FONZI, Bruno
Nacque il 27 genn. 1914 a Macerata da Giuseppe e da Maria Teresa Brancati. La famiglia, marchigiana e aristocratica per parte materna e di origini abruzzesi per parte di padre, un dirigente della Microtecnica di Torino, apparteneva al ceto borghese medio-alto che il F. avrebbe frequentato anche presso il capoluogo piemontese, dove i Fonzi si trasferirono nel 1926. Laureatosi in economia e commercio secondo i desideri familiari e libero da obblighi militari per un'invalidità contratta cadendo da cavallo, il F. assecondò ben presto le sue inclinazioni e si stabilì a Roma, dove collaborò con l'Istituto LUCE e si inserì nell'ambiente letterario, artistico e cinematografico che, nel primo dopoguerra, ebbe protagonisti quali G. Debenedetti, G. Bassani, N. Gallo, A. Moravia., E. Flaiano., Elsa Morante. Fra l'humus intellettuale da cui M. Pannunzio diede vita a Il Mondo, cui il F. collaborò dal 1953 al 1960 con racconti e articoli.
Intanto aveva cominciato a tradurre dall'inglese e dal francese, vero e proprio lavoro che condusse sino alla fine dei suoi giorni. Nel 1949 sposò Ada Fosco e si stabilì a Torino, dove collaborò con la casa editrice Einaudi; ebbe quindi due figlie, Daniela e Carlotta. Nel 1961 uscì per Einaudi la raccolta di racconti Un duello sotto il fascismo e, nel 1964, Il Maligno, romanzo che ottenne il premio Chianciano (tradotto per le edizioni del Mercure de France nel 1966 da P. Laroche e rist. da Il Sestante nel 1993). Sempre per i tipi di Einaudi apparvero nel 1973 il romanzo Tennis e nel 1974 I pianti della Liberazione, un racconto lungo secondo la moda instauratasi in quegli anni, ma in realtà scritto dal F. nel 1960 e già compreso nella silloge del 1961. Nel 1975 Equivoci e malintesi compendiò tutti i racconti; a quelli editi nel Duello se ne aggiunsero tre apparsi su Il Mondo.
Intanto si susseguivano le traduzioni, alcune indicate come vere reinvenzioni linguistiche (notevoli Le Confessioni di Nat Turner di W. Styron, Torino 1968, e Memorie di una maitresse americana di Nell Kimball, Milano 1975). L'elenco delle traduzioni, apparse soprattutto da Einaudi ma anche da Mondadori, Longanesi, Adelphi, è lunghissimo: basti qui rammentare Teatro di A. Miller (Torino 1959), Teatro di E. O'Neill (ibid. 1962) e - tra gli altri autori tradotti - J.-P. Sartre, Simone De Beauvoir, Th. Dreiser, I.B. Singer, Susan Sontag, M. Twain, E. Hemingway, E.L. Doctorow. Negli ultimi anni il F. lasciò la consulenza per la narrativa inglese e nordamericana alla casa editrice Einaudi e divenne consulente editoriale per la Garzanti a Milano.Fondamentali, nella biografia esistenziale e letteraria del F., sono le Marche dell'infanzia e della famiglia matema, frequentate anche nel periodo dello sfollamento e sempre ricordate con tenera se pur ironica nostalgia con gli scrittori e amici marchigiani che frequentava a Roma, in primis L. Bigiaretti e G. Vicari. Le Marche divengono lo sfondo di molte pagine narrative e il Maligno può ritenersi, nel suo motivo profondo, un affresco del mondo arcaico della piccola patria nativa.
Il F. rappresenta il mondo contadino com'è e com'era, nei suoi impulsi elementari e generosi, carichi tuttavia del peso dell'ignoranza, del bigottismo, dell'ubbidienza a luoghi comuni accettati come leggi, un mondo in cui gli innocenti finiscono talvolta per essere vittime, come Settimina, la mentecatta, che ascolta il mare nella conchiglia ricevuta in dono dalla contessina, "l'unico oggetto non necessario" che per lei rappresenta "il bello della vita".
Accanto ai contadini - fra gli altri Lorenzo, il norcino, la cui uccisione del maiale suggerisce al F. una pagina di forte realismo - vivono nel romanzo le ossessioni erotiche e le sensuali fantasie della classe dominante, in una decadenza tanto estenuata quanto lucidamente compiaciuta, rappresentata in personaggi impressi di una risentita ironia. Per quel che concerne il mondo arcaico la critica suggerì un confronto con le "lucciole" di pasoliniana memoria (M. Biondi, Equivoci e malintesi... di B. Fonzi, in Paragone, XXVII [1976], 318, pp. 106-109), ma ben diverso deve essere considerato l'atteggiamento del F. che proietta, è vero, sulla terra e la gente delle sue origini una memoria fedele, giudicandone tuttavia le varie componenti sociali con l'atteggiamento di un illuminista libertino. Il F. che amava C. Sbarbaro, stimato per le qualità etiche oltre che letterarie, ebbe dal poeta di Pianissimo critiche attente al suo romanzo che furono motivo di uno scambio epistolare. La reciproca stima dei due scrittori trova la sua prima radice nell'impegno letterario perseguito nella quotidiana fatica di un mestiere umilmente coltivato e ritenuto assoluto, senza concessioni e compromissioni sul piano civile e politico. Per questo il poeta, che non ebbe esitazioni circa la dissociazione tra l'essere e il dire - tra i caratteri forse più significativi e laceranti del secolo -, e l'ironico narratore marchigiano, in apparenza pigro osservatore delle polemiche e delle mode del suo tempo, furono entrambi, senza grandi gesti, ma con rara coerenza, prima antifascisti e poi, per via d'una riflessione libera, impietosa e talvolta divertita, critici e commentatori dei fasti e nefasti della democrazia.
Vi sono, a prescindere dalle Marche, diversi altri luoghi ricorrenti nella biografia del F., usati come fondali per la commedia di costume ch'egli mette in scena nelle sue pagine. Roma del primo dopoguerra, innanzi tutto, che ha in lui un osservatore acuto e perspicace. Prevale, tra i protagonisti dei racconti romani di Un duello sotto il fascismo, la minuta gente impiegatizia, quel ceto a metà tra popolare e borghese, penosamente omologato dall'ossequio al luogo comune e dalla mediocrità dei sentimenti e delle rivalse sociali. Ma c'è anche la presenza, tratteggiata con ironia, dell'élite intellettuale, con i suoi tic, le sue presunzioni, le sue smodate ambizioni e i suoi abissali scoramenti. Notevole, sotto questo aspetto, è La contessa di Lautrémont, dove appare "l'amico Varo", pseudonimo di Giacomo Natta, amico caro sia al F. sia a Sbarbaro.
Di Natta il F. scrisse in altri due racconti e in due articoli e si sa che attendeva nell'ultima stagione della sua vita a un libro su questo bizzarro protagonista della vita culturale, singolarmente privo di ogni vanità letteraria. Nella folla romana rappresentata nei racconti emergono alcuni ritratti fortemente rilevati al limite del grottesco come Donna Zita o i protagonisti dei Malmaritati, sbozzati con malizia, erotismo e allegria.
Altro luogo significativo per l'esistenza del F. è la Torino che nella casa editrice di via Biancamano aveva trovato il suo centro di gravità. Egli fu amico di C. Pavese, Natalia Ginzburg, I. Calvino, F. Antonicelli, M. Mila. E da Torino si spostava spesso per raggiungere Bordighera, cosicché la Riviera di Ponente divenne un altro fondale privilegiato della sua narrativa.
Il romanzo Tennis (Torino 1973) ha infatti questo arco di Liguria come sfondo. Protagonista è un bellissimo giovane, Dido, che vive dando lezioni di tennis ma anche di pretesti e di piccoli intrighi, sfruttando senza vera persuasione le debolezze della ristretta società che frequenta: "un dilettante in tutto", ma "un maestro nello sfruttare lo snobismo altrui". Tennis ebbe un'insoddisfacente accoglienza dalla critica e dal pubblico con la conseguente delusione da parte dell'autore. Va detto che il F. seguiva con attenzione le polemiche, in quegli anni continue e insistite, intorno alla legittimità del romanzo come genere letterario, mentre nuove teorie critiche, dal formalismo allo strutturalismo, mettevano in crisi le certezze di più di uno scrittore di razza. Inoltre in Italia, dopo le grandi speranze della Liberazione, erano sopravvenuti, appunto, "pianti".
Tennis riflette insieme la decadenza di una società apparentemente florida e la crisi creativa di chi vuole rappresentarla. Di qui discussioni, verifiche, giudizi riduttivi, come quello di P. Dallamano (Paese sera, 7 sett. 1973), per il quale il libro era nato nella mente dell'autore come "l'adempimento di un modello di prototipo perfettamente adeguato ed esemplare nei confronti di una narrativa media e di consumo, se mai esistesse in Italia".
C'è in Tennis una struttura narrativa elaborata: i capitoli si alternano raccontati in terza persona e come altrettanti bloc-notes scritti in prima; il decimo capitolo trae le conclusioni delle singole storie e dell'intera vicenda narrata insieme con quella personale del narratore; Tennis si potrebbe anche definire un giallo che chiarisce il mistero dell'identità del narrante, ma solo fino a un certo punto; l'ironia del F. gli regala un ultimo schermo, non sufficiente però a nascondere dietro il sorriso l'amarezza di fondo e la serietà soprattutto, con cui questa partita di tennis si è consumata: il F. scopre infatti il gioco e si prende in giro: "Un romanzo su uno che scrive un romanzo".
L'ambiente, protagonista e non coro, è, come si è detto, la Riviera di Ponente, nella zona di frontiera con la Francia: nei bar, nel casinò di Sanremo, nei salotti di Bordighera, nelle case e negli alberghi di epoca umbertina, nei campi da gioco, vivono in una continua ricerca di vacanza esistenziale - da sé, dalla noia, dalla responsabilità -, personaggi emblernatici assai diversi tra loro ma cristallizzati come in un museo delle cere, larve e lemuri galleggianti nel vuoto. Accanto ai ricchi annoiati si muove una folla di gente minuta, camerieri, piccoli trafficanti, facchini, spesso emigrati dal Meridione. I materiali narrativi, che non sono pochi, sono ridotti in unità dal bel maestro di tennis coccolato e disincantato, che legge Kafka e Kierkegaard ma che sa riconoscere la marca di un profumo femminile. Deus ex machina sembrerebbe tuttavia anche l'amico scrittore del protagonista, che vive la crisi storica del momento sulla credibilità del romanzo come genere e sulla personale maniera di sperimentarlo. Ma poiché Dido fin dalla prima pagina è rappresentato in bilico tra due possibilità - giocare una partita di tennis o scrivere una mezza pagina - il Deus ex machina è in realtà uno solo, il F. stesso che, esercitando il suo humour, si fa gioco del lettore tirando fuori un personaggio dall'altro come nelle prolifere matrioske russe.
È evidente che preesiste al romanzo la dibattuta validità non solo di un genere letterario, ma di tutto, cose e ideologie. Il F. tuttavia ha scritto il suo libro con un impegno che è la negazione più probante di qualunque scetticismo, egli stesso negando col fare le ragioni che sostiene col dire: c'è un solo modo di salvarsi ed è esercitare bene il proprio mestiere, con una serietà che è la sola giustificazione di ciò che si è. Se il libro è leggero come un gioco, il tennis appunto, il gioco ha come posta la vita: di chi vive e di chi la possiede una seconda volta raccontandola a sé e agli altri. E, in fondo, a saper guardare nella filigrana di queste pagine, non sfugge lo spessore e la sapiente varietà delle stratificazioni.
Quando uscì Equivoci e malintesi (Torino 1975), comprendente i racconti scritti tra il 1942 e il 1974 - un vasto arco di tempo che segna del F. l'iter insieme esistenziale e artistico -, la critica fu unanime nel riconoscere la statura, l'autenticità e la presenza dello scrittore marchigiano nella narrativa contemporanea. Così come si snoda, il libro potrebbe anche definirsi un'ideale biografia del suo autore, se per biografia s'intende quel che essa diventa nella penna di chi sa reinventare le favole che gli hanno colmato di esperienze, di pensieri e di sogni la vita. Leggendo, la pellicola che si svolge davanti ai nostri occhi, a raccontare le molte cronache che fanno la nostra storia, non solo quella dell'autore, di trent'anni dopo la fine della guerra, non è mai sonnolenta né gratuita. Una storia in cui uomini e donne mostrano all'occhio attento dello scrittore le pieghe nascoste dei pensieri, le molle oscure dei sentimenti, il calcolo degli egoismi. Niente è netto, niente è sicuro nella comunicazione tra la gente in un mondo sfumato e sfaccettato dove il giudizio è facile solo se non si ha paura di sbagliare, perché l'equivoco è di casa e il malinteso fatale.
Ma il F. non è un moralista nel senso del fustigatore di costumi e del riformatore sociale: il distacco e l'ironia segnano il ritmo del discorso e le cadute di tono, prima che dal buon gusto e dall'eleganza intellettuale, sono impedite dalla controllata maniera dello scrittore di porsi di fronte ai propri personaggi, regista senza preconcetti né tesi da dimostrare. Il che non toglie la presenza implicita, ma severa, di un giudizio morale, tale da distruggere senza remissione un clima e i suoi protagonisti come il fascismo e i suoi devoti, tramite una corrosiva capacità di demistificazione in controluce di grottesco e di un'indignazione contenuta, come forse soltanto Fenoglio e Calvino hanno saputo esprimerla. Lo stesso giudizio morale è sotteso ai racconti dedicati alla società italiana che va mutando; c'è, nel tessuto delle cose e della letteratura, un "piccolo sgarro" che produce una falla inattesa per cui i conti non tornano come la ragione li aveva previsti: di qui quella umana malinconia che gli incrina talvolta la voce mentre attraverso i suoi personaggi ironizza su di sé e sul tempo che cancella a una a una ogni umana certezza.
Il F. morì a Milano il 5 giugno 1976.
Fonti e Bibl.: Si vedano i saggi (e l'elenco delle traduzioni curate dal F.) nel volume miscellaneo B. F. Le insidie dell'intelligenza, a cura di G. De Santi, Urbino 1990, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi presso l'università di Urbino (10-11 maggio 1988). Si veda inoltre: per le traduzioni del F. un elenco completo di quelle curate per l'editore Einaudi anche in Cinquant'anni di un editore. Le edizioni Einaudi negli anni 1933-1983, Torino 1983, p. 255. Diz. enc. della lett. ital., a cura di G. Petronio, Bari 1966, ad vocem; C. Antognini, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona 1971, pp. 492 ss.; Diz. della letter. ital. contemporanea, a cura di E. Ronconi, Firenze 1973, ad vocem; Diz. della letter. ital., a cura di E. Bonora, Milano 1977, ad vocem; Narratori ital. del secondo Novecento, a cura di G. Luti, Roma 1985, pp. 108 ss.