tornato a Uruvelā, convertì, operando prodigi, mille anacoreti brahmani, fedeli al rito sacrificale. Egli tenne ai neofiti la predica che va sotto il nome di "sermone della montagna" perché fu tenuta sul monte Gayāsīsa, ora Brahmāyoni in prossimità di Gayā. Un incendio divampava sull'opposta collina; il Buddha ne trasse argomento per mettere in guardia i suoi proseliti contro il fuoco distruttore dei sensi e della passione, che si estingue soltanto in chi segue l'augusto cammino. In compagnia dei suoi monaci, il Buddha fece quindi ritorno a Rājagaha, ove il re Bibbhisāra gli rese omaggio e lo invitò a desinare coi discepoli, facendogli altresì donazione di un "bosco di bambù" (veḷuvana), residenza preferita dell'Illuminato durante la stagione delle piogge. A Rājagaha il Buddha acquistò anche i due discepoli destinati a divider con lui il primato nell'ordine: Upatissa, soprannominato Sāriputta o "figlio di Sāri", e Mogallāna, già seguaci di Sañjaya (v. buddhismo). La narrazione continuata degli avvenimenti posteriori alla chiaroveggenza, che ha per fonte precipua il Mahāvagga, I, 1-24, è a questo punto interrotta e riprende soltanto dagli ultimi tre mesi di vita dell'Illuminato (Dīghanikāya, XVI). Quarantacinque anni di peregrinazioni e di apostolato giacciono fra questi due estremi, e del lungo periodo restano soltanto episodî staccati e privi di nesso cronologico, sparsi nel canone pāli e nelle fonti più tarde. Il più importante è quello, evidentemente storico, della visita che il Buddha fece ai suoi parenti per desiderio del padre Suddhodana, dopo il ritorno a Rāiagaha. Gotama giunse a Kapilavatthu e si fermò, come soleva, in un bosco di sicomori vicino alla città, dove il padre e gli zii andarono a visitarlo. Ma i Sakya rimasero in genere mortificati di avere per parente un accattone, e nessuno lo invitò a pranzo. Peggio fu quando il Buddha comparve a questuare per le vie della città. Suddhodana stesso corse a rimproverarlo di quel contegno disdicevole al decoro della famiglia, ma, placato dal figlio con ispirate parole, finì per ospitarlo nel suo palazzo. Il giorno seguente il Buddha fece prender l'ordinazione al fratellastro Nanda, che stava per ammogliarsi, e conferì sei giorni dopo il noviziato al figlio Rāhula in età di soli sette anni. Il dolore della separazione da Rāhula, ultima speranza della famiglia, indusse Suddhodana a pregare il Buddha che l'ammissione all'Ordine di un figlio non fosse per l'avvenire consentita senza il consenso del padre e della madre. La preghiera fu accolta e l'ordinazione venne da allora in poi subordinata al duplice consenso.
Tornato a Rājagaha, il Buddha si era fermato nel bosco di manghi di Anupiyā, quando vennero a lui, per farsi suoi seguaci, i cugini Ānanda (v.) e Devadatta, in compagnia di Anuruddha e Upāli. Ma la conversione di Devadatta non fu sincera. Invidioso del Buddha e smanioso di succedergli nella dignità di capo dell'Ordine, tentò ripetutamente di farlo morire, e quando vide frustrate le sue speranze abbandonò la Comunità per fondare una setta rigidamente ascetica, che esisteva ancora nel sec. VII d. C. I nomi di Anuruddha e Upāli sono legati alla formazione del Canone, essendo il primo riguardato come il fondatore dell'Abhidhamma (v.) e il secondo come il più autorevole conoscitore del Vinaya, la Regola monastica. Nel quinto anno di apostolato del Buddha, morì Suddhodana e Pajāpatī, rimasta vedova, sollecitò per sé e per altre gentildonne dei Sakya, fra le quali la stessa Yasodharā, l'ammissione all'Ordine. Per intercessione di Ānanda e non senza riluttanza, l'Illuminato si arrese alle reiterate suppliche della sua seconda madre e fondò la Comunità femminile, alla quale impose speciali regole. Gli ultimi anni di vita dell'Illuminato furono fecondi di conversioni, ma anche contristati da grandi amarezze, come l'apostasia di Devadatta, avvenuta quando il Buddha aveva settantadue anni, e l'eccidio dei Sakya tre anni prima della sua morte. Kapilavatthu sarebbe stata infatti distrutta da Viḍūḍabha, re del Kosala, per vendicare un'antica offesa. Alla scarsezza di notizie sugli ultimi anni di apostolato del Tathāgata fa contrasto l'abbondanza di particolari intorno alla sua morte, fedelmente tramandati dal "Gran discorso sulla totale estinzione". L'autorità morale del Buddha si era a tal segno accresciuta, ch'egli poté impedire un conflitto tra il Magadha e la confederazione de' Vaji, sconsigliando la guerra al re Ajātasattu. Passando per Pāṭaligāma, villaggio fortificato che divenne poi Pātaliputta, l'odierna Patna, il Buddha profetò la futura grandezza della città. A Vesālī, ora Besarh, accettò l'invito di Ambapālī, "la bella della città", che dopo avere udito la parola dell'Illuminato sollecitò l'onore di averlo seco a pranzo coi suoi discepoli. Quando i Licchavi, signori di Vesālī, vennero a fare solennemente al Buddha lo stesso invito, seppero che Ambapālī li aveva preceduti e offersero inutilmente all'etera centomila monete d'oro in cambio del privilegio di ospitare il Buddha. Ambapālī, che entrò poi nell'Ordine, fece anche dono alla Comunità del giardino dov'era stato apparecchiato il convito. Il Buddha passò a Beluva, in prossimità di Vesālī, l'ultima stagione delle piogge, quarantacinquesima del suo apostolato. A Beluva infermò. Fu assalito da violemi dolori e la sua fine parve imminente. Ma l'indomita volontà fece violenza alla natura, e l'infermo si riebbe, tanto da poter riprendere le sue peregrinazioni. Con Ānanda e altri discepoli s'incamminò verso Pāvā, l'odierna Padraunā, dove si fermò a riposare nel giardino dell'orefice Cunda. Questi invitò gli asceti a desinare e offerse loro, con altri cibi, carne di maiale grassa (sūkaramaddava), cagione al Buddha, ottuagenario, di una dissenteria che lo trasse a morte. Ripreso infatti il viaggio verso Kusinārā, oggi Kasia, si sentì a mezza strada mancare e solo dopo lunghe soste raggiunse la capitale dei Malla, ove giacque per non più rialzarsi nel parco vicino alla città. Quivi Ananda gli apprestò un giaciglio fra due sāl gemelli, che fuor di stagione si copersero di fiori. Il Buddha vi giacque sul fianco destro col capo rivolto a settentrione. Con grande semplicità dettò poi ad Ananda alcune regole da osservare dopo la sua morte (con particolare riguardo alla Comunità femminile) e impartì le istruzioni per i suoi funerali. Incapace di contenersi più a lungo, Ananda scappò a piangere in disparte, ma il Buddha, fattolo chiamare, lo consolò: "Basta, Ānanda, non ti affannare, non piangere! Non ti ho già detto prima che bisogna una volta staccarci da quanto è piacevole e caro, separarci, dividerci da esso? Com'è dunque possibile che quanto è nato, prodotto, composto e per natura destinato a perire non abbia fine? Sarebbe assurdo! "Per lungo tempo, Ānanda, hai assistito il Tathāgata coi pensieri, con le parole e con le opere, con immutata fedeltà e infinito amore, unicamente sollecito della sua felicità e del suo benessere. Hai fatto opera meritoria; intendi ora seriamente alla liberazione, e sarai presto scevro di ogni umana debolezza". Avvertiti da Ananda che il Buddha era ormai moribondo, i Malla accorsero con le mogli ed i figli per rendere aI Tathāgata l'estremo omaggio. Venne anche un asceta girovago per nome Subhadda, che, dopo un colloquio col Buddha, chiese l'ammissione all'Ordine. Egli fu l'ultimo discepolo convertito personalmente dal Beato. Quindi il Buddha, rivolgendosi ad Ānanda, gli diede gli ultimi ammonimenti: "Potrebb'essere, Ananda, che vi venisse l'idea: ‛Il Maestro che c'insegnò la dottrina è scomparso; non abbiamo più Maestro!' Ma non dovete, Ānanda, pensar così. La dottrina e la regola che ho insegnate e divulgate, ecco i vostri maestri quando io non sarò più". Tornò sull'argomento delle regole disciplinari dando altre istruzioni, e finalmente disse ai discepoli, che gli facevano corona: "Qualcuno di voi ha forse dubbî o incertezze riguardo al Buddha, alla Dottrina, alla Comunità, alla via o al metodo di liberazione? Domandate, asceti, perché non dobbiate poi fare a voi stessi il rimprovero: ‛Il Maestro dimorò fra noi e non fummo capaci d'interrogarlo personalmente'".
Ma gli asceti tacquero. Ripeté la domanda una seconda e una terza volta. Lo stesso silenzio. Ormai sopraggiungeva la fine. "Su via, discepoli" riprese il Buddha "ascoltate quel che ancora ho da dire. Per natura transitorie son le forme dell'essere. Sia vostra difesa la vigilanza!" Furono le sue ultime parole. Percorse e ripercorse i varî stadî di concentrazione mentale, e dal quarto grado di meditazione estatica entrò nel nirvāṇa (circa 487 a. C.). Nello stesso istante sopravvenne un terremoto, e il tuono rumoreggiò. Dopo sei giorni di onoranze funebri, otto dei Malla più ragguardevoli trasportarono sul rogo il corpo del Buddha, che fu arso col cerimoniale conveniente a un dominatore mondiale. Sopra una parte delle reliquie concesse loro dai Malla, i parenti del Buddha scampati all'eccidio di Viḍūḍabha, se pur questo massacro è un fatto storico, eressero uno stūpa. Nulla vieta di credere che sia quello stesso esplorato dal Peppé nel 1898, come non è improbabile, nonostante autorevoli obiezioni, che l'urna di steatite trovata nel tumulo contenga i resti mortali di colui che scoperse la via del nirvāṇa.
Fonti: I. Testi pāli canonici (che risalgono a un'età anteriore al sec. IV a. C.): 1. Notizie biografiche sul periodo anteriore alla pabbajjā o ritiro dal mondo: Dīgha, XIV, trad. in S(acred) B(ooks of the) B(uddhists), Londra 1910, pag. 1 segg.; IV, 6, trad. in SBB., II (1899), p. 137 segg. e in Franke, Dīghanikāya, Gottinga 1913, p. 107 segg.; Majjhima, 36, 123. I primi cento discorsi sono stati trad. da K. E. Neumann e G. De Lorenzo, Bari 1921, 1925; Aṅguttara, III, 38; IV, 127; Khuddaka, V (Suttanipāta), 405-424; 679-694, trad. in S(ecred) B(ooks of the) E(ast), X (1881), parte 2ª, pp. 67 segg., 124 segg. - 2. Dalla pabbajjā alla chiaroveggenza (bodhi): Digha, XXIX; Majjhima, 4, 26, 36, 85 (primo lungo racconto, parzialmente ripetuto in 12, 26, 36, 100); Khuddaka, V (Suttan.), 425-449, trad. in SBE., X, II, pp. 69-72. - 3. Dalla bodhi alla conversione di Sāriputta e Nogallāna: Mahāvagga (Vinayapiṭaka, II, 1), I, 1-24 (secondo lungo racconto, trad. in SBE., XIII, 1881, p. 73 segg.). Predica di Benares: ibid., I, 6, 17-29, trad. in SBE., XIII, p. 94 segg. e in Winternitz, Der Buddhismus, Tubinga 1911, p. 219 seg. Cfr. Saṃyutta, LVI, 11. - 4. Episodî singoli: visita a Kapilavatthu, Mahāvagga, I, 54, trad. in SBE., XIII, pp. 207-210; ordinazione di Upāli e di sei Sakya, Cullavagga (Vinayapiṭaka, II, 2), VII, 1, 1-4, trad. in SBE., XX (1885), p. 224 segg.; Anāthapiṇḍika: Cullav., VI, 4, 9-10, trad. ibid., p. 182 segg.; Visākhā, Mahāv., VIII, 15, trad. SBE., XVII (1882), p. 216 segg.; istituzione dell'ordine femminile, Cullav., X, trad. in SBE., XX, p. 320 segg.; apostasia di Devadatta, Cullav., VII, 3; VII, 4, 1-3, trad. ibid., p. 238 segg.; Ambāpālī, Mahāv., VI, 30, trad. in SBE., XVII, p. 105 segg - 5. Ultimi tre mesi della vita del Buddha: Dīgha, XVI, trad. in SBB., III (1910), p. 71 segg. e in Franke, p. 179 segg.
II. Testi pāli extracanonici: 1. Nidānakathā, che precede il cosiddetto commento al Jātaka (circa sec. V d. C.). È una narrazione continuata della vita del Buddha dalla nascita al secondo anno di apostolato, sulla base dei testi canonici, ma con molte modificazioni ed aggiunte. Fu edita dal Fausböll, Jǎtaka, I, Londra 1877, pp.1-94; trad. dal Rhys Davids in Buddhist Birth Stories, Londra 1880, pp.1-133 e parzialmente dal Warren, Budhism in Translations, Cambridge Mass. 1909, pp. 5-83; compendiata dal Kern, Histoire du bouddhisme dans l'Inde nella trad. del Huet, Parigi 1901, pp. 26-118. - 2. Alcuni passi del comm. al Dhammapada: ad 53, 57, 137 trad. dal Warren, pp. 451 segg., 380 segg., 221 segg.
III. Testo birmano moderno (1773) nella trad. del Rev. P. Bigandet, The Life or Legend of Gaudama, 3ª ed., Londra 1880. Il testo birmano è a sua volta trad. di un'opera pāli di data sconosciuta. Attinge alle stesse fonti canoniche della Nidānakathā, con la quale concorda spesso letteralmente.
IV. Testi sanscritici: 1. Mahāvastu (circa sec. II a. C., non senza interpolazioni seriori, che giungono fino al sec. IV d. C.), edito dal Sénart, Parigi 1882-1897. Narrazione tripartita, come nella Nidānak., della vita del Buddha dall'epoca del mitico Dīpaṃkara alla fine del primo anno di apostolato. - 2. Lalitavistara (anteriore al sec. III d. C.?), ed. dal Lefmann, Halle a. S. 1902, 1908; trad. dal Focaux, in Ann. du Musée Guimet, Parigi 1884, 1892. - 3. Buddhacarita (circa sec. II d. C.), poema epico d'arte che corrisponde nel contenuto al Lalitavistara e racconta in 13 canti la vita del Buddha dalla sua incarnazione alla vittoria su Māra. Altri quattro canti, aggiunti nel sec. XIX, giungono fino alle prime conversioni operate dal Buddha a Benares. Le traduzioni cinese (sec. V d. C.) e tibetana (sec. VII o VIII) hanno 28 canti e però si suppone che anche l'opera originaria fosse in 28 sarga. L'indole mahāyānica dei testi sanscritici si rivela nel carattere mitico e soprannaturale della figura del Buddha.
Bibl.: Opere d'indole generale: H. Beckh, Buddhismus, I-II, in Samml. Göschen, Berlino e Lipsia 1916; T. W. Rhys Davids, Der Buddhismus, trad. di A. Pfungst, in Universal-Bibliothek, Lipsia 1899; id., L'India buddhistica, trad. di F. Belloni-Filippi, Firenze 1925; G. De Lorenzo, India e buddhismo antico, 5ª ed., Bari 1926; C. Formichi, Apologia del buddhismo, Roma 1923; H. Hackmann, Der Buddhismus, 2ª ed., Tubinga 1917; E. Hardy, Der Buddhismus nach älteren Pāli-Werken, 3ª ed., Münster in W. 1926; H. Oldenberg, Buddha, 5ª ed., Stoccarda e Berlino 1906; P. E. Pavolini, Buddhismo, Milano 1898; R. Pischel, Vita e dottrina del Buddha, trad. di F. Belloni-Filippi, in Bibl. Sandron di Scienze e Lettere, n. 67; W. W. Rockhill, Life of the Buddha, Londra 1884, per le fonti tibetane (IX e X sec.) di cui è un compendio.
Opere di carattere particolare: F. Heiler, Die buddhistische Versenkung, 2ª ed., Monaco 1922; N. Péri, Les femmes de Çākya-Muni, in Bull. de l'École Fr. d'Extr. Orient, XVIII, 2, Hanoi 1918; C. F. Rhys Davids, Notes on Early Economic Conditions in Northern India, in Journal of the Royal Asiatic Soc., XXXIII (1901), pp. 859-888; V. Rocca, Lavoratori e schiavi nell'India, in Giorn. della Soc. Asiatica Ital., XIX (1906), p. 249 segg.; XX (1907), p. 1 segg.; V. A. Smith, Asoka, 2ª ed., Oxford 1909; E. Windisch, Mara und Buddha, Lipsia 1895.
Il Buddha nell'arte.
Le notizie seguenti sono relative soltanto alla rappresentazione del B., poiché la storia dell'arte buddhistica è trattata nella storia dell'arte dei singoli paesi (v. cina; giappone; india; ecc.).
Nell'India, dove il B. nacque e predicò, l'arte antica ha ignorato la rappresentazione della figura umana del B. L'arte Maurya di Sāñchī (nell'attuale Stato di Bhōpāl), dal. sec. III al I a. C., è essenzialmente buddhistica, ma il B. vi è rappresentato soltanto per mezzo di simboli: da un elefante per ricordare la concezione, da un cavallo per la fuga dalla casa paterna, dalla ruota della legge per l'insegnamento e la predicazione, da uno stūpa per il nirvana, ecc.
È l'arte indo-greca del Gandhāra (v.) quella che nel sec. II a. C. fino al IV d. C. ha dato al buddhismo un'espressione plastica nuova. I monumenti scoperti a Hadda nell'Afghānistān nel 1929 rivelano una potenza artistica singolare. Si veda il frammento di un altorilievo che riproduce un episodio della vita del B. (fig.1), genî che simboleggiano, in una scena della vita del B., la vanità della vita (fig. 2), le caratteristiche figure di una divinità e di un demonio che si avanzano verso il B. (fig. 3, 4), sculture che rivelano forse la mano di qualche artista greco.
Una delle più antiche statue del B. (v. tavola a colori) rivela nella sua bellezza estatica e un po' effeminata il profilo dritto, il taglio classico degli occhi, l'arco sinuoso della bocca caratteristici dell'arte greca. Le statue del B. sono illuminate da un calmo e misterioso sorriso, del quale una mano greca ha saputo irradiare il pensiero indiano. Il B. nell'arte del Gandhāra e nelle forme d'arte di là derivate, nell'Asia Centrale e Orientale, si presenta come un personaggio chiomato, rivestito di un mantello monastico (sanghāti), senza ornamenti, ma riconoscibile per mezzo delle particolarità fisiche, minuziosamente descritte in lunghe liste di trentadue segni principali (lakṣaṇa) e ottanta segni secondarî. L'uṣnīṣa, specie di protuberanza cranica, ricoperta dalla capigliatura; più notevoli i capelli a boccoli, il lobo disteso dell'orecchio, particolarità che ricorda il primitivo stato di principe già carico di ornamenti e di pesanti orecchini; l'urṇa tra le due sopracciglia, che assume mle sculture la forma di una lente. Essa sarebbe, secondo le induzioni del Foucher, un piccolo ciuffo di peli tra le sopracciglia.
Accanto al tipo del B., l'arte crea quelli dei Bodhisattva e dei monaci, crea con la fantasia genî e demonî, svolge nell'aria le pieghe armoniose degli abiti ondeggianti, che drappeggiano i corpi leggieri delle sonatrici celesti, pone guerrieri all'ingresso dei santuarî, leoni ieratici ai lati degli incensieri, stilizza il fiore del loto, inquadra le nicchie di festoni e ghirlande.
All'arte del Gandhāra si collegano gli affreschi di Bāmiyān nell'Afghānistān, che risalgono forse ai secoli IV-VI d. C.; in essi si ritrova forse un'influenza sāsānide.
Con la fine del sec. II l'influenza dell'arte greca in India si affievolisce. La scultura del periodo Gupta (c. 300-650 d. C.) dà all'arte indiana una forma originale, creando un'estetica sua propria. Soppressi i panneggiamenti delle vesti, addolcite le linee delle figure umane, sorgono nuovi tipi dell'ideale divino buddhista, che trovano alta espressione nel B. detto di Benares, nel museo di Sarnath, e nelle sculture di Anuradhapura a Ceylon e di Barabudur a Giava (v. tavola a colori).
All'arte Gupta si collegano gli affreschi di Ajanta, nei quali le rappresentazioni dell'ultima vita del B. o delle sue precedenti esistenze, descritte nei Jataka, fondono il misticismo buddhista e il vecchio naturalismo indiano in espressione d'arte elevatissima.
Dal Gandhāra dell'Asia Centrale, attraverso il Turkestān, l'arte buddhistica si sviluppa nello Shansi, nella Cina settentrionale, e si propaga in Corea e in Giappone. Entra in Cina quattro secoli dopo l'ingresso del buddhismo, verso la fine del sec. IV. Nelle provincie meridionali è venuta dall'India per mare, ma la storia del suo sviluppo è ancora difficile a farsi. Più semplici sono invece le linee dello sviluppo dell'arte nel nord. Sono particolarmente importanti i tre gruppi di sculture studiati da E. Chavannes nella sua missione archeologica nella Cina settentrionale, che si trovano a Yün-kang, a un centinaio di chilometri ad ovest di Ta-t'ung fu, nello Shansi; quelli della gola di Lung-men (porta del drago) a 15 chilometri a sud della città di Ho-nan fu, ed infine quelli di Kung hsien, cittadina situata sulla riva destra del fiume Lo, poco prima della confluenza col Fiume Giallo.
Queste sculture sono scolpite su ripide pareti rocciose, in cui si trovano grotte in numero grandissimo, le pareti delle quali sono scavate a nicchie e decorate di statue buddhistiche. Le più antiche, quelle di Yünkang, non sono puramente cinesi, poiché la dinastia Wei del Nord (386-532 d. C.) ebbe la capitale dal 386. al 494 a Ta-t'ung fu, nello Shansi meridionale, al di là della grande muraglia. Le sculture nelle grotte del monte Wuchou, cominciate verso il 414, furono terminate un secolo dopo, nel 520-524. Tra coloro che le progettarono e ne diressero la costruzione emerge la figura del monaco T'anhsiao (460-465 d. C.). Lungo una ventina di chilometri di una vallata, sono scavate centinaia di grotte con migliaia di figure. La grotta più grande aveva una cinquantina di metri d'altezza e poteva contenere tremila persone. Notevole un Buddha seduto, alto almeno quindici metri. Le sculture di Yün-kang, svelte e armoniose, penetrate di un intenso sentimento religioso, sono quanto di più elevato la scultura cinese abbia saputo esprimere. Il sentimento artistico dei Wei del nord ha creato, con gli elementi ricevuti dall'India, dall'Asia Centrale, il tipo della divinità che in Cina e in Giappone è stato imitato e preso a modello, ma non superato (Chavannes).
Le sculture delle grotte di Kung hsien appartengono al principio del sec. IV.I. Le grotte di Lung-men, che si estendono in una lunga gola di monti, sono state scavate imitando quelle di Yün-kang e risalgono ai secoli V-VIII. Sono state oggetto di pellegrinaggio, di cui rimane traccia nelle innumerevoli iscrizioni, dal 495 al 749 d. C., tradotte dallo Chavannes, che attestano il fervore religioso di quel tempo.
In mezzo alla varietà delle rappresentazioni, accanto alle quali lunghe teorie di donatori e di donatrici ricordano la vita cinese, le immagini del B., moltiplicate all'infinito, ristabiliscono una certa uniformità. Poiché la sua voce si è estinta e il suo corpo non è più visibile, le immagini formano un riflesso della sua persona, come i libri sacri conservano un'eco della sua voce. Erigere una statua del B. è quindi compiere un'opera pia, un merito che sarà ricompensato, talvolta anche nell'attuale esistenza; ma, ciò che più importa, tende ad evitare ai fedeli l'oceano di sofferenze che rappresenta il ciclo delle nascite e delle morti, per farli salire, accanto ad Amitābha, nel paradiso d'Occidente, o per render loro possibile di ascoltare in avvenire gl'insegnamenti del B. futuro, Maitreya.
I Buddha passati, presenti e futuri. - Complicate sono le rappresentazioni della figura del Buddha e le sue trasformazioni nel buddhismo più recente. La pluralità dei mondi abitati che il mahāyāna sostiene nel suo sistema cosmico e le varie epoche che assegna alla vita della terra conducono alla necessità di moltiplicare all'infinito il tipo di un salvatore degli uomini, perocché ogni mondo essendo composto e ordinato come il nostro sistema planetario, avendo ciascun mondo la sua propria umanità, bisognosa di salvazione, ed in ogni epoca della vita dei mondi rinnovandosi sulle varie terre gli uomini, ne consegue la necessità che i Buddha salvatori siano immaginati in numero sterminato. Vi sono testi del Tripiṭaka che dànno la lista di migliaia di nomi fantastici di Buddha, le cui gesta sono modellate su quelle del Buddha Sakyamuni, il salvatore dell'odierna umanità buddhista.
Il bronzo, il legno scolpito, spesso verniciato e dorato, dànno altri aspetti alle figure del B. Un bronzo del 518 d. C. (fig. 5) ci mostra il B. Prabhūtaratna seduto accanto a Sakyamuni. È un motivo favorito dell'arte buddhistica che si fonda sopra un testo del Loto della buona legge (trad. Burnouf, pp. 141, 181, 234) secondo il quale lo stūpa contenente il corpo dell'antico B. Prabhūtaratna venne ad aleggiare su Sakyamuni, il quale con la sua potenza soprannaturale aprì lo stūpa e vi penetrò, slanciandosi nell'aria, e allora la folla meravigliata vide i due B. seduti l'uno accanto all'altro discorrere insieme.
Nel Giappone la figura del B. (giapponese Butsu), nelle sue innumerevoli forme, mostra, nell'antica arte di Nara, il passaggio dall'arte cinese a nuove forme più aggraziate ed eleganti (fig. 6).
La pittura buddhistica si sviluppa nell'Asia Centrale e poi in tutta l'Asia Orientale, partendo parimenti dall'arte ellenistica. Le grandiose pitture scoperte da A. Grünwedel, da A. von Lecoq, da Aurel Stein e da Paul Pelliot ci hanno fatto conoscere i modelli che hanno ispirato la figurazione del B. nell'arte cinese e giapponese.
La storia della pittura cinese (v. cina: Arte), dalle origini fino ai nostri giorni, mostra quanto questa deve al buddhismo; basti ricordare i grandi pittori cinesi Wang Wei (699-759 d. C.), chiamato anche col solo soprannome Mo-ch'i, e Wu Tao-yüan (v.), chiamato anche col soprannome Wu Tao-tzù, del sec. VIII d. C.
Le scene biografiche della vita del B. hanno ispirato in ogni tempo anche i pittori. Una serie completa dovuta ad un artista cinese del principio del sec. XIX è riprodotta in Les Vies chinoises du Bouddha di L. Wieger. Seguono invece più fedelmente le tradizioni iconografiche dell'India buddhista le pitture tibetane, di cui ha dato minuziosa descrizione J. Hackin.
Bibl.: Si consultino le opere generali seguenti: J. Hackin, Les collections Bouddhiques du Musée Guinet, Parigi 1923; H. Facillon, L'Art Bouddhique, Parigi 1921; A. Getty, The Gods of Northern Buddhism, 2ª ed., Oxford 1929; L. Adam, Buddhastatuen, Ursprung und Formen der Buddhagestalt, Stoccarda 1925; W. Cohn, Buddha in der Kunst des Ostens, Lipsia 1925; O. Fischer, Die Kunst Indiens, Chinas und Japans, Berlino 1928; A. Foucher, Les représentations de Jutaka dans l'Art Bouddhique, in Mém. concern. l'Asie Orientale, III, Parigi 1919. Per l'arte indiana: A. K. Coomaraswamy, History of Indian and Indonesian Art, Londra 1927; A. Grünwedel, Buddhistische Kunst in Indien, Berlino 1920; N. J. Krom, The Life of Buddha on the Stupa of Barabudur, L'Aia 1926. Per l'arte del Gandhāra si veda: A. Foucher, L'art gréco-bouddhique du Gandhāra, Parigi, I (1925); II (1918-1923) e la recensione di V. Goloubew, in Bull. de l'École Française d'Extr. Orient, XXIII (1923), pp. 438-54; A. Foucher, L'origine grecque de l'image du Bouddha, in Conférences du Musée Guimet, XXXVIII, Parigi 1912, pp. 231-272; V. Smith, Indian Sculpture of the Gupta period, in Ostasiat. Zeitschrift, aprile 1914; V. Goloubew, Les peintures d'Ajanta, Parigi 1927. Per la figurazione della vita del Buddha in Cina si vedano le 200 tavole dell'opera di L. Wieger, Les vies chinoises du Buddha, Hien-hien 1913. Le rappresentazioni degli atteggiamenti del Buddha sono interpretate e descritte in: O. Frankfurter, The Attitudes of the Buddha, in Journal of the Siam Society, X (1913), parte 2ª. Per l'arte pittorica tibetana: F. Hackin, Les scènes figurées de la vie du Bouddha d'après les peintures tibétaines, in Mém. concern. l'Asie Orientale, II, Parigi 1916, p. 116; A. Grünwedel, Notizen zur Ikonographie des Lamạismus, Berlino 1885. Per la scultura nella Cina del nord: E. Chavannes, La sculpture bouddhique, Parigi 1915 (Miss. Archéol. dans la Chine septentrionale, I, parte 2ª). Per l'arte coreana: A. Eckardt, Geschichte der Koreanischer Kunst, Lipsia 1929, pp. 88-119. Per l'arte giapponese: E. F. Fenollosa, Epochs of Chinese and Japanese Art, Londra 1913, voll. 2; W. Cohn, Buddha-und Bodhisattvadarstellungen der Nara Period, in Ostasiat. Zeitschr., 1913, pp. 403-439; M. Anesaki, Buddhist Art in its relations to buddhist ideals, Londra 1916; K. With, Buddḥistische Plastik in Japan, Vienna 1920; A. Waley, Zen Buddhism and its relation to Art, Londra 1922, ecc.