BUCCIO di Ranallo
Nacque all'Aquila nel territorio di Poppleto (Coppito, frazione dell'Aquila) assai probabilmente intorno agli ultimi anni del sec. XIIIda famiglia agiata, forse appartenente a quella piccola nobiltà campagnola d'antica tradizione nel territorio aquilano.
In un sonetto databile al 1342 ("Inter fare casa et fillia ad maritare") il poeta accenna esplicitamente a una sua proprietà, allorché le precarie condizioni economiche in cui versa il Comune consigliano alle due fazioni cittadine capeggiate dai Pretatti e dai Camponeschi, provvisoriamente rappacificate, la necessità di un prestito. In questa circostanza B. non può sottrarsi alla nuova imposizione e deve vendere. La testimonianza del sonetto trova ulteriore conferma in un documento pubblicato da L. Rivera nel Boll. della Soc. di st. patria Ludovico Antonio Antinori negli Abruzzi, s. 3, IV (1913) pp. 109-111, ove si legge che "Giovanna e Coletta, suo mundualdo, quali esecutori del testamento di Buccio di Rainaldo di Gentile di Poppleto dell'Aquila e la figliuola di questi Angeluccia... vendono sei palelle d'un molino in territorio di Aquila [attinente probabilmente alla casa ricordata dal poeta] a Iuzio di Niccolò di Gualtiero di Poggio S. Maria". Al possesso fondiario deve aggiungersi quindi la comproprietà di un mulino che fruttava ad ogni proprietario una quota proporzionale al numero delle pale che questi possedeva.
Dal testo della sua Cronaca aquilana l'unico accenno che possa ricavarsi sulla condizione sociale dello scrittore è una determinazione negativa. A proposito della festa per la traslazione del corpo di s. Pietro Celestino, B. riferisce: "Gran festa ne fa facta, sacciate veramente; / Tucte le Arti annarovi ciaschuna con gran gente, / Ciaschesuna Arte fé ad San Pietro presente; / L'altre spese facemmo nui generalmente". Testimonianza che esclude in maniera inequivocabile l'appartenenza del poeta al ceto artigiano, da cui l'ipcnesi del De Bartholomaeis secondo cui la personalità di B. sarebbe da identificarsi nella figura di un giullare. Senonché, a parte la considerazione che egli non si assimila a questa categoria nei numerosi luoghi del poema ove appaiono in primo piano i giullari, la contrapposizione cui accenna B. corrisponde perfettamente a una discriminazione inveterata in tutto il Mezzogiorno angioino a scopo fiscale: quella fra i nobili e gli artigiani e mercanti. Niente di più facile che lo scrittore abbia tenuto presente, in occasione delle offerte devote, null'altro di quanto accadeva per il pagamento delle pubbliche imposte, secondo l'nterpretazione che già afflorava in un vecchio lavoro di E. Casti, il quale a proposito dei versi citati, affermava: "Quelli delle altre arti, letterati, mercanti, lanaiuoli e metallieri, fecero de' grandi presenti; ed a tutto il resto della spesa supplimmo noi nobili o militari".
Dai primi avvenimenti che si leggono nel poema si direbbe che fino al 1307 B. non si senta pienamente sicuro dei fatti che viene narrando: del resto è solo a partire dal 1310, quando in città si celebra l'arrivo di re Roberto, che il poeta comincia a parlare in prima persona plurale rappresentandosi fra la moltitudine dei concittadini. Nel 1318 partecipò probabilmente alla spedizione contro Amatrice e forse fu anchegli colpito dal bando che il duca di Calabria pronunciò contro gli Aquilani e i loro alleati. Più dubbia è la sua partecipazione alle vicende militari della guerra contro Rieti che avvenne due anni dopo. Fra il luglio e l'agosto del 1328 figura fra gli Aquilani mandati dal duca di Calabria al passo di Anticoli per fronteggiare Ludovico il Bavaro, e fu con ogni probabilità fra coloro che assaltarono il castello e devastarono la regione circostante. Di lì a poco (1330) inaugurava la propria attività letteraria con un poemetto su S. Caterina d'Alessandria, un'agiografia che risponde a un genere letterario particolarmente diffuso ancora nel Trecento nel regno angioino e trova in territorio aquilano un precedente di poco anteriore nella anonima Leggenda del transito della Madonna. Partecipa attivamente alla grave controversia per il pagamento della "colta" sorta nel 1332 fra i vari castelli del territorio comunale: quando, a seguito del dissidio fra Paganica e Bazzano, la contesa si allarga fino a raggiungere il territorio di Poppleto, B., posto evidentemente di fronte alla difesa di un interesse personale, interviene in maniera più diretta nell'ambito dei dissensi del Comune (e insolitamente impegnata, specie se si tien conto del giudizio sempre equanime e spassionato che affiora nei contemporanei sonetti dedicati ai maggiori eventi della storia cittadina) sottoscrivendo incondizionatamente le rivendicazioni dei conterranei. Nel 1350, in occasione del giubileo, si recò a Roma ed è l'unica notizia che riguarda un soggiorno del poeta fuori dell'Aquila (la testimonianza del verso "May in mille citadi / no llo vidi si bello" è incerta per l'equivoco valore di quel "vidi" che può anche significare "tu vedi").
Seguirono gli anni in cui fu più rilevante la partecipazione dello scrittore alla vita politica aquilana che si risolve nel 1355 nella adesione all'auspicato governo delle cinque Arti; tale governo entrò in carica nell'Epifania di quell'anno. Secondo un'ipotesi molto attendibile del De Bartholomaeis risale a questo periodo la data di composizione della Cronaca aquilana non potendo B. proporsi un concreto piano politico e deplorare gli errori del passato "durante il tempo nel quale la città, era priva di un governo popolare, ma continuamente alla mercé de' faziosi". Sembra certo, infine, che dovette far parte nel 1361 del Consiglio cittadino, quando i "melliuri aquilani" si proposero di non versare più denaro ad altri che non fosse il sovrano angioino (e anche l'importanza di questo dato biografico, che sottolinea una posizione di prestigio nell'ambito della politica cittadina, non va sottovalutata al fine di intendere l'effettiva condizione sociale dello scrittore).
Morì nell'epidemia del 1363, secondo quanto riferisce Antonio di Buccio (Cronaca delle cose dell'Aquila dall'anno 1363 all'anno 1424, in Ant. Ital. Medii Aevi, coll. 853 ss., st. VI). Nell'archivio della chiesa parrocchiale di S. Pietro di Coppito si leggeva fino ai tempi dell'Antinori un testamento rogato dal notaio Pietro Cicci il 15 maggio 1363 nel quale un Giovanni Quinziano nominava proprio esecutore testamentario "Butium Rainalli de Poppleto". Si tratta dell'ultima notizia che si riferisce alla vita del poeta. Abbiamo notizia dell'esistenza d'una figlia (è il B. che la dà) e di un figlio.
Fra la composizione della Santa Caterina e il lavoro sulla Cronaca aquilana corrono molti anni di distanza, e uno stacco ancora maggiore verrebbe spontaneo postulare tra la prosecuzione di un vecchio genere letterario e la creazione di un poema comunale, Se a colmare il divario non esistesse la testimonianza di un continuato e puntuale intervento critico dello scrittore nella vita politica del Comune (nella forma più semplice del sonetto, destinata ad arricchirsi in una prospettiva più complessa e letterariamente più adulta) e soprattutto se non fosse possibile raccogliere la produzione dello scrittore nell'unità di un comune impegno pedagogico.
Il cronista esordì come poeta agiografico, ma, raccogliendo il genere da una tradizione giullaresca, lo ridusse ai limiti di un'arte didascalica perfettamente cosciente. Il rozzo cantare si tradusse in una rappresentazione d'argomento religioso, l'improvvisazione verbale in una narrazione coerente ed artisticamente elaborata. Seguendo l'evoluzione tematica che altera talvolta per scarti minimi una delle più diffuse leggende medievali, si avverte come la redazione aquilana capovolga sostanzialmente la prospettiva del racconto: non si indirizza più ad ascoltatori che si esaltano alle gestes del martire cristiano secondo la recitazione improvvisata dei giullari, ma ad un pubblico che può interessarsi alla lettura di un fatto virtuoso, umanamente realizzabile.
Poco più tardi della S.Caterina d'Alessandria B. cominciava a diffondere i sonetti sugli episodi. della vita aquilana che maggiormente accendevano il suo forte sentire politico e li indirizzava ai concittadini. I primi risalgono all'inverno del 1338. La città è in armi divisa fra i seguaci dei Camponeschi e di Bonagiunta: di fronte al pericolo della guerra civile B. ammonisce di non prestar fede alle lusinghe delle fazioni nobiliari e smaschera la fronda baronale come il più serio pericolo che minacci la costituzione del Comune. Dopo la carestia del 1340 ammonisce i cittadini a trarre ammaestramento dalle sofferenze passate per custodire con maggior parsimonia il frutto degli anni d'abbondanza. Sette sonetti (V-XI) furono composti nel 1342, l'anno che vide fallire le trattative avviate a Napoli per porre fine alle lotte tra le fazioni. Il poeta invocherà il colpo di Giuditta sul corpo dei "nostri tirandi de Amiterno" (son. XII) e inveirà contro gli Aquilani che fomentano la discordia (son. XIII). Nel 1348, durante il prepotere di Lalle Camponeschi, invita i concittadini ad abbandonare il tiranno ed auspica l'unione di tutte le forze del Comune contro la violenza eli una fazione. L'ultimo gruppo di sonetti (XV-XXI), databili fra il 1360 e il 1362, e infine rivolto direttamente ai consiglieri del Comune: in essi il poeta esorta alla concordia che la vagheggiata magistratura delle cinque Arti sembra promettere dopo un secolo di discordie; rammenta il giuramento fatto di "consegliare lo megliore stato"; evoca infine le anime dei fondatori della città per contrapporre la loro fermezza, che aveva ispirato rispetto allo stesso Carlo d'Angiò, alle incertezze di molti che ostacolano ancora una decisa azione politica.
È importante constatare come un comune intento didascalico sia alla radice della prima e delle successive prove letterarie dello scrittore. In queste ultime il poeta guarda agli avvenimenti contemporanei giudicandoli alla luce di una vasta esperienza umana, di un'intensa pratica civile; si rivolge ai concittadini guidandoli verso una evoluta coscienza della realtà presente. Ora, la presenza di un fine pedagogico, conforme a tutta l'attività dello scrittore, è esattamente quanto può riscontrarsi alla base della Cronaca aquilana che s'apre con un monito significativo per intendere la continuità di una traccia ideale e tematica: il fine del poema è che "... bono stato pillieno / li altri che regerando, / Opprimendo li captivi, / li boni sollevando, / Né nullo preminente / volere né tirando". E contiene nella protasi un elemento già accennato nei sonetti più maturi 0 Lo cunto serrà d'Aquila, / magnifica citade, / Et de quilli che la ficero con grande sagacitade: / Per non essere vassalli / cercaro la libertade / Et non volere signore / set non la magestate"), ma destinato a superare in quanto tale - rievocazione di tutta la storia cittadina - i limiti di un intento puramente didascalico. L'opera conclusiva della propria esperienza letteraria B. la concepì ergendosi al disopra degli avvenimenti contemporanei: giudicando inadeguato il contenuto politico-pedagogico di una poesia occasionale, immaginò un tema che nel ricordo superasse ogni limite di contingenza. La morale del sonetto rimase nell'idea dello scrittore, ma la materia poetica fu la rappresentazione di quel mondo comunale che maggiormente conveniva al suo sentimento politico e che solo al termine di una lunga esperienza civile avrebbe potuto rappresentarsi nel suo intero processo di sviluppo.
Il poema narra in milleduecentocinquantasei strofe tetrastiche di alessandrini (il verso ufficiale della didascalica settentrionale, e in quanto tale adottato anche nel Mezzogiorno) gli avvenimenti della storia aquilana dalla fondazione della Città (1254) al maggio 1362. Entro questi termini si svolge il filo di una ricostruzione storica che ha per tema centrale la lotta delle forze del nascente Comune contro i feudatari di stabilimento imperiale: intorno a questo nucleo di interesse prevalente trova poi modo di innestarsi il complesso di vicende che dalla seconda metà del sec. XIII alla prima del XIV caratterizzarono la storia del Meridione d'Italia. Dai primi tentativi di edificazione dell'Aquila, verificatisi al momento critico della lotta fra Gregorio IX e Federico II, si passa agli sforzi più consapevoli degli Aquilani tesi al raggiungimento di una costituzione comunale nell'ambito di quel generale risveglio delle autonomie locali che s'avverte nel Regno all'indomani della morte di Federico II e che si conclude con la costituzione di quell'originale Comune rustico che fu il Municipio aquilano (bolla di Corrado IV del 1254).
Durante il regno di Manfredi, che rivendica nel Mezzogiorno la tradizionale politica accentratrice dei Normanni e degli Svevi, l'Aquila oppone una valida anche se non sempre fortunata resistenza all'esercito regio - venne distrutta nel 1259 - sfruttando abilmente i favori della Chiesa impegnata a potenziare la politica particolarisfica dei Comuni. La sua lotta non si esaurisce con la scomparsa della monarchia sveva e la ricostruzione della città (1266) sotto gli auspici del pontefice e di Carlo I d'Angiò, ma si arricchisce di nuovi motivi durante la dominazione angioina, quando altre e più profonde ragioni di dissenso si delineano tra la città e il potere centrale. La politica di lealismo che la monarchia intese restaurare nei confronti del clero e dei nobili, il fiscalismo gravoso, l'arbitrio degli ufficiali regi, il disordine creato dalle lotte per la successione al trono, che rappresentano gli aspetti negativi della dominazione angioina in tutto il Regno, dovettero essere particolarmente avvertiti all'Aquila il cui notevole sviluppo economico avrebbe richiesto un'adeguata evoluzione delle forme costituzionali nei confronti con la monarchia. B. avverte sensibilmente il nesso storico di questi elementi svelando in forma apertamente polemica e spregiudicata gli interessi mondani celati all'ombra della politica della Chiesa, denunciando i soprusi dei burocrati angioini, gli intrighi degli appaltatori che assicurano la continuità della politica finanziaria statale nei confronti delle collettività produttrici, ma soprattutto additando nella potenza delle consorterie nobiliari il maggior pericolo per la libertà del Comune: la lotta contro i nobili è il tema centrale della Cronaca perché ogni motivo che ostacola lo sviluppo politico ed economico del Comune viene immediatamente avvertito da parte del vecchio ceto dirigente e sfruttato ai fini d'un sovvertimento dell'ordine esistente, sovvertimento che può esprimersi attraverso tentativi di restaurazione degli antichi privilegi, o cercando di monopolizzare con una politica demagogica le nascenti risorse dell'attività commerciale e artigianale. Sotto il regno di Roberto (il re mercante, come lo definì B. in un ritratto rimasto celebre della Cronaca), i nobili minacciarono apertamente la collettività civica, e il dissidio fra la politica oligarchica e le necessità del Comune - che si individuano in un organico sviluppo artigiano, nella regolamentazione dei rapporti con il ceto rurale - si acuisce a tal punto da rendere estremamente precaria la stabilità della forma istituzionale vigente. Ingrossano le file della insurrezione baronale le plebi contadine fra le quali si annidano i primi contrasti con il ceto artigiano ("Chi piace allo villano desplace a Deo vivente"), immiserite dal fisco e dagli obblighi feudali cui sono ancora sottoposte. Una assurda ripartizione tributaria accende il contrasto fra i castelli dell'antico contado.
Della lotta fra i Pretatti e i Camponeschi (le due principali fazioni che si contendono il potere sulla città) B. segue minutamente le vicende fino a quando la parte camponesca resta arbitra assoluta dei destini dell'Aquila (1343), la cui storia s'inquadra poi in quella fitta serie di eventi che sconvolgono il Regno all'indomani dell'uccisione di Andrea d'Ungheria, il "nostro re Andrea", come ebbe a dire B. rimproverando la Chiesa che non cessava di seguire le sorti degli Angioini. Lalle, il maggior rappresentante della famiglia, schierandosi a favore di Carlo di Durazzo contro la regina Giovanna, si fa sostenitore della causa ungherese, accoglie in Italia Ludovico d'Ungheria e sembra che il suo prestigio nella città sia definitivamente assicurato: senonché la rinunzia improvvisa di Ludovico all'impresa italiana e il ristabilirsi delle fortune angioine nella persona di Luigi di Taranto segnano il crollo della fazione camponesca. Lalle viene fatto uccidere nel 1354 su ordine del re, e il ritratto di Luigi di Taranto, il restauratore della pace e della libertà aquilana, è il ritratto più positivo che il poeta abbia tratteggiato fra tutti quelli dei dominatori.
Con la morte del Componeschi si apre una nuova prospettiva per l'Aquila. In una scena tra le più solenni del poema lo scrittore celebra la nuova costituzione fondata sulla magistratura delle cinque Arti, ma guarda ancora con sospetto alle ingerenze del vicereggente che viola apertamente i diritti della comunità. B. ebbe piena coscienza della svolta che la politica angioina stava compiendo nei riguardi del Comune; intuì che nell'idea dei successori di Roberto il concetto della libertà municipale (indissolubilmente legata alla conquista dell'autonomia politica) andava inesorabilmente naufragando, e dette prova del suo acuto senso politico quando, riordinando le sparse note di un quaderno di appunti (secondo una felice interpretazione del De Bartholomaeis) orientò idealmente tutta la materia del racconto alla luce degli avvenimenti del 1354-55.
L'intelligenza storica e poetica di B. capì che l'idea comunale doveva necessariamente determinarsi sul fondamento di una vittoria del ceto artigiano e la rappresentazione fu quella degli avvenimenti aquilani risolti in funzione di questa vittoria, presentati al gran pubblico cittadino secondo la coscienza che il poeta ebbe della realtà contemporanea. Così, nella saldezza ideologica dello scrittore, la realtà della istituzione municipale (la sua legittimità, la vitalità di essa nel pericolo) e la politica del più progredito ceto aquilano si identificarono; l'unico avvenimento contingente della Cronaca rimase la costituzione del governo artigiano; tutta la storia passata fu interpretata come le vicissitudini, gli ostacoli, i pericoli che si dovettero superare per giungere a quella affermazione: momenti della lotta ingaggiata contro le fazioni nobiliari dall'intera compagine cittadina, considerata nel suo complesso al di sopra di ogni ulteriore discriminazione sociale.
Dove non giunge l'esperienza diretta dello scrittore, il ricordo impone che la narrazione avvenga per scene: i nessi sono dati dalla riflessione morale, dall'insegnamento, che in una forma originale di compendio (e assai significativa per la genesi del poema) riesce sempre a sintetizzare il significato di molte pagine di cronaca; ma le scene sono tutte idealmente convergenti in quel problema di edificazione morale che rappresenta l'impegno di B., atti di quel dramma aquilano che lo scrittore aveva risolto nella sua ideologia. Così egli può accostare due episodi come quello della costruzione della fontana della Riviera e dell'insurrezione popolare capeggiata da Nicola dell'Isola prescindendo dalla disciplina che un criterio rigidamente annalistico avrebbe potuto suggerirgli, e i due episodi divengono due rappresentazioni complementari e straordinariamente espressive nel quadro che B. vuol dipingere della storia cittadina.
Per i fatti più vicini all'epoca del poeta gli avvenimenti si moltiplicano nel ricordo rendendo particolarmente difficile il processo di sintesi. Pure, B. riesce sempre a mantenersi fedele alla materia che lo avvicina sentimentalmente al suo popolo, accompagnandolo attraverso i grandi avvenimenti che caratterizzarono l'età sua. L'anno santo vuol essere un episodio di vita aquilana nella descrizione minuta, precisa dei conterranei sbigottiti di fronte a quella atmosfera di affarismo che regna a Roma pur nella solennità della circostanza (e il senso di devozione che B. sottolinea a proposito di Pietro Celestino, il santo abruzzese, qui scompare di fronte all'interesse per l'elemento umano che il poeta pone a fondamento della rappresentazione). Nessuno dei protagonisti della storia trecentesca d'Europa viene rappresentato che non rispecchi un preciso carattere della vita politica aquilana. Ludovico il Bavaro, Carlo di Durazzo, il duca di Calabria sono delle apparizioni. Anche Roberto, le cui apparizioni sono più frequenti, non vive nella Cronaca come re, ma come signore aquilano da potersi propiziare alla causa della politica comunale. Che Giovanna I fugga in Prove a e Ludovico d'Ungheria trami per la successione al Regno sono fatti che il poeta facilmente è disposto a trascurare per giungere all'elemento di maggior interesse ai fini della sua storia del 1348, che è data dal dramma degli Aquilani durante la pestilenza, le cui scene d'orrore B. descrive diffusamente nonostante la crisi profonda che doveva ancora turbare la coscienza dei sopravvissuti.
Nel tragico il poeta trova la misura della perfetta rappresentazione perché la realtà che si propone di rievocare alla memoria del suo pubblico e che cerca nella storia è quella di un'intera collettività sopraffatta dalla violenza di pochi: il tema della miseria, della guerra, della pestilenza, cioè tutta la tematica di B. che si svolge tramite questi elementi tragici e non altri trova la sua ragion d'essere nell'idea dell'aquilano che realisticamente dipinge la storia in conformità del suo oltraggiato sentimento politico. L'idea di B. si realizza nella costituzione di un libero regime municipale, ma il mondo che vuol ritrarre è quello della tirannide che ne ostacolò la realizzazione: il merito poetico dello'scrittore consiste nell'aver fatto di questo mondo un mondo tragico, nell'aver scelto fra i ricordi e le speranze personali quei tratti che potessero più efficacemente rappresentare agli occhi dei contemporanei il triste regno della violenza baronale. Ed ecco il ricordo dei danni sopportati dalla città nel periodo delle discordie, la carestia, il disordine politico, la crisi del potere costituito. Sono scene in cui la partecipazione dello scrittore alla materia della sua poesia è spontanea e incondizionata; in esse il dialogo che B. stabilisce con gli elementi progrediti della società aquilana si rende ancora più comprensivo perché nelle rievocazioni dei pericoli, delle lotte occorse per l'edificazione di una realtà e di una coscienza municipale i contemporanei avvertono nel poeta una guida al chiarimento di comuni esigenze e aspirazioni.
Per questo i tratti più significativi del poema sono quelli in cui direttamente appare come protagonista dell'opera il popolo aquilano, alle cui gestes B. di continuo assimila il valore della personalità d'eccezione. È allora che l'ispirazione del poeta si dispiega a creare quelle poderose scene di massa che costituiscono l'elemento caratteristico della storia di B., si tratti di guerre o di massicce sollevazioni, scene di peste o descrizione di pubbliche calamità, in cui comunque tutta la collettività cittadina è coinvolta e sinteticamente raffigurata: enormi quadri in cui riusciamo a scorgere la folla, mai i volti dei protagonisti. Invano nella Cronaca si cerca il profilo di un personaggio preminente: tranne che i grandi dignitari del Regno la cui vicenda il poeta trasferisce a significare una situazione particolaristica o collettiva, le personalità minori compaiono in scene solo sommariamente delineate che rivelano nella loro essenzialità i limiti dell'arte di Buccio. Di rado i ritratti si armonizzano secondo schemi di elaborazione suggeriti da una misura d'arte scaltrita; dovunque il racconto si esaurisce in quelle rappresentazioni sintetiche che escludono l'immagine caratterizzante per un complessivo effetto d'insieme.
Considerazioni ugualmente limitative riguardano gli aspetti formali della Cronaca, ché il lessico indugia di continuo su un sostrato dialettale empiricamente assurto a lingua letteraria, mentre la narrazione, disolito rapida e concisa, procede sulla trama di una sintassi ellittica, caratteristica quasi di un parlante. Del resto la rima o l'assonanza vengono sempre spontanee all'autore, e i versi presentano numerose forme ipermetriche o deficienti rispetto allo schema dell'alessandrino che s'era stabilizzato nell'Italia meridionale. Queste remore nell'arte di B. (corrispondenti per altro verso a un ristretto orizzonte culturale che si riflette nella materia del poema, sempre limitata alla cronaca cittadina anche quando particolari situazioni e avvenimenti avrebbero potuto essere inseriti in una prospettiva più vasta, e infine evidenti anche nell'adozione di un'antiquata forma metrica per una poesia di ispirazione storica e politica) sono da ricondursi a quel provincialismo in cui venne a trovarsi il Comune meridionale durante il periodo della dominazione angioina, estraneo alle correnti più vitali e progredite della cultura. S'avverte manifestamente nella Cronaca la mancanza di una progredita tradizione letteraria sul cui fondamento può soltanto attuarsi una consapevole elaborazione tematica e formale, ma sotto questo aspetto, i limiti culturali che si individuano in B. corrispondono di fatto alla situazione storica del Comune aquilano soggetto politicamente al Regno e culturalmente legato alla politica della diocesi. Probabilmente fino a tutto il sec. XIII e gran parte del seguente la produzione dei chierici dovette essere preponderante a giudicare dalla poesia sacra di cui ci rimane testimonianza: preghiere, vite di santi, laudi, riflessioni morali di intonazione fortemente religiosa; generi che si protrassero inalterati nel Mezzogiorno, soggetto alla restaurazione angioina, e all'Aquila specificatamente dove una poesia di ispirazione devota dové presiedere all'istituzione comunale favorita dalla Chiesa e alla riedificazione della città voluta da Carlo d'Angiò. Ancora nel 1330 B. apportava il suo contributo alla letteratura devota con un poemetto agiografico: in effetti un esperimento di poesia civile non si verificò all'Aquila fino alla seconda metà del Trecento quando lo scrittore, sulla base di una lenta ma sensibile laicizzazione della vita pubblica, tentò un poema comunale rinnovando dall'esterno la tradizione dei vecchi generi letterari, secondo la coscienza che della sua opera ebbero i continuatori e gli storici umanisti.
Assertore di una storiografia audacemente mondana che riponeva nella vita del Comune le ragioni più profonde in interesse, B. s'impose all'arninirazione di Antonio di Buccio e di Niccolò da Borbona (autore il primo di due poemi: Delle cose dell'Aquila e Della venuta del Re Carlo di Durazzo al Regno dal 1363 al 1382, in Antiq. Ital. Medii Aevi, VI, coll. 707-848; il secondo Della Cronaca delle cose dell'Aquila dall'anno 1363all'anno 1424, ibid., coll. 853-876), mentre l'anonimo compositore della Cronachetta... dall'anno 1055 all'anno 1414 procedeva ad una schematica riduzione in prosa della Cronaca rimata (in G. Pansa, Quattro cronache e due diarii inediti relativi ai fatti dell'Aquila dal sec. XIII al sec. XVI, Sulmona 1902, pp. 3 ss.), seguendo in questo una prassi assai diffusa in periodo preumanistico. Nel Rinascimento si redassero varie copie del poema, alcune delle quali si leggevano ancora al tempo dell'Antinori; l'opera inoltre entrò in vaste raccolte intese ad ampliare i limiti cronologici del poema (un elemento decisivo ai fini della conservazione integrale del testo): tale la siiloge di Alessandro De Ritiis. Ancora nel Cinquecento la Cronaca aquilana fu considerata come l'inizio tradizionale per ogni successiva indagine sugli avvenimenti più vicini ai moderni scrittori, ma è anche vero che dal Cirillo al Massonio, fino agli Annali antinoriani e alla raccolta del Muratori è possibile rintracciare una tendenza pressoché continua di isolare la personalità del poeta fino a idealizzarla nell'identificazione col regime comunale.
I problemi che si presentarono alla critica settecentesca furono prima di tutto quello di rintracciare il testo più attendibile della Cronaca fra le molte copie compilate in epoca umanistica (e l'Antinori fu propenso a dar fede al manoscritto di Francesco d'Angeluccio, vivace narratore della storia cittadina per gli avvenimenti compresi fra il 1436 e il 1485); poi di formulare un giudizio estetico evidentemente connesso, ma per la prima volta in maniera non condizionante, al valore storico del poema, che l'erudito abruzzese ritenne comunque opportuno verificare in una dissertazione sui comitati di Amiterno e Forcone (Ad Hist. Aquilanam Introductio..., in Antiq. Ital. Medii Aevi, VI, coll. 487-524). Il giudizio dell'Antinori, che lo stesso Muratori mostrava di sottoscrivere, era fortemente limitativo e giungeva al termine di una serie di considerazioni sulla rozzezza formale del poema che avrebbe individuato in B. uno scrittore culturalmente arretrato. Su questo punto si articolerà la valutazione più duttile della critica posteriore, dalla interpretazione postromantica del De Bartholomaeis alla lettura del Croce, al quale si deve l'individuazione delle pagine più schiettamente poetiche. Ma grazie alla rigorosa indagine dell'Antinori la Cronaca aquilana era frattanto uscita dal ristretto ambito di una tradizione cittadina per imporsi al più vasto pubblico dei critici e dei filologi.
Fonti e Bibl.: Cominciò C. De Lollis ad avanzare alcuni dubbi sull'autorità dell'edizione Antinori in un articolo ricco di osservazioni e suggerimenti (Ricerche abruzzesi, in Bull. dell'Ist. stor. ital., II [1887], pp. 53 ss.): sollecitazioni che dovevano essere largamente accolte da V. De Bartholomaeis per la nuova edizione della Cronaca che egli curò sul fondamento della lezione De Ritiis (Buccio di Ranallo, Cronaca aquilana rimata, Roma 1907, in Fonti per la Storia d'Italia, XLI) premettendo un'ampia introduzione che costituisce il più importante contributo monografico dedicato al poeta aquilano. Nell'edizione De Bartholomaeis si leggono anche i ventuno sonetti parzialmente editi da E. Percopo in Poemetti sacri dei secc. XIV e XV... con una appendice di X sonetti inediti di B. di R., Bologna 1885, e poi dal De Lollis (Sonetti inediti di B. di R., in Giorn. stor. della lett. ital., VIII [1886], pp. 242 ss.), mentre si interessava del testo dell'agiografia cateriniana A. Mussafia (Zur Katharinenlegende, nel volume CX dei Sitzungsberichte der Phil.-hist. Classe der Kais. Akademie der Wissenschaften, Wien 1885) riprodotta dal Percopo (Poemetti sacri..., già cit., pp. 49 ss.) e infine da C. Guerrieri-Crocetti in L'antica poesia abruzzese, Lanciano 1914, pp. 107 ss.
Pressocché continua la fortuna della Cronaca in tutto l'arco della storiografia cittadina delle origini. Solo a voler ricordare il dibattuto problema sul privilegio di fondazione, che B. giustamente attribuiva a Corrado IV, la testimonianza del poeta rappresentò la base più sicura di discussione (vedi per gli argomenti conclusivi G. M. Monti, La fondazione di Aquila e il relativo diploma, in Atti e mem. del Convegno stor. abruzzese-molisano, Casalbordino 1932, pp. 249-275, e A. Chiappini, Fondazione,distruzione e riedificazione dell'Aquila capitale degli Abruzzi, in Misc.in mem. di A. Gallo, Firenze 1956, pp. 255 ss., ma il lavoro più aggiornato anche sugli avvenimenti aquilani narrati nella Cronaca èdi R. Colapietra, Profilo dell'evoluzione costituzionale del Comune aquilano fino alla riforma del 1476, in Arch. stor. ital., CXVIII[1960], pp. 3-57, 163-189). Per la fortuna del poema nel Rinascimento vedi soprattutto L. A. Antinori (A. Leosini), Annali della città dell'Aquila, Aquila 1883, pp. 343 ss. e la recensione di N. V. Testa all'edizione De Bartholomaeis, in Boll. della Soc. di storia patria... negli Abruzzi, XIX (1907), pp. 213 ss. Sui manoscritti del poema già segnalati dall'Antinori vedi O. D'Angelo, Un altro codice di B. di R.,ibid., XXI (1909), pp. 323 ss.
Utili per determinare la genesi del poema nell'ambito di una esatta prospettiva storico-culturale sono i lavori di G. Pansa, L'epopea carolingia in Abruzzo, in Rass. abruzzese di storia ed arte, III(1899), pp. 153 ss.; V. De Bartholomaeis, Prose e rime aquilane del sec. XIV, in Boll. della Soc. di storia patria... negli Abruzzi, s. 3, V (1914), pp. 7 ss.; A. Altamura, La letteratura dell'età angioina, Napoli 1952, p. 76; F. A. Ugolini, Testi volgari abruzzesi del Duecento, Torino 1959, pp. 6 ss., dai quali appare lecita la riconduzione della Cronaca al terreno della poesia didascalica meridionale e meno convincente, per riscontro, l'ipotesi di B. Croce - già contenuta nell'introduzione del De Bartholomacis - propenso a sopravvalutare nel poema la traccia delle chansons de geste, in Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1946, pp. 202 s. Sul sentimento religioso di B. e in particolare sulla devozione del poeta per S. Pietro Celestino vedi I. Ludovisi, Celestino V nella mente di B. di R., in Celestino V e il VI centenario della sua incoronazione, Aquila 1894, pp. 485-510, e A. Frugoni, Celestiniana, Roma 1954, soprattutto le pp. 169 ss. Il menzionato articolo di E. Casti si intitola Dell'autobiografia di B. di R. da Poppleto, in Boll. della Soc. di storia patria... negli Abruzzi, III (1891), pp. 105-152. Vedi infine V. De Bartholomaeis, Un doc. relativo a B. di R.,ibid., s. 3, V (1914), pp. 145 s., e C. Mutini, La cronaca aquilana nella poesia di B. di R., in Bull. dell'Ist. storico italiano per il Medio evo e Arch. Muratoriano, n. 74 (1962), pp. 175-211.