PELAGGI, Bruno Alfonso
PELAGGI, Bruno Alfonso. – Nacque il 15 settembre 1837 nel comune calabrese di Serra San Bruno, nel rione Zaccanu, da Gabriele, di professione scalpellino, e da Giuseppina Drago.
Iscritto alla congrega religiosa del suo rione, fu istruito da don Francesco Cuteri con l’iniziale intenzione, successivamente abbandonata, di indirizzarlo al sacerdozio. Secondo la tradizione familiare (soprattutto paterna, essendo fra i suoi parenti un Biagio Pelaggi di professione falegname), si orientò presto all’attività artigianale. La scelta professionale fu favorita dal contesto in cui Pelaggi era nato che, se caratterizzato da un’ancestrale arretratezza economica, assisteva però al proliferare di piccole imprese, le cosiddette maestranze, che godevano di un certo prestigio anche al di fuori dei confini locali. Fu quindi affidato a uno dei molti maestri scalpellini serresi, che gli insegnò la lavorazione del granito, all’epoca praticata «con strumenti rudimentali e quasi sempre all’aria aperta» (Li stuori…, a cura di B. Peloia, 1982, p. 16).
Svolto il servizio militare all’età di diciassette anni nella fanteria borbonica, dopo essere rientrato nel suo paese natale, il 27 novembre 1867 sposò Clementina Arena, dalla quale nacquero le figlie Maria Stella, Serafina (poi emigrata negli Stati Uniti), Virginia e Maddalena (morta all’età di 24 anni).
La tradizione che lo riguarda parla di undici figli nati morti prima delle quattro bambine, e di un voto, compiuto all’età di trent’anni per avere un figlio, alla Madonna del Santuario di Monte Stella, presso Pazzano, da cui il nome della prima figlia e che si sarebbe tradotto nella composizione delle strofe di Alla Vergini Maria. Ma sull’attribuzione di questo testo c’è chi nutre qualche dubbio, dovuto alla presenza del topos tutto ottocentesco dell’armonia cosmica (Tommaseo, Pascoli) e a qualche vaga eco dantesca, la cui conoscenza da parte dell’autore non è accertabile (Poesie, a cura di G. Nisticò, 1978, pp. 176 s.).
Scarse le notizie che riguardano gli anni restanti della sua esistenza, che dovette trascorrere quasi interamente a Serra San Bruno, con brevi viaggi e permanenze nei dintorni per motivi di lavoro. Incerta anche la data d’inizio dell’attività poetica nel dialetto serrese, cui si dedicò senza possedere un ampio retroterra di conoscenze letterarie (nonostante potesse disporre della ricca biblioteca conservata nella Certosa), anche se con un discreto bagaglio di nozioni di metrica (Bosco, 1975, p. 154). È però certo che la sua scrittura andò intensificandosi nell’ultimo decennio del secolo.
Ideati durante le pause dal lavoro e dettati di sera alla figlia Maria Stella che, pur scandalizzandosi nell’ascoltare le espressioni più colorite, li trascriveva su un apposito quadernetto, li stuori (come Pelaggi definiva i suoi testi poetici) presero avvio all’insegna del bozzettismo (immancabile in molta produzione vernacolare ottocentesca), accompagnati da risvolti campanilistici che deridevano i vizi delle contrade e dei paesi limitrofi. Un caso di tale atteggiamento, che il poeta avrebbe ben presto abbandonato, è La ‘Pigghjata’ di Bregnaturi, con riferimento alla rappresentazione pasquale della Passione di Cristo (Pigghjata, appunto), che è però pretesto per una critica feroce agli abitanti ‘pecorai’ di Brognaturo. Analogamente la sua produzione non sfuggì all’onda d’urto del fatterello di cronaca locale, come nel ‘contrasto’ fra paesani Li scarpi d’Affruonzu (Le scarpe di Alfonso).
Proseguendo l’attività artigiana, realizzò diverse opere per privati. Conosciuto in paese come Mastru Brunu, ebbe certamente, come ogni mastro, allievi e ‘discipuli’ sotto di sé. A partire da un suo progetto del 1883 venne costruita la chiesa dell’Assunta in cielo di Spinetto, quartiere serrese. Intorno alla fine del secolo, assieme ad altri mastri e scalpellini, lavorò alla ricostruzione della Certosa, danneggiata dal terremoto del 1783.
Il disinteresse delle istituzioni per la piccola imprenditoria, penalizzata dalle condizioni economiche del Sud, rende ragione della lunga amicizia (almeno dal 1875) di Pelaggi con Bruno Chimirri, anche lui serrese e di cinque anni più giovane. Il più volte ministro e «brillante conferenziere» ebbe infatti a cuore i problemi del Mezzogiorno e si pronunciò su di essi all’interno di discorsi pubblici: a lui è dedicato un componimento di celebrazione (Don Bruninu Chimirri e li sirrisi), che lo definisce galantúomu per la magnanimità e per non essersi mai vendicato di nessuno. Noto anche l’appoggio al partito di Luigi Filippo Chimirri, fratello del ministro, contro quello di Chichiriddì, oggetto di un componimento ‘elettoralistico’, ulteriore testimonianza dell’interesse di Pelaggi per le questioni paesane.
Dato il forte senso di appartenenza alla comunità locale, la biografia di Pelaggi si interseca con i fatti che riguardano Serra San Bruno, che furono fonte di ispirazione per la stesura di testi poetici, spesso di denuncia.
Così la delibera con cui, nel 1893, il Comune stanziò 22.000 lire per la costruzione di impianti di illuminazione elettrica fu all’origine di O chi luci, o chi luci… (O che luce, o che luce!), risalente al 1893 o al 1894, che, pur riconoscendo l’importanza del progresso scientifico, non risparmiava critiche al Comune, reo di spendere soldi prima ancora di averli ricevuti, e all’inettitudine dei consiglieri comunali.
Come la coeva letteratura calabrese in dialetto (alcuni anni prima componeva l’abate antiborbonico Antonio Martino), anche la poesia di Pelaggi risentì degli accadimenti che riguardarono il Meridione. È infatti sulla consapevolezza del ritardo di questo rispetto al resto del Paese che Mastru Brunu scrisse alcuni fra i suoi componimenti più celebri, inseguendo un’idea di letteratura che, scevra da preoccupazioni estetiche e votata piuttosto all’impegno politico-sociale, lo rese una delle voci più significative della poesia in dialetto calabrese fra i due secoli. Forse nel 1899, un anno prima del regicidio di Monza, scrisse una simbolica Littera a ’Mbertu I Arré d’Italia (Lettera a Umberto I Re d’Italia). Lungi dai toni elevati della poesia risorgimentale dei decenni precedenti, qui l’impostazione si fonda su un generale abbassamento di tono, cui non contribuisce più, però, il binomio dialetto-bozzettismo, abusato in gran parte della produzione ottocentesca. Svincolato da oleografie paesane, il dialetto serrese, crudo e plebeo, ma arricchito di talune ricercatezze filologiche (Bosco, 1975, p. 154), si fa veicolo di apostrofe diretta e perentoria, con la quale si chiede a Umberto I di venire a vedere personalmente lo stato delle terre in Calabria e le condizioni di vita dei lavoratori.
Pur non poggiando su una piena coscienza storica, è però nella poesia di Pelaggi quello sdegno per l’ingiustizia insita nelle disuguaglianze sociali, vagamente intuita come riconducibile al processo di unificazione. Di tale prospettiva si ha testimonianza in Quand’era giuvinottu, in cui è dichiarato che le lotte carbonare non hanno apportato alcun cambiamento positivo alla vita dell’operaio meridionale; che, com’era stato con i Borboni, anche con i Savoia «se dijúna» (si digiuna); che in Calabria la luna «va sempi alla mancánza,/ e non c’è cchiú speranza / ca nd’irgímu» (va sempre calando e non c’è alcuna speranza di risollevarsi, Poesie, cit., 1978, p. 150). Tale posizione, di generale discredito nei confronti di ogni regnante (non solo ’Mbertu e Vittoriu), si fa palese nelle ottave di Tu, Signuri presa di coscienza della misera condizione del contadino destinato agli stenti fin dalla nascita.
Avvertita nel senso di un’oscillazione dalla critica storico-politica a quella più latamente antropologica, la questione meridionale trova sfogo nelle due lettere indirizzate al diavolo e al Padreterno e composte, rispettivamente, nello stesso periodo dell’apostrofe a Re Umberto I e nel 1900 o poco dopo (dato l’accenno al regicidio di Monza). Per nulla animati da fede in speranze ultraterrene, i due componimenti riportano ancora la sfiducia nella possibilità di miglioramento delle condizioni economiche, impersonando il malessere di un’intera area geografica alla quale, disperando delle istituzioni, non resta che affidarsi paradossalmente all’intervento di potenze sopraterrene.
Colto da paralisi nel 1909, probabilmente mentre soggiornava per lavoro a Santa Caterina dello Jonio, nei pressi di Catanzaro, sperimentò un ripiegamento intimista nella sua produzione poetica, riscontrabile nella lirica Alla luna, che affranca lo strumento dialettale anche dalla critica sociale, al fine di renderlo veicolo di lamentazione personale cosmica, probabilmente memore di un pessimismo di marca leopardiana.
In seguito all’aggravarsi delle condizioni di salute, Pelaggi morì a Serra San Bruno il 6 gennaio 1912.
Opere. Le poesie, mai pubblicate vivente l’autore, erano però note in Calabria per l’abitudine sua, e quindi delle figlie, di dare in prestito il quaderno su cui erano vergate. Per l’edizione critica delle liriche, corredate di traduzione in italiano a fronte, si rimanda a Mastro Bruno, Poesie, a cura di G. Nisticò, Chiaravalle Centrale 1978. Si vedano inoltre: Le poesie di Mastro Bruno, a cura di A. Pelaia (nipote del poeta), Catanzaro 1965; nonché, soprattutto, Li stuori. Le poesie, a cura di B. Pelaia, Serra San Bruno 1982.
Fonti e Bibl.: R. De Bella, La poesia dialettale in Calabria, Firenze 1959, pp. 66-68; S. Gambino, Mastru Brunu P., in Quaderni calabresi, IV (1968), 1, pp. 77-81; U. Bosco, Pagine calabresi, Reggio Calabria 1975, pp. 151-167; A. Piromalli, La letteratura calabrese, Napoli 1977, pp. 173-175; C. Chiodo, Storia e umanità: tendenza di alcuni poeti dialettali calabresi dell’Ottocento e del Novecento, in Annali della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Macerata, 1982, pp. 199-259; P. Tuscano, Calabria, Brescia 1986, pp. 168-178; M. Stirparo, Mastro B. P., in Calabria letteraria, 2003, n. 4-5-6, p. 97; S. Gambino, Calabria erotica, Ravagnese 2011, pp. 141-147.