STEFANI, Bruno
STEFANI, Bruno. – Nacque a Forlì l’11 gennaio 1901 da Zaira Fuzzi, sarta e da Francesco, calzolaio.
Sin da giovane fece pratica come fotografo presso alcuni studi della sua città natale, di Vicenza e Bologna e non abbandonò la macchina fotografica neanche durante il servizio di leva. Nel 1925, a causa dei frequenti scontri con gruppi di fascisti e della forte conflittualità locale decise di trasferirsi a Milano, che divenne presto sua città d’adozione e protagonista di innumerevoli scatti. Qui iniziò a collaborare con la casa editrice Rizzoli e con gli studi Camuzzi e Aragozzini. Nel 1929 sposò la conterranea Ines Casadei, di un anno più giovane. Nell’aprile del 1930 – insieme a Giuseppe Cavalli, Secco D’Aragona, Ferruccio Leiss, Alfredo Ornano, Giò Ponti, Emilio Sommariva e Federico Vender – fu tra i fondatori del Circolo fotografico milanese (CFM) che, nel corso degli anni, promosse importanti mostre favorendo, al contempo, i rapporti tra autori della fotografia nazionale ed europea.
Il 1931 segnò l’inizio della sua trentennale collaborazione con il Touring club italiano (TCI) – esperienza che lo condusse in tutta la penisola italiana e all’estero – mentre la rivista Luci ed ombre pubblicò alcuni suoi scatti, e così per diversi anni consecutivi. Sul numero del 1932 le sue foto furono tra quelle citate per il «pregio del taglio» che «è particolare vocazione richiesta al fotografo e singolare necessità della sua arte» (D. Pellice, Fotografia arte di guardare, in Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, XI (1932), p. XII). Sempre nei primi anni Trenta iniziò a collaborare con La rivista illustrata del Popolo d’Italia, edita da Alfieri e Lacroix.
Nel 1933 avviò un’altra preziosa collaborazione, con il neonato studio di Antonio Boggeri, destinato a imporsi come uno dei principali studi pubblicitari in cui grafica, fotografia, e design convivevano forti dell’esperienza del Bauhaus. Boggeri realizzò campagne pubblicitarie per importanti imprese (Olivetti, Dalmine, Pirelli) potendo, via via, vantare collaboratori del calibro di Bruno Munari, Erberto Carboni e Xanti Schawinsky. Fu questo un momento cruciale per Stefani, che poté approfondire le sue conoscenze delle avanguardie – in particolare tedesche – e prendere contatti diretti con committenti dell’industria. In questo periodo interruppe i rapporti con gli studi Camuzzi e Aragozzini, intensificando quelli con il TCI che lo chiamò sempre più spesso a collaborare per Le vie d’Italia (giunto a 180.000 copie di tiratura) e per Attraverso l’Italia, raccolta di volumi monografici sulle regioni italiane. Nel 1937 avviò una sua attività aprendo uno studio in via Diacono 1 a Milano. Nello stesso anno le acciaierie Dalmine decisero di affidarsi allo studio Boggeri per un’ampia campagna pubblicitaria centrata su manifesti, cataloghi, loghi. Fin dal 1924 l’azienda aveva avviato un notevole ampliamento delle sue strutture, affidando all’architetto Giovanni Greppi la progettazione di interi quartieri per operai e impiegati, di scuole, mense, una chiesa, la casa del fascio, colonie estive. Per pubblicizzare e testimoniare questo sistema di welfare industriale Boggeri scelse Stefani, che documentò il contesto produttivo, ma anche le strutture architettoniche, gli operai, le attività, i momenti di pausa. Scatti che nel tempo confluirono in una serie di album fotografici tra cui l’opuscolo del 1939 La Pro Dalmine. Le opere sociali e assistenziali della Dalmine S.A. diventando, «sul modello già utilizzato dalla propaganda di regime per la costruzione del consenso, [...] parte di un sistema di comunicazione di massa» (C. Lussana - J. Brigo, Committenza industriale, architettura, fotografia: Dalmine, Giovanni Greppi, Bruno Stefani, in Fotografia per l’architettura del XX secolo in Italia, a cura di M.A. Crippa - F. Zanzottera, Milano 2017, pp. 434-436, in partic. p. 434). Da queste immagini trapela un chiaro interesse per le avanguardie, specie per autori quali László Moholy-Nagy: diagonali, tagli netti, punti di vista estremi; la sua però non è solo ricerca di una visione inedita, ma anche interesse per l’umanità che vive e lavora in quelle strutture, in quelle forme. Stefani diede una dimensione solenne al lavoro, accentuata dalla forza luminosa dell’acciaio colato, lavorato, plasmato dall’uomo e dalle macchine, simbolo di modernità. A questa dimensione se ne affianca un’altra, quella presente nelle foto in cui ritrasse i momenti di pausa, di svago, in cui restituì una certa intimità e quotidiana umanità alle persone ritratte, come foto di un «album di famiglia» (R. Valtorta, Fotografi in archivio: studio Da Re, Dalmine 2012, p. 23).
Nel 1936 e nel 1938 il TCI, diventato Consociazione turistica italiana a seguito della campagna d’italianizzazione dei nomi stranieri, pubblicò due volumi dal titolo Il volto agricolo dell’Italia, con lo scopo – come recitava la dedica al duce di Carlo Bonardi – di «presentare agli Italiani e agli stranieri [...] l’ampio panorama dell’attività agricola italiana potenziata dal Fascismo [...] con l’ausilio efficace di una ricca documentazione fotografica» (I, 1936). Al progetto era stato chiamato a partecipare anche Stefani che – allontanandosi, almeno in parte, dalle immagini rassicuranti di molta fotografia di paesaggio, dal frequente appiattimento che sembrava a esse connaturato – si concentrò sul lavoro nei campi, sul territorio, i prodotti della terra, realizzando foto stratificate, dalle geometrie ricercate, senza però dimenticare le esigenze della committenza. Già dall’inizio degli anni Trenta fu tra i primi in Italia a usare la Leica, leggera e versatile. Niente a che vedere con il 13×18, scomodo e indimenticabile compagno di viaggio dei primi anni di carriera, che necessitava di pesanti lastre di vetro e di un treppiede ingombrante. Con le foto di paesaggio per il TCI si allontanò dalle vedute statiche e sospese tipiche dei grandi studi come Alinari; al contrario, anche grazie alla maneggevolezza del formato 35 mm, inserì il paesaggio all’interno di una narrazione e lo contestualizzò. Nel febbraio del 1937 Casabella, a corredo di un articolo di Giuseppe Pagano dal titolo La potenza del marmo, pubblicò alcuni scatti che Stefani aveva fatto due anni prima presso le cave di Carrara. Il committente, l’azienda Montecatini, fece pubblicare le sue foto anche nella monografia – Società generale marmi e pietre d’Italia, Milano 1931 – curata dallo studio Boggeri. In linea con molta fotografia di propaganda dell’epoca sottolineò il rapporto tra la materia, dura e ostile – il marmo – e l’uomo, che con il sudore del suo lavoro riesce a dominarla. Optò spesso per la prospettiva dal basso per ritrarre gli operai al lavoro, e per quella dall’alto per illustrare l’immenso paesaggio delle cave e le deflagrazioni. Rappresentò il corpo dell’uomo scegliendo in alcuni casi di estremizzare il contrasto tra la figura scura e il bianco dei blocchi di pietra. In anni nei quali pubblicità e propaganda fascista intrecciarono spesso in maniera indissolubile le loro maglie, Stefani sembrò riuscire a trovare un posto e uno spazio proprio. In questo senso la sua vicenda rimane eccezionale: fu uno dei più riconosciuti fotografi industriali dell’epoca e con il suo lavoro per il TCI contribuì «a creare un certo genere di fotografia», quella turistica e di paesaggio (A.C. Quintavalle, Nota introduttiva, in Bruno Stefani, 1976, p. 4), tutto questo pur non essendo iscritto al partito fascista.
Tra il 1938 e il 1940 viaggiò in Grecia, Turchia ed Egitto, cimentandosi nell’uso della pellicola a colori e di diapositive. Nel 1939, mentre era in Libia per un servizio su Gadames conobbe Italo Balbo, grazie al quale evitò la chiamata alle armi per l’imminente conflitto mondiale a cui anche l’Italia si accingeva a partecipare.
Tra il 1940 e il 1945 la sua attività fotografica, come quella di molti colleghi, rallentò ma non si fermò; lui stesso definì la guerra una croce per i fotografi. In questo periodo fu arrestato due volte: la prima a Modena, dove fu fermato mentre scattava foto per l’Ente turistico e diffidato dall’esercitare «quell’arte», la seconda a Milano, perché scambiato per una spia e successivamente rilasciato grazie a una testimone (Stefani, 1946, p. 560). Nel 1946 si definì «fotografo per passione da 20 anni», vagante nel suo peregrinare lungo tutta la penisola perché il fotografo è come il cacciatore che «non misura mai il cammino» e come il musicista che insegue le proprie visioni e trae ispirazione da esse. «Ho destato più di una volta il sorriso tra lo scettico e il canzonatorio delle persone posate che mi vedevano correre come un disperato dietro a una nuvola [...] nessun profano potrà comprendere la gioia che noi fotografi proviamo quando riusciamo a fissare in una pellicola ciò che abbiamo visto e, ancora più che visto, sentito» (p. 556).
Tra il 1940 e il 1942 fotografò le distruzioni causate dai bombardamenti a Milano; nel marzo del 1943 andò a Riccione per un servizio sulla colonia Donegani per bambini sfollati. Nello stesso anno Fotografia pubblicò alcune sue foto. Scopo dei curatori della raccolta era smentire la superiorità della fotografia straniera su quella nazionale, lasciando che fossero le immagini a parlare. Nel 1947 Ferrania, colosso nella produzione di pellicole fotografiche, diede alle stampe il primo numero dell’omonima rivista, scegliendo per la copertina una sua foto e nel 1952 pubblicò una recensione dai toni entusiastici sulla sua mostra personale a Milano: «erano cento superbe fotografie, scelte tra le quasi centomila che Stefani ha messo insieme nella sua lunga carriera» (V. D’Incerti, in Ferrania, aprile 1952, ora in Mediolanum 70. Immagini del Circolo fotografico milanese: 1930-2000, a cura di W. Tucci Caselli, Milano 2000, p. 139). Tra il 1953 e il 1955 fu tra i fotografi che pubblicarono più frequentemente sulle riviste di settore: Rivista fotografica italiana, Fotorivista, Ferrania, Popoular photography. Quest’ultima già nell’aprile del 1948 lo aveva definito «uno dei migliori fotografi moderni» (Notes on the picture section, in Popoular photography, 1948, p. 86). Dalla metà degli anni Cinquanta collaborò a diversi volumi dedicati all’Italia antica dell’Editoriale Domus (Sabbioneta, a cura di A. Puerari, Milano 1955; Piazza del Campidoglio, a cura di C. Pietrangeli, Milano 1955; Appia Antica, a cura di F. Castagnoli, Milano 1956), in cui si dava centralità alle immagini a carattere documentario, rivedendo l’equilibrio tra testo e foto in favore di quest’ultima. Un discorso a parte meritano gli scatti che dalla metà degli anni Venti al 1960 fece ‘alle sue Milano’, parafrasando il titolo dell’unico studio approfondito sul fotografo (R. Campari, in Bruno Stefani, 1976). Immagini con riferimenti iconografici diversi poiché libere dalle maglie della committenza: alle foto di sapore pittorialista scattate con l’obiettivo flou del 13×18, in cui la linea dell’orizzonte è a metà dell’immagine, seguono quelle degli anni Trenta in cui il punto di vista si solleva e la città e la folla senza volto – sulla scia del cinema nordeuropeo di quel periodo – diventano un motivo astratto, e poi quelle degli anni Quaranta e Cinquanta in cui le persone riacquistano i loro lineamenti anche alla luce dell’esperienza neorealista. Bruno Stefani fu fotografo per passione e «la passione dell’obiettivo non è mai limitata a determinati soggetti. [...] Per mio conto ho ritratto il nudo, le persone, la moda, la grande industria; sono sceso nelle profondità delle miniere, sono salito sulle vette più alte, mi sono introdotto nelle sale chirurgiche, nei musei, nelle officine, ho vagato pei campi» (Stefani, 1946, p. 558).
Negli anni Sessanta interruppe la sua attività di fotografo. Nel 1976 il suo archivio venne donato all’Università di Parma.
Morì a Milano nel 1978.
Le sue foto sono state esposte in diverse mostre, si ricordi: la Triennale di Milano, Milano 1933; la Valk Fotografie, Eindhoven 1950; la Mostra della fotografia europea, Milano 1951, la mostra personale organizzata dal CFM, Milano 1952; la personale Bruno Stefani, Parma 1976.
Fonti e Bibl.: Il corpus maggiore della sua produzione è conservato presso il Centro studi e archivio della comunicazione di Parma e comprende 2032 rulli di negativi, 6000 tra stampe e diacolor. Da segnalare anche l’archivio on-line del TCI, l’archivio della Fondazione Dalmine e l’archivio storico dell’ENI.
Il volto agricolo dell’Italia, I-II, Milano 1936-1938; Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, a cura di E.F. Scopinich, Milano 1943; B. Stefani, Ricordi di un fotografo vagante, in Le vie d’Italia, Milano 1946, pp. 556-560; B. S., a cura di R. Campari, Parma 1976 (in partic. R. Campari, Le Milano di Stefani, pp. 7-21); Dalmine dall’archivio fotografico: lavoro, industrie, prodotti, a cura di M. Buscarino - P. Ortoleva, Dalmine 2006; B. S., in La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. Gli anni del dopoguerra, a cura di M. Miraglia, Nuoro 2009; V. Corbetta, B. S., in Archivio storico Intesa SanPaolo, Newsletter, 2011, 10, http://progettocultura.intesasanpaolo.com/files/page/newsletter10.pdf (10 marzo 2019); I mille scatti per una storia d’Italia, a cura di G. Bianchino - A.C. Quintavalle, Milano 2012; A.P. Desole, La fotografia industriale in Italia 1933-1965, San Severino Marche 2015.