Bruno de Finetti
Bruno de Finetti ha dato molti e importanti contributi alle scienze: alla matematica pura e applicata, alla teoria della probabilità, alle scienze attuariali e anche alle scienze sociali, in particolare alla teoria economica. I risultati che egli ha raggiunto sono variegati, rigorosi e sorprendenti. Ne sono ancora consapevoli molti matematici, logici e teorici del calcolo delle probabilità; sono invece pochi gli scienziati sociali, e soprattutto gli economisti, che hanno raccolto l’eredità delle ricerche condotte da de Finetti, ricerche animate dal desiderio di mettere a disposizione degli studiosi di economia strumenti appropriati per «migliorare le strutture e i criteri e le situazioni a favore del livello di vita delle popolazioni» (Dall’utopia all’alternativa (1971-1976), 1976, p. 7).
Bruno de Finetti nasce a Innsbruck nell’impero austro-ungarico, il 13 giugno 1906. I genitori risiedono a Trento, allora austriaca, ma si trovano a Innsbruck poiché il padre Gualtiero, ingegnere di origini goriziane, sta realizzando la Stubaitalbahn, la ferrovia che collega il capoluogo tirolese a Fulpmes. Il padre e la madre, Elvira Menestrina, nutrono sentimenti patriottici per l’Italia (De Ferra 2005). Quando Bruno ha solo sei anni, e la famiglia è tornata a Trieste, il padre muore, prima che nasca la seconda figlia, Dolores. A tredici anni Bruno è colto da una grave malattia, l’osteomielite, che lo lascia claudicante. A diciassette anni, dopo il liceo a Trento, si iscrive al Politecnico di Milano. Nel biennio frequenta, per diletto, le lezioni di economia tenute da Ulisse Gobbi, trovando conferma
alle sue antiche intuizioni sull’assurdità di un sistema economico che produce fenomeni come la ‘rendita del consumatore’ e le sue conseguenze aberranti: la visuale distorta della logica egoistica del mercato e del tornaconto e dell’intrallazzo (B. de Finetti, Nota biografica, in Id., Scritti (1926-1930), 1981, p. XVII).
Decide di interrompere gli studi da ingegnere per iscriversi alla facoltà di Matematica dell’Università di Milano. Come testimonia una lettera alla madre (25 novembre 1925), la sua è una scelta sofferta, osteggiata dalla famiglia ma difesa con convinzione (F. de Finetti 2000). Tra i docenti che lo incoraggiano, vi sono due grandi matematici, Giulio Vivanti, relatore della tesi di laurea sull’analisi vettoriale in ambito affine, e Tullio Levi-Civita, noto per il suo lavoro sul calcolo differenziale applicato alla teoria della relatività. Prima della laurea è già autore di quattro pubblicazioni, tra queste uno studio (Considerazioni matematiche sull’eredità mendeliana) ispirato ai lavori del biologo Carlo Foà che appare su «Metron» (1926, 1, pp. 3-41), rivista diretta da Corrado Gini, presidente dell’Istituto centrale di statistica a Roma (Daboni 1987; Nicotra 2004 e 2005), presso il quale, laureatosi a ventun anni, è subito assunto.
Nel 1928, al Congresso internazionale dei matematici a Bologna, presenta Funzione caratteristica di un fenomeno aleatorio, in cui formula il noto teorema che ha il suo nome. Nel 1930 ottiene la libera docenza in analisi matematica e vince il premio Toja con Probabilismo. Saggio critico sulla teoria delle probabilità e sul valore della scienza, pubblicato grazie ad Adriano Tilgher, sostenitore del relativismo filosofico, in una collana diretta dall’epistemologo Antonio Aliotta (Nicotra 2007). Esporrà per la prima volta le sue teorie sulla probabilità soggettiva «anche in forma tecnica» nel 1935 in una serie di conferenze all’Institut Poincaré (Nota biografica, cit., p. XXII). Dal 1931 torna a Trieste, dove lavora all’Ufficio attuariale delle Assicurazioni Generali, che lascia nel 1946 per dedicarsi solo all’insegnamento presso la neonata facoltà di Scienze, titolare della cattedra di matematica attuariale. Nel 1934 presso l’Accademia dei Lincei gli è conferito il premio della Compagnia di assicurazioni di Milano.
Grazie all’esperienza acquisita alle Assicurazioni Generali come addetto alla modernizzazione dei sistemi informativi, è chiamato, dal 1951 al 1952, all’Istituto nazionale per le applicazioni del calcolo presso il CNR: collabora al progetto di installazione di un calcolatore elettronico sotto la direzione di Mauro Picone. Nel 1951, insieme a questi e a Gaetano Fichera, visita vari Centri di calcolo negli Stati Uniti (Nota biografica, cit., p. XIX). Nascono così i suoi lavori pionieristici sulle «macchine che pensano» (Pitacco 1987).
Partecipa anche al Simposio di statistica a Berkeley dove conosce Leonard J. Savage, «lo statistico-probabilista con il quale aveva maggior concordanza di idee» (Nota biografica, cit., p. XIX) che diffonde la teoria soggettiva delle probabilità in ambito inferenziale. Savage lo invita all’Università di Chicago, esperienza ripetuta anche nel 1957. Nel 1954 si trasferisce all’Università di Roma, dove fino al 1961 è titolare della cattedra di matematica finanziaria, poi, dal 1961 al 1976, della cattedra di calcolo delle probabilità, già ricoperta da Guido Castelnuovo, che viene di nuovo istituita appositamente per lui presso la facoltà di Scienze. Muore a Roma il 20 luglio 1985.
È ormai noto che nei lavori di de Finetti si cela un tesoro di risultati ottenuti ben prima che altri studiosi li raggiungessero. Tuttavia sono questi studiosi che il mondo scientifico ha premiato, attribuendo loro la paternità di idee che rappresentano una piccola parte del genio di de Finetti. Nel 1952 egli ha formulato il concetto di absolute risk aversion anticipando di oltre dieci anni Kenneth Arrow e John W. Pratt (Rubinstein 2006; Montesano 2009). Ancor più sorprendente è che nel 1940, in un lungo scritto intitolato Il problema dei pieni, pubblicato sul «Giornale dell’Istituto italiano degli attuari», abbia già proposto l’approccio media-varianza alla selezione di portafoglio, cuore della moderna economia finanziaria, che Harry M. Markowitz svilupperà autonomamente solo negli anni Cinquanta vincendo per questo il premio Nobel per l’economia nel 1990 (Rubinstein 2006; Markowitz 2006; Barone 2008). Ciononostante, il contributo fondamentale di de Finetti alla teoria economica è il suo concetto di probabilità (Lunghini 2007), che a ben vedere è il punto di appoggio di ogni sua riflessione.
De Finetti è convinto che la probabilità non esista «per definizione». Da ciò deriva la sua critica alle teorie oggettivistiche della probabilità, tanto nella concezione empiristica (Castelnuovo, Francesco P. Cantelli, Andrej N. Kolmogorov) – per cui, dire che la probabilità è 0,X significa che su un gran numero di prove quel dato evento si verificherà nel X% di casi circa – quanto nella concezione asintotica (Richard von Mises), per cui su una successione illimitata di prove, la frequenza dell’evento in questione tende al limite 0,X. «Dire che la probabilità di una certa asserzione vale 40 per cento appare – purtroppo! – come espressione concreta di una verità apodittica» (Probabilità, in Enciclopedia Einaudi, 10° vol., 1980, p. 1146). La probabilità è invece l’espressione numerica di un giudizio soggettivo.
Cosa vogliamo dire, nel linguaggio ordinario, dicendo che un avvenimento è più o meno probabile? Vogliamo dire che proveremmo un grado più o meno grande di meraviglia apprendendo che quell’evento non s’è verificato. Vogliamo dire che ci sentiamo di fare un grado più o meno grande d’affidamento sull’eventualità che esso abbia ad avverarsi. La probabilità, in questo senso ancor vago ed oscuro, è costituita dal grado di dubbio, d’incertezza, di convincimento, che il nostro istinto ci fa sentire pensando a un avvenimento futuro, o, comunque, a un avvenimento di cui non conosciamo l’esito. [...] La probabilità di un evento è dunque relativa al nostro grado di ignoranza; si può però ancora pensare che essa abbia un valore in un certo senso obiettivo. Si può pensare cioè che un individuo il quale conosca un certo ben determinato gruppo di circostanze e ignori le altre debba logicamente valutare le probabilità, almeno di certi eventi, in un modo ben determinato [qui de Finetti aggiunge, in nota: “Questo mi sembra sia il punto di vista del Keynes”]. Se è evidentemente relativa – relativa al nostro grado di ignoranza – la distinzione fra circostanze note e circostanze incognite, si può ancora pensare che abbia un significato obiettivo la distinzione fra circostanze che possono o non possono essere in relazione di causa ed effetto col verificarsi di un dato evento. [...] Ma facciamo un esame di coscienza, e vediamo un po’ quand’è che una circostanza ammettiamo possa influire su un certo fatto. Non è forse appunto quando la sua conoscenza influisce sul nostro giudizio di probabilità? [...] Gira e rigira, qualunque cosa si dica o si pensi, in fondo andiamo sempre a finire lì: il concetto di causa non è che soggettivo, e dipende essenzialmente dal concetto di probabilità (Probabilismo. Saggio critico sulla teoria delle probabilità e il valore della scienza, 1931, in Id., La logica dell’incerto, a cura di M. Mondadori, 1989, pp. 11-18).
Il nesso fra questa interpretazione della probabilità e la sua formulazione matematica è dato dallo schema della scommessa coerente: immaginiamo un individuo obbligato a esprimere, per ogni evento E appartenente a una certa classe C, un valore monetario V, in base al quale è disposto a scambiare con un banco una somma di denaro S (positiva o negativa) quando l’evento si verifica. Ogni volta che l’individuo realizza un guadagno (o una perdita), si avrà una perdita (o un guadagno) per il banco. Si richiede che la scommessa sia coerente, cioè che lo scommettitore sia disposto a scambiarsi di posto con il banco. Ne deriva che non sono ammessi guadagni certi (o perdite certe) prima di aver acquisito informazioni sicure sul verificarsi dell’evento E. Scelta una sottoclasse finita degli eventi, e nota una funzione indicatrice degli eventi I(E) (che vale 1 se l’evento si verifica e 0 altrimenti) è possibile definire una variabile aleatoria G che rappresenta il guadagno relativo a un sistema di scommesse sugli eventi considerati: G=SI(E)–V. A ogni evento corrispondono i rispettivi importi. La quota unitaria di scommessa, data dal rapporto V/S, è una probabilità, cioè un’espressione numerica di un giudizio soggettivo. La condizione di coerenza implica che, sia quando E si verifica, sia nel caso contrario, lo scommettitore e il banco non possano contemporaneamente ottenere un guadagno positivo. Estesa a tutte le sottoclassi finite di C, la suddetta condizione costituisce il principio di coerenza di de Finetti, che egli formula per la prima volta nell’articolo Sul significato soggettivo della probabilità, pubblicato nel 1931 sulla rivista «Fundamenta mathematicae». Su queste basi si dimostrano agevolmente tutte le proprietà classiche della probabilità: essa non può assumere valori negativi, né può essere superiore all’unità; se E è un evento certo, la sua probabilità è 1; se invece E è un evento impossibile, la sua probabilità è 0. De Finetti perviene così a una teoria matematica della probabilità, dimostrando
come sia possibile dedurre la teoria della probabilità da una definizione operativa (direttamente collegata con il problema della valutazione della probabilità) e da un principio che si può ritenere ragionevolmente soddisfatto dal comportamento di un qualunque individuo che agisca in condizioni di incertezza (Regazzini 1998, p. 604).
È stato notato da Giulio Giorello (2006) che per comprendere a fondo la critica di de Finetti alle concezioni oggettivistiche della probabilità occorre tener conto della sua idea che «il significato di un concetto risulta dall’uso di esso nelle proposizioni costruibili con il suo ausilio e in ciò si esaurisce» (L’invenzione della verità, 1934, ma edito solo nel 2006, p. 104). La validità del principio di induzione è dunque subordinata
a condizioni soggettive relative alle valutazioni di probabilità, e precisamente occorre che l’analogia tra i vari eventi ci faccia ritenere ugualmente probabile che le prove favorevoli e sfavorevoli si alternino in un ordine piuttosto che in un altro qualsiasi (L’invenzione della verità, cit., p. 130).
Su questa condizione detta di ‘scambiabilità’ de Finetti costruirà il celebre teorema di rappresentazione, che spiega la relazione tra probabilità e frequenza come conseguenza logica di opportune ipotesi, la cui adozione, nei casi concreti, è atto soggettivo (Regazzini 1998, p. 608).
Occorre precisare che la teoria della probabilità di de Finetti non coincide con quella di John M. Keynes, sebbene entrambe muovano da critiche profonde alle teorie classiche. Nel Treatise on probability (1921), libro su cui il filosofo Bertrand Russel esprime giudizi lusinghieri, Keynes tratta la probabilità come una relazione logica fra una proposizione conclusiva e un insieme di proposizioni che si riferiscono all’evidenza: i termini certo e probabile descrivono i vari gradi di credenza razionale concernenti una proposizione; tutte le proposizioni sono vere o false, ma la conoscenza che noi ne abbiamo dipende dalle circostanze (in sintonia con il principio dell’unità organica). Certo e probabile sono termini che esprimono rigorosamente nessi specifici fra le proposizioni e un corpus di conoscenza, reale, nel primo caso, e ipotetica, nel secondo (Carabelli 1988; Feduzi, Runde, Zappia 2012). Ciò che più conta è che, in The general theory of employment interest and money (1936) di Keynes, il concetto di probabilità è introdotto non per conferirle una struttura epistemica di tipo probabilistico, ma per potervi trattare due variabili cruciali nel funzionamento di un’economia monetaria di produzione (cioè del capitalismo): le determinanti del tasso di interesse e le determinanti delle decisioni di investimento (Lunghini 2007).
De Finetti accomuna questa teoria a quella esposta nel 1939 da Harold Jeffreys e ne dà una lettura critica:
Il punto di maggiore importanza concettuale su cui le opinioni di Keynes e Jeffreys da una parte e le mie dall’altra divergono sta nella risposta a tale domanda: è la probabilità soggettiva? Keynes e Jeffreys lo negano. Dice Keynes: “se sono assegnati i dati di fatto che determinano la nostra conoscenza, rimane oggettivamente fissato, indipendentemente dalla nostra opinione, cosa, sotto tali circostanze, sia probabile o improbabile”; analogamente il concetto è ribadito più volte, e tra l’altro colla seguente citazione di Bradley: “la probabilità ci dice cosa dobbiamo ritenere per vero in base a certi dati; essa non è relativa o soggettiva in maggior grado che qualunque altra conclusione da premesse ipotetiche, è relativa rispetto ai dati di cui si tratta, ma all’infuori di ciò in nessun altro senso”. [...] Ora, dicendo che la probabilità è soggettiva io intendo appunto significare che la sua valutazione può differire a seconda di chi la giudica, dipendendo da differenze mentali fra i diversi individui, e inversamente non vedo come, ammettendo tale dipendenza, la probabilità si possa dire oggettiva. [...] Una distinzione abbastanza pesante che viene a cadere accogliendo il mio punto di vista è quella delle proposizioni in primarie e secondarie [...]. Primarie sarebbero quelle affermazioni che non contengono valutazioni di probabilità, secondarie quelle che ne contengono. Per me un’affermazione contenente valutazioni di probabilità è priva di senso se non esiste (almeno sottinteso) il soggetto: colui che valuta la probabilità (Probabilisti di Cambridge, 1938, in Id., La logica dell’incerto, cit., pp. 210-11).
Se però Keynes avesse permeato l’intera General theory di un concetto di probabilità come probabilità soggettiva nel senso di Ramsey-de Finetti (e ciò avrebbe potuto fare grazie a Ramsey), egli avrebbe dovuto abbandonare la distinzione tra proposizioni primarie e proposizioni secondarie, così che l’intera General theory sarebbe stata esposta a critiche di indeterminatezza o di irrazionalismo (ancor più di quanto non sia stata o sia).
La teoria economica, per de Finetti e per molti studiosi italiani della sua generazione, è la teoria paretiana dell’equilibrio economico generale. Tuttavia, de Finetti contesta che per giungere a quel punto di «equilibrio economico», in cui il benessere non potrebbe essere aumentato per alcuni se non a detrimento di altri, basti lasciare piena libertà all’iniziativa privata e al mercato:
All’errore d’impostazione nella ricerca dell’‘optimum’, si aggiunge un più grave e odioso sofisma nell’indicazione dei mezzi atti a condurvi: è il sofisma ottimistico del liberalismo, la superstizione dell’anarchia autoregolantesi, secondo cui per giungere al massimo benessere per tutti il modo più semplice e più sicuro consisterebbe nel permettere a ciascuno di tendere a realizzare il massimo tornaconto egoistico. [...] Ma è vero un simile assioma? Molte pseudo dimostrazioni si basano su pretese analogie con la meccanica, dove effettivamente il passaggio a configurazioni di energia potenziale più bassa avviene in modo spontaneo, e l’equilibrio si raggiunge quindi spontaneamente quando l’energia si riduce a un minimo. È bene dimostrare subito perché l’analogia sia soltanto apparente, e le conclusioni illusorie. [...] Agli esseri viventi, e agli uomini in particolare, si possono chiedere prove ben più intelligenti, ma non quella di comportarsi secondo la coerente logica determinista della meccanica razionale. E proprio questo è l’errore grottesco di quanti pensano di modellare l’economia o la sociologia sugli schemi della meccanica, e credono pertanto alla possibilità di un equilibrio spontaneo in regime economico e politico di anarchia liberale. [...] Portare un po’ di logica nell’ordinamento economico non significa soltanto salvare dalla miseria e dalla fame coloro che dell’attuale sistema sono le vittime più dirette; significa anche correggere per tutti la sopravalutazione del materiale che l’attuale sistema inevitabilmente provoca (Il tragico sofisma, 1935, in Id., Un matematico e l’economia, 1969, rist. 2005, pp. 40 e segg.).
Parte da qui, dalla discussione dell’«optimum» paretiano, la riflessione di de Finetti sull’uso della matematica in economia e sulla pretesa ‘neutralità’ della scienza economica, riflessione che attraversa e unifica i saggi nella raccolta Un matematico e l’economia. Il suggerimento di de Finetti (e l’implicita critica agli economisti che non lo seguono, economisti descritti da de Finetti come «sconsigliati che maneggiano formule e terminologie matematiche con la stessa incoscienza di cui darebbe prova il matematico che non resistesse alla tentazione di improvvisarsi chirurgo per scoperchiare e rimescolare i loro cervelli nella speranza di renderli funzionanti» [All’attacco contro i feticci, 1967, in Id., Un matematico e l’economia, cit., p. 31]) è un suggerimento di saggezza e buon senso:
Per quanto riguarda l’impiego della matematica da parte mia, ciascuno potrà constatare che esso si limita al minimo necessario per trattare ed esporre le questioni nella forma più semplice e intuitiva che mi è possibile. Questa è del resto la mia suprema aspirazione sempre e dovunque: diffido di ogni spiegazione e dimostrazione (anche se formalmente ne è accertata l’esattezza) finché non mi sembri raggiunta la formulazione e interpretazione più semplice e significativa possibile, tale da farla apparire ovvia a chiunque ne penetri l’essenza (All’attacco contro i feticci, cit., p. 31).
Questo invito alla cautela e alla semplicità nell’uso della matematica è al centro dei lavori e delle tante iniziative che de Finetti dedica alla didattica della matematica (F. de Finetti 2010). Su esso si basa anche la critica di una pretesa neutralità della scienza economica, che de Finetti condivide con Federico Caffè:
La colpa della tesi della “neutralità”, o, meglio, la colpa dei suoi sostenitori, è che essi ne svisano il senso interpretando il concetto di neutralità in modo del tutto parziale: come un divieto cioè di formulare obiettivi diversi da quelli che ispirano il sistema vigente, e quindi in effetti come un crisma gratuito per consacrare dogmaticamente la realtà del momento, qualunque essa sia. Come argutamente osservò Ragnar Frisch, in questo modo si dimostra senza difficoltà che un qualunque regime che si consideri (sia quello della libera concorrenza o quello dei campi di sterminio nazisti) è quello “ottimo”, perché le condizioni ed ipotesi che s’introducono o si sottintendono ci limitano la visuale riducendoci sostanzialmente al confronto tra il sistema vigente e se stesso (Benvenuto al disgelo, 1962, in Id., Un matematico e l’economia, cit., p. 95).
Chi si dice «neutrale» può credere di esserlo o fingere di esserlo, ma in genere inganna se stesso o cerca di ingannare gli altri includendo i suoi «giudizi di valore» nella propria definizione di ‘neutralità’. L’apparente neutralità dell’economia matematica, si potrebbe dire, è conseguenza del fatto che la matematica decontestualizza il suo oggetto, ne rimuove la dimensione politica e dunque perde in rilevanza. Per quanto riguarda «il buon uso della matematica», scrive de Finetti:
La questione non consiste nell’uso di questo o quel tipo di matematiche, più o meno elementari o elevate, antiche o moderne, e via dicendo. Non c’è nulla che, di per sé, sia buono o cattivo: è l’uso che se ne fa (o in altro caso, il modo in cui lo si insegna [corsivo aggiunto]) che può essere buono o cattivo, o per dir meglio, essere o non essere adeguato. Il caso più tipico è quello di una impostazione assiomatica: si dimostra che una certa proprietà (sia l’esistenza di un equilibrio) esiste in un certo problema sotto queste e queste ipotesi, o “assiomi”. Matematicamente ogni risultato del genere (supposto esatto) è un risultato esatto, e basta. Ma quel che veramente conta è l’apporto all’economia, e tutto dipende non dal fatto che il risultato sia vero, ma che risponda a qualcosa di importante (Econometristi allo spettroscopio, 1965, in Id., Un matematico e l’economia, cit., pp. 181-82).
Tema confinante con quello dell’uso della matematica in economia è quello dell’econometria. Scrive de Finetti:
L’economista che volesse usare solo la matematica che ritiene gli serva, e il matematico che volesse limitarsi a teorizzare ciò che gli sembra dia luogo a strutture eleganti, ne farebbero entrambi un pessimo uso. Di questo secondo pericolo si fece interprete Ragnar Frisch, uno dei primissimi pionieri dell’econometria, esprimendo l’avviso che troppi lavori moderni ed intere teorie attualmente in auge siano privi di reale interesse per l’economia e lontani da ogni possibilità di applicazione concreta. Sono esercizi in cui ci si balocca con impostazioni astruse che traducono problemi fittizi o futili: non appartengono all’econometria ma alla ‘baloccometria’ (‘Play-o-metrics’). [...] La questione sostanziale (che si collega all’altra, di un più o meno ozioso compiacimento in generalità e sottigliezze) è quella della finalità degli studi econometrici: finalità conoscitiva o normativa, cioè a passivamente descrivere e spiegare i fatti così come si presentano all’osservazione, o invece a indicare il modo in cui dovrebbero andare per conseguire certi scopi, e le azioni e misure e decisioni atte a realizzarlo. [...] L’aspetto più decisivo di tale alternativa riguarda l’atteggiamento verso le posizioni estreme: di accettazione dell’automatismo del mercato o di integrale pianificazione (Econometristi allo spettroscopio, cit., pp. 175-77).
La questione mercato o piano è spesso presente negli scritti di de Finetti, ma è interessante che qui vi ritorni partendo da quella dell’uso della matematica e dell’econometria. Il modo in cui le due questioni si saldano (o dovrebbero saldarsi), per de Finetti è il seguente:
Primo: fissare in modo notevolmente rigido lo sviluppo delle attività essenziali sottraendolo all’influenza di volontà e d’interessi contrastanti od estranei a quelli collettivi rappresentati dallo Stato; Secondo: provvedere ad un sufficiente grado di flessibilità mediante meccanismi variamente decentrati di autoregolazione (problema cibernetico del feedback), a) entro un certo ambito con norme automatiche prefissate, e b) entro un altro ambito affidando questo compito a un’opportuna forma di iniziativa privata autonoma e spontanea. Beninteso, si tratta solo di congetture su cose che né io né altri di maggior competenza dovrebbe affermare in base a generiche riflessioni; giungere a precisarle in modo attendendibile dovrebb’essere il compito più impegnativo e fondamentale degli studi economici e sociali in generale e di quelli econometrici in particolare (Econometristi allo spettroscopio, cit., p. 179).
Circa l’econometria, d’altra parte: «si potrebbe forse rilevare una tendenza – a mio avviso eccessiva – a presentare i risultati di indagini empiriche come espressioni di leggi (o regolarità, o come dir si voglia) ritenute enunciabili “sub specie aeternitatis”, mentre dovrebbe apparire ben naturale, nella più parte dei casi, che tutto o molto dipenda da circostanze contingenti valide nei tempi e luoghi in cui le osservazioni sono state fatte» (p. 184).
De Finetti sembra ricondurre il problema econometrico par excellence, quello dei nessi causa-effetto, alla filosofia di David Hume, per cui anche la ‘causalità’ presuppone l’intervento attivo di un pensiero soggettivo: «per applicare il teorema di Bayes occorre attribuire delle probabilità alle ‘ipotesi’ prese in considerazione, e vedere poi come variano in seguito alle successive osservazioni e informazioni, e in base a ciò trarre conclusioni» (Decisione, in Enciclopedia Einaudi, 4° vol., 1978, p. 462).
Anche la scelta sociale avviene in un contesto di incertezza, perciò la funzione di benessere sociale, su cui de Finetti abbozza una sua teoria economica, non si basa sull’aggregazione di funzioni di utilità individuali. Essa va invece teorizzata a partire dalla definizione di obiettivi sociali, parziali, opportunamente pesati: a ogni possibile guadagno connesso al verificarsi di un evento corrisponde un obiettivo. Questo è lo schema concettuale su cui porre il problema della programmazione e del ruolo dello Stato.
Esemplificativo di questo metodo è lo studio (attualissimo) che egli dedica ai sistemi di sicurezza sociale, confrontando il criterio di ripartizione e quello di capitalizzazione: il primo dei due criteri è preferibile perché assicura ai pensionati un tenore di vita comparabile istante per istante a quello degli attivi. Inoltre – contro i fautori dei fondi pensione – de Finetti precisa che
l’esistenza di riserve, più che costituire una garanzia addizionale a favore dei beneficiari, fa non irragionevolmente sorgere il timore che essa venga ritorta a danno di essi, invocandosi l’insufficienza (causa svalutazioni o altri fattori) dei fondi accumulati a titolo di garanzia, quale motivo per annullare l’obbligazione sostanziale al sostentamento degli individui trovatisi nelle condizioni debite (Sicurezza sociale e obiettivi sociali, 1956, in Id., Un matematico e l’economia, cit., p. 279).
Una parte importante della personalità di de Finetti può essere colta attraverso un famoso evento di cronaca: il 18 novembre 1977, a 71 anni, a seguito di un mandato di cattura «per associazione sovversiva e istigazione dei militari a disobbedire» inviatogli come direttore di «Notizie radicali», si rende disponibile all’arresto presso l’Accademia dei Lincei in occasione della solenne cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico, alla presenza del presidente della Repubblica Giovanni Leone. Giunto al carcere di Regina coeli, nell’imbarazzo generale, «il matematico scomodo» – questo il titolo della biografia scritta da sua figlia Fulvia insieme a Luca Nicotra (2008) – viene rilasciato dopo dieci minuti a seguito della revoca del mandato di cattura (Rivolta 1977; Nicotra 2004 e 2005; Vecellio 2006). Il suo commento ai giornalisti mentre attende l’arresto è esemplare: «Per me è il riconoscimento che non sono soltanto un matematico, sono anche un cittadino che si preoccupa delle sorti dell’Italia, ridotta in questo stato da dei governanti che non stimo» (Barra 2007, p. 23).
La maggior parte dei manoscritti, delle lettere, degli appunti, e alcuni volumi della biblioteca privata di de Finetti sono stati acquistati dalla University of Pittsburgh (Pa.). Il catalogo è disponibile on-line (Bruno de Finetti Collection).
Nel sito http://www.brunodefinetti.it, curato da Fulvia de Finetti, si può trovare una bibliografia quasi completa delle pubblicazioni: 371 articoli, 21 tra trattati, monografie e raccolte e una recensione, in tedesco, al trattato sulla probabilità di Hans Reichenbach. Qui di seguito segnaliamo solo i testi ai quali ci siamo sopra riferiti e le raccolte degli scritti più importanti:
Considerazioni matematiche sull’ereditarietà mendeliana, «Metron», 1926, 6, 1, pp. 3-41.
Sul significato soggettivo della probabilità, «Fundamenta mathematicae», 1931, 17, pp. 298-329.
Il problema dei pieni, «Giornale dell’Istituto italiano degli attuari», 1940, 18, 1, pp. 1-88.
Il saper vedere in matematica, Torino 1967.
Un matematico e l’economia, introduzione di S. Lombardini, Milano 1969 (rist. 2005).
Teoria delle probabilità, 2 voll., Torino 1970 (rist. Milano 2006).
Dall’utopia all’alternativa (1971-1976), in Dall’utopia all’alternativa, a cura di B. de Finetti, Milano 1976, pp. 7-51.
Decisione, in Enciclopedia Einaudi, 4° vol., Torino 1978, pp. 431-84.
Probabilità, in Enciclopedia Einaudi, 10° vol., Torino 1980, pp. 1146-87.
Scritti (1926-1930), Padova 1981.
La logica dell’incerto, a cura e con un’introduzione di M. Mondadori, Milano 1989.
L’invenzione della verità, introduzione di G. Bruno, G. Giorello, premessa di F. de Finetti, Milano 2006.
Opere scelte, a cura dell’Unione matematica italiana e dell’Associazione per la matematica applicata alle scienze economiche e sociali, 2 voll., s.l. 2006.
C. Rivolta, Dieci minuti in carcere per de Finetti, «La Repubblica», 19 nov. 1977.
L. Daboni, Bruno de Finetti, «Bollettino dell’Unione matematica italiana», 1987, 1-A, pp. 283-308.
G. Israel, De Finetti Bruno, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 33° vol., Roma 1987, ad vocem.
E. Pitacco, Bruno de Finetti e le macchine che pensano, «Rivista IBM», 1987, 1, pp. 41-47.
A. Carabelli, On Keynes method, London 1988.
E. Regazzini, Teoria e calcolo delle probabilità, in La matematica italiana dopo l’Unità. Gli anni tra le due guerre mondiali, a cura di S. di Sieno, A. Guerraggio, P. Nastasi, Milano 1998, pp. 569-622.
F. de Finetti, Alcune lettere giovanili di B. de Finetti alla madre, «Nuncius. Annali di storia della scienza», 2000, 2, pp. 721-40.
L. Nicotra, Bruno de Finetti, così è se vi pare, «Notizie in controluce», 2004, 6, 8, 9, 11, 12; 2005, 1, 2 (ora raccolti in Id., Bruno de Finetti, http://lafrusta.homestead.com/pro_definetti.html, 25 giugno 2012).
C. De Ferra, de Finetti, la rivoluzione della probabilità, intervento al «Solvency II: Challenging issues for insurance industry», Banca Intesa, Milano, 23 novembre 2005, http://www.brunodefinetti.it/Bibliografia/de%20Finetti,%20la%20rivoluzione%20della%20probabilit%EO.pdf. (25 giugno 2012).
M. Barra, Bruno de Finetti, un matematico geniale al servizio della società, «Induzioni», 2006, 33, 2, pp. 9-18; 2007, 34, 1, pp. 9-24.
G. Giorello, “Inventare la verità”: Bruno de Finetti e la filosofia, relazione presentata al seminario Bruno de Finetti e la cultura del ’900, Aula Magna dell’Università di Roma La Sapienza, 13 giugno 2006, http://www.brunodefinetti.it/Bibliografia/Giorello.pdf. (25 giugno 2012).
H.M. Markowitz, De Finetti scoops Markowitz, «Journal of investment management», 2006, 4, 3, pp. 3-18.
M. Rubinstein, Bruno de Finetti and mean-variance portfolio selection, «Journal of investment management», 2006, 4, 3, pp. 1-2.
G. Vecellio, A proposito del nostro compagno Bruno de Finetti, «Notizie radicali», 6 luglio 2006.
G. Lunghini, Bruno de Finetti and economic theory, «Economia politica», 2007, 1, pp. 3-11.
L. Nicotra, Bruno de Finetti scrive ad Adriano Tilgher, «Lettera matematica Pristem», 2007, 64, pp. 35-44.
L. Barone, Bruno de Finetti and the case of the critical line’s last segment, «Insurance: mathematics and economics», 2008, 48, 1, pp. 359-77.
F. de Finetti, L. Nicotra, Bruno de Finetti. Un matematico scomodo, Livorno 2008.
A. Montesano, De Finetti and the Arrow-Pratt measure of risk aversion, in Bruno de Finetti, radical proabilist, ed. M.C. Galavotti, London 2009, pp. 115-27.
F. de Finetti, L’insegnamento della Matematica secondo de Finetti, «Periodico di matematiche», 2010, 2, 3, pp. 11-18.
A. Feduzi, J. Runde, C. Zappia, De Finetti on the insurance of risks and uncertainties, «The British journal for the philosophy of science», 2012, 63, 2, pp. 329-56.