Latini, Brunetto
Letterato e uomo politico fiorentino, protagonista di uno dei più interessanti episodi dell'Inferno (terzo girone del VII cerchio, ove sono puniti i violenti contro Dio, la natura e l'arte, If XV 22-124).
Figlio di Bonaccorso di Latino (originario de La Lastra, " imperiali auctoritate iudex et notarius "), " Burnetto " (questa la forma prevalente nei documenti e attestata dalle soscrizioni autografe) nacque probabilmente nel terzo decennio del sec. XIII. Dal padre (morto nel 1280: ne restano versi in onore di s. Bonaventura e lettere in ben clausolato latino) certo apprese gramatica e retorica, per poi essere avviato al notariato. Ebbe un fratello (Latino Bonaccorsi, in atti fra il 1278 e il 1295); ebbe moglie, avendone tre figlioli. Fu guelfo militante, notaro, ambasciatore, magistrato: e insieme retore e filosofo e institutore e divulgatore, nella Firenze duecentesca, della nuova cultura retorica (che intorno la metà del secolo veniva attingendo le antiche fonti, riducendo ad esempio in volgare - si rammenti fra Guidotto da Bologna - la Rhetorica ad Herennium) nonché di un rinnovato enciclopedismo (fondato su elementi culturali transalpini) e di un umanesimo tutto ‛ civile ', che muove non solo da Aristotele ma da un preciso filone di pensiero stoico divulgato attraverso il Moralium dogma philosophorum e testi similari.
Questa funzione idealmente superiore (di divulgatore e moderatore) di Brunetto è benissimo caratterizzata, in un passo notissimo della sua Cronica (VIII 10), da Giovanni Villani: il quale, dopo averlo definito " gran filosofo... sommo maestro in rettorica, tanto in bene saper dire come in bene dittare... dittatore del nostro Comune ", lo elogia quale " cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini e fargli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica ". E in effetti, la figura di Brunetto uomo politico e retore fu una delle più rappresentative della Firenze di quegli anni e di quel secolo. Notaio fin dal 1254; estensore (secondo il Davidsohn e il Maggini, La " Rettorica " italiana di B.L., p. 61) nell'ottobre 1258 dell'elegante e insieme pungente replica al comune di Pavia, che iratamente protestava per l'esecuzione capitale del filo-ghibellino abate di Vallombrosa Tesauro Beccaria (cfr. If XXXII 119-120); " Antianorum scriba " nell'ottobre 1259; l'anno seguente " sindaco " (cioè consulente) del comune di Montevarchi, poi, nell'estate, ambasciatore di quello fiorentino presso Alfonso X di Castiglia (el Sabio) a chiedergli aiuti contro Manfredi, fu sorpreso, durante tale viaggio, dalla rotta di Montaperti (4 settembre 1260) e si fermò in Francia. Ivi raggiunto da una commossa e risentita epistola paterna (densa d'informazioni, presagi, preoccupazioni) che lo ragguagliava sul rivolgimento avvenuto in città, Brunetto restò oltralpe, attendendo, per vivere, alla sua professione di notaio, particolarmente dei Fiorentini fuorusciti e mercanti (esistono atti da lui rogati alla fiera mercantile di Arras il 15 settembre 1263, a Parigi il 26 successivo, a Bar-sur-Aube il 14 aprile 1264). E in Francia Brunetto fruì della protezione di un ricco e potente personaggio (da alcuni identificato con Luigi IX o con Carlo d'Angiò) il quale poteva esser definito dal nostro, nelle dediche delle opere composte in quegli anni, " uno suo amico della sua cittade e della sua parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande senno " (Rettorica I 10), " fino amico caro " (Tesoretto 2427), " biaus dous amis " (Tresor I I 4 31; e cfr. III LXXIII 1 4): dunque non certo di real lignaggio, e sicuramente, come appare dalla Rettorica, guelfo fiorentino (per il Carmody, Davizzo della Tosa; e cfr. F. Maggini, La " Rettorica " italiana, p. 21; A. Pézard, D. sous la pluie de feu, p. 128 e n. 4).
Dall'esilio francese il L. tornò in patria soltanto dopo la battaglia di Benevento (28 febbraio 1266) che sollevò di rimbalzo le sorti dei guelfi; il 16 marzo di quell'anno era già in Firenze, ricevendo subito incarichi importanti: nel 1267 era notaro ‛ ufficiale ' , cioè in pratica il ‛ dettatore ' del comune; nel 1269 rogava atti come protonotaro del vicario generale di re Carlo in Toscana; tra il 1272 e il 1274 seguita ad apparire in atti quale " scriba Consiliorum et cancellariae communis Florentiae ", cioè a dire come cancelliere. Ma dopo il 1274 la carriera politica del L. assume ancor maggiore importanza; lo vediamo infatti nel 1275 console dell'arte dei Giudici e dei Notai; nel 1280 mallevadore, accanto a Guido Cavalcanti e ad altri, nella pace del cardinal Latino; nel 1284, con Manetto Benincasa, negoziatore della pace con Pisa e Lucca. Infine, nel 1287, viene nominato priore (per il sesto di Porta a Duomo) dal 15 agosto al 14 ottobre: chiuso per quei mesi nella torre della Castagna, di fronte alla casa del ventiduenne Alighieri, fra quelle stesse mura che tredici anni dopo, in un momento ben più burrascoso della vita politica fiorentina, accoglieranno anche Dante. Morì nel 1294, e fu sepolto in Santa Maria Maggiore, ove resta tuttora traccia (una colonna) del suo monumento funebre.
Questi gli accadimenti biografico-storici più importanti; ma, come sottolinea giustamente il Carmody riprendendo spunti dal Davidsohn e dal Sundby, il peso assunto da B. nella vita cittadina di quegli anni appare ancor più notevole se si guardan da vicino le Consulte e le Provvisioni: in quegli atti il L. (come accadrà per l'Alighieri) appare spesso in veste di moderatore e ispiratore delle varie decisioni: si tratta di una trentacinquina di provvedimenti (ben analizzati a suo tempo da I. del Lungo in appendice all'edizione italiana del volume del Sundby) che vanno dal 1282 al 1292. Non vi fu in quel decennio una deliberazione, politica o amministrativa, in cui Brunetto insomma non compaia, non dica la sua, non venga ascoltato. E sono gli anni in cui D., per conto proprio, si veniva affacciando alla vita sociale (se non ancora politica) della città: nel 1283 egli già compare in un documento come sui iuris, in quanto erede di Alighiero. Ed è proprio da queste considerazioni che deve muovere un'analisi che miri a definire i rapporti intercorsi tra il più anziano Latini e D.; rapporti che, desumibili solo attraverso testimonianze o espliciti giudizi letterari di D. stesso, suscitano alcuni problemi d'interpretazione puntuale di brani delle opere minori per poi coinvolgere (dopo gli approcci periferici) il momento centrale e paradigmatico - su cui ovviamente si polarizza l'attenzione dei critici - rappresentato dall'incontro tra il vecchio ‛ maestro ' e l'antico discepolo nella landa infuocata del terzo girone del settimo cerchio.
Il primo, dantesco accenno a Brunetto appare, sotto forma di esplicito quanto rapido giudizio, in VE I XIII 1: laddove D., giunto a verificare la distanza del volgar toscano dall'ideale e pratica norma linguistica e di arte del volgare ‛ illustre ', blocca in un negativo giudicare i poeti toscani delle precedenti generazioni, i quali non seppero elevarsi al di sopra del volgar municipale: Post haec veniamus ad Tuscos, qui, propter amentiam suam infroniti, titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur. Et in hoc non solum plebe[i]a dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus; puta Guictonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum, quorum dicta si rimari vacaverit, non curialia, sed municipalia tantum invenientur. Qui D., nell'accingersi a ipostatizzare il proprio ideale di bello stilo (inverato nelle sue stesse grandi canzoni di materia alta e composte in alto, tragico stile riservato al volgare ‛ illustre '), come sul piano diacronico muove dalla lingua dell'alta lirica siciliana (a essa raffrontando i volgari municipali d'Italia) così, proprio mentre percepisce un'ideale continuità stilistica e di arte tra quei poeti (siciliani, bolognesi e stilnovisti) che seppero attingere il grado supremo (dal Guinizzelli al Cavalcanti a Lapo Gianni, a Cino da Pistoia e all'amico suo) respinge decisamente le esperienze formali degli autori menzionati, assunti a paradigma di ‛ municipalità ' non tanto pei contenuti (si pensi ad esempio al Guittone impegnatamente ‛ morale ') quanto per le accusate, pesanti connotazioni dialettali della loro lingua poetica e per la greve corposità delle imagini e dello stile, spesso oscuro e retoricamente sovraccarico: lontano, insomma, dal misurato e pur sostenuto (e insieme aristocratico) equilibrio del nuovo e dolce poetare.
Per ciò che più da vicino riguarda Brunetto, è chiaro che il giudicare dantesco porta, in questo caso, sui componimenti poetici in volgare: cioè a dire, se non proprio sulla ‛ canzonetta ' S'eo son distretto inamoratamente trasmessaci dal canzoniere Vaticano 3793 (per dirla con il Contini, " componimento di tono arcaico, che... s'iscrive modestamente sotto il nobile segno di Guido delle Colonne e Stefano Protonotaro "), certo sul Tesoretto e sul Favolello.
Composto sicuramente in Francia il primo, in lingua italiana e in settenari a rima baciata, interrotto al verso 2944: concepito, nell'intenzione dell'autore, con ambizioso disegno, come un prosimetrum sulle orme di Boezio e di Alano da Lilla (cfr. i vv. 109-111, 422-423, 1120-1121, 2900): volto a esporre (sotto forma di allegorica visione e nell'ambito tutto goticizzante e di ascendenza francese delle figurazioni e personificazioni: la Natura, le Virtù cardinali e quelle da loro derivate, il Dio di Amore) nozioni enciclopediche di filosofia naturale e di cosmologia, indi un trattato sulle virtù e i vizi, infine (ma l'opera, si è detto, rimane in tronco) un'illustrazione delle sette Arti liberali. Il Tesoretto documenta insomma l'incontro di Brunetto con la cultura enciclopedica di oltralpe e con il Roman de la Rose (per allora nella sua prima parte); mentre un vero e proprio trattatello De Amicitia è il Favolello (dedicato a Rustico di Filippo), sempre in settenari a rima baciata: ‛ summula ' di precetti secondo una problematica che, se muoveva ben di lungi (dal Laelius ciceroniano), aveva trovato ampia divulgazione entro la trattatistica medievale, da Aelredo a s. Bernardo ad Andrea Cappellano.
Meno esplicito (rispetto al De vulg. Eloq.) ma altrettanto sintomatico nell'impostazione e nelle conclusioni il passo cronologicamente parallelo del Convivio (I XI), là dove D. difende strenuamente il parlare italico a perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano. Se in tal capitolo Brunetto non è direttamente nominato, e anzi unicamente si accenna (XI 14) a coloro che... fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza (l'indicazione non varrà anche per l'oitanico?), sta pure il fatto che l'opera maggiore del L., il Tresor, fu composta in lingua francese: sia perché l'autore si trovava allora in quella terra, sia perché (come dice un'esplicita, iniziale avvertenza, nell'ambito di un ‛ topos ' del rimanente vulgato: si rammenti l'esordio della Cronique des Veniciens di Martino da Canale) " la parleure est plus delitable et plus commune a tous gens ". Qui non si tratta più ovviamente di ‛ municipalità ', sibbene di riprovare opzioni linguistiche al di fuori del sistema: l'unico possibile collegamento al trattato latino è nella clausola del capitolo (XI 21), dove l'accusa di minor pregio del volgare di sì vien ritorta proprio nei confronti di chi gli preferisce altri volgari romanzi: E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s'è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri. Come si vede, il metro di valutazione, nell'un caso e nell'altro, è per D. strettamente retorico-letterario: anche se nel Convivio (come prova l'acceso, risentito aggettivare, ben rispondente del resto alla non meno accesa e impegnata professione di fede nella bontà naturale del volgare italico) il giudizio porta inoltre sulla prassi, investendo direttamente il comportamento, le scelte concrete di un gruppo (sia pur esiguo) di scrittori: dal quale non è possibile isolare il Latini. Ma anche in questo caso, la condanna manifestamente non tocca i contenuti del Tresor: vasta e bene organizzata enciclopedia in tre libri, iniziata parallelamente (o di poco successivamente) al Tesoretto al modo dei grandi Specula transalpini, e compiuta in esilio (alcuni capitoli furono aggiunti dopo il ritorno a Firenze). Il primo libro fornisce nozioni di filosofia teorica, teologia, storia universale, fisica, geografia, agricoltura, storia naturale (fonti principali la Bibbia, Isidoro di Siviglia, Paolo Orosio, Pietro Comestore, Onorio d'Autun, il Libro di Sydrac, l'Image du monde di Gossouin, Solino, Palladio, il Physiologus). Oggetto del secondo libro la filosofia della pratica: non solo l'etica (quella Ad Nicomachum vi è esposta e volgarizzata di sul cosiddetto Compendium Alexandrinum di Ermanno il Tedesco) ma anche l'economica (fonti principali per le due parti il Moralium dogma phylosophorum di Guglielmo di Conches, il De Quattuor virtutibus di Martino di Braga, l'Ars loquendi et tacendi di Albertano da Brescia, le Sententiae isidoriane, la Summa aurea de virtutibus di Guglielmo Peraldo). Il terzo libro è invece dedicato, in due sezioni, alla retorica e alla politica: per Brunetto non mai separabile la prima (anzi sua condizione) dalla seconda, se per una tutta medievale connessione pseudo-etimologica essa è appunto considerata l'arte dei ‛ rettori '. Fonti di questa parte dell'opera, il De Inventione ciceroniano, il De Rhetoricae cognitione di Boezio, Li Fet des Romains, l'Oculus pastoralis, il De Regimine civitatum di Giovanni da Viterbo, documenti ufficiali (podestarili) del comune di Siena. Dimodoché, per la sua stessa struttura, per la scelta e l'organizzazione della materia, per il suo carattere compilatorio " de tous les membres de philosophie ", ma anche e soprattutto per la patente gerarchizzazione e finalizzazione dei vari rami dello scibile verso l'ultimo libro, il Tresor appare chiaramente diretto a impartire istituzioni agli uomini ‛ politici ': e, si badi, non certo a quelli francesi, sibbene agl'italiani, posto che, nella teoria e nell'esemplificazione, Brunetto ragiona in termini cittadineschi, di stretta democrazia comunale, " selonc ce que requiert l'usage de son païs... Et sor ceste maniere parole li mestres, car l'autre [cioè a dire la struttura politica del reame di Francia] n'apertient pas a lui ne a son ami ".
Sempre al periodo francese (e cronologicamente precedente il Tresor, dove la materia è più compiutamente svolta) risale la Rettorica: volgarizzamento dei primi 17 capitoli del De Inventione, corredato da ampio commento (che attinge ad altre opere retoriche di Cicerone e a Vittorino), ove le doti di Brunetto non soltanto retore ma anche pensatore sollecito del bene comune, civicamente impegnato, appaiono manifeste, sì che dalla parafrasi estensiva della glossa scaturisce anche un concreto insegnamento civile. Meno sicura, invece, la cronologia (non l'attribuzione) di altri e capitali volgarizzamenti da Cicerone oratore (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiotaro), comunque posteriori alla Rettorica, tesi a presentare in veste italiana (come osservò il Maggini) insigni esempi di una splendida arte oratoria, sottolineando così l'aspetto di Cicerone " prosatore copioso ed ornato ", non più soltanto filosofo e retore, grandemente contribuendo in tal modo a porre i fondamenti di una prosa d'arte in volgare che sapesse e volesse trascendere le originarie esperienze retorico-giuridiche dei primi dettatori. A quelle esperienze (qualora si accolga l'ipotesi del Davidsohn e della Wieruszowski) si era più direttamente accostato il L., nel dettare una Sommetta " ad amaestramento di ben saper componere volgarmente lettere ", accompagnata (in un manoscritto Strozziano) da nozioni astronomiche e astrologiche.
Da quanto abbiamo man mano esposto, apparirà chiaro che nei confronti delle opere più specificatamente ‛ retoriche ' del L. (come - già dicemmo - circa i contenuti delle altre, in particolare del maggiore Tresor) D. non muove alcuna riserva, a stare all'argomento e silentio. Un silenzio che d'altronde appare significativo, se si rammenti che il metro di valutazione adottato per le precedenti condanne era tutto retorico-letterario (e anzi addirittura stilistico-linguistico).
Questo tipo di problematica appare del tutto assente anche nel canto XV dell'Inferno: ove chiare ragioni di struttura e di topografia della cantica avviano il lettore a un giudizio teologico-morale (Brunetto è fra i cosiddetti ‛ violenti contro natura ', cioè fra i sodomiti) mentre l'atmosfera dell'episodio è ben diversa da quella che, al lume delle precedenti postille, potremmo attenderci: altra insomma da quella che, nell'Inferno, accompagna più risentiti incontri e scontri del poeta. Ché anzi, l'iniziale, reciproco moto di meraviglia di Brunetto e di D. (cfr. If XV 22-24 gridò: " Qual meraviglia! "; v. 30 rispuosi: " Siete voi qui, ser Brunetto? "); l'affettuoso, mutuo aggettivare del dialogo (O figliuol mio, v. 31; O figliuol, v. 37; cara e buona imagine paterna, v. 83), ben sostenuto, nell'eloquio dantesco, da reverenza manifesta e da affettuoso rimpianto (I' dissi lui: " Quanto posso, ven preco; / e se volete che con voi m'asseggia, / faròl, se piace a costui che vo seco ", vv. 34-36; Io non osava scender de la strada / per andar par di lui; ma 'l capo chino / tenea com'uom che reverente vada, vv. 43-45; " Se fosse tutto pieno il mio dimando " , / rispuos'io lui, " voi non sareste ancora / de l'umana natura posto in bando; / ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, / la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m'insegnavate come l'uom s'etterna: / e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo / convien che ne la mia lingua si scerna... ", vv. 79-87), nonché il livello ben alto dei contenuti, fondamentali a disegnare la biografia di D. personaggio-poeta, e ricchi di agganci coi precedenti e coi successivi sviluppi di tutta la vicenda (si vedano i versi 46-93, i quali, dopo l'avvio di If VI 60-75, con la condanna delle lotte intestine e delle Parti, con la virile dantesca accettazione di un amaro avvenire, preparano, anticipandola nettamente, la tematica dell'incontro con Cacciaguida, pur se a mente di If XV 89-90 D. pensava allora ad altro incontro paradisiaco); ma soprattutto il pathos attraverso il quale essi contenuti si esprimono, segnalano francamente al lettore, fin dalle prime battute, l'instaurarsi di un'altra dimensione.
L'episodio del canto XV dell'Inferno propone e descrive, insomma, un affettuoso rapporto d'ideale sudditanza, da discepolo a maestro: e il L. assume indubbiamente, nell'economia della prima cantica e di tutta l'opera, un'importanza e un peso ben diversi da quanto gli sbrigativi, taglienti giudizi del Convivio e del De vulg. Eloq. potevano far presumere: pari soltanto al rilievo dato, nel paradisiaco cielo di Marte, alla figura di Cacciaguida.
Di qui, e dall'oggettivo ‛ mistero ' (così definiremo il silenzio dei documenti) che circonda, sul piano cronachistico, la nozione di un Brunetto ‛ sodomita ' (per di più si badi che nel Tesoretto, ai vv. 2839-52, egli parla contro la lussuria, mentre ai vv. 2859-64 apertamente biasima la sodomia, condannata anche nel Tresor II XXXIII; XL 4), di qui dunque gli aperti interrogativi dei critici, e i dubbi interpretativi che rendono il XV dell'Inferno, pur nella sua patetica trasparenza, un canto decisamente ‛ problematico '. E i problemi su cui la critica si è fermata sono fondamentalmente due. Il primo è quello relativo alla definizione della colpa, del peccato di Brunetto, e potrebbe paradigmaticamente esprimersi nella formula: perché (o per cosa) D. lo condanna?; l'altro riguarda invece una più precisa definizione dei rapporti tra il vecchio dettatore e il giovane poeta, e concerne dunque il genuino carattere dell'insegnamento impartito (si rammenti I f XV 84-85) da Brunetto all'Alighieri.
Circa il primo punto, la storia delle varie posizioni interpretative (dai più antichi commentatori ai critici moderni) è contenuta nel volume già citato di A. Pézard; basti pertanto schematizzare, insistendo sui lemmi più recenti. La maggior parte degli esegeti antichi e moderni ha registrato senza troppe perplessità la collocazione di Brunetto fra i sodomiti, con qualche generica riserva (il Filomusi Guelfi ad esempio puntava sul peccato di onanismo) o con la precisazione (si vedano Pietro e il Boccaccio) che la sodomia era un peccato in certo qual modo ‛ professionale ', dei cherci, dei letterati. Fra coloro che hanno accolto come trasparente l'indicazione del poeta, alcuni (lo Scherillo, il D'Ovidio, il Vandelli) tennero a sottolineare l'esempio di austera nobiltà morale offerto da D.: che nel suo farsi araldo della divina giustizia non esitò a porre tra i dannati l'antico maestro. Rimproverarono invece aspramente l'Alighieri per l'irriverente indiscrezione il Tasso, il Bulgarini, il Corniani, il Rossetti, il Balbo, Thor Sundby; il Corniani e il Rossetti (con G.M. Mazzucchelli, D. Strocchi, E. Littré) ritenendo che alla base della condanna fosse una polemica politica antiguelfa da parte del ‛ ghibellino ' Alighieri: proposta manifestamente irrecevibile. Un altro gruppo comprende poi coloro che propongono ipotesi disparate e in qualche caso temerarie: la dantesca condanna sarebbe dovuta al Pataffio (Perticari: ma l'attribuzione di quell'opera a Brunetto è pura fantasia) o all'invidiosa superbia del L. (A. Dobelli, P. Fornari) o alla sua irreligiosità (P. Merlo, A. Padula).
Una profonda innovazione sul piano esegetico è quella dovuta alle acute e ingegnose pagine di A. Pézard, che al peccato e alla pena di Brunetto ha dedicato la parte maggiore del suo impegnato volume Dante sous la pluie de feu. Egli ritiene che D. abbia dannato Brunetto non per il peccato di sodomia, ma per altro (e più grave) peccato, contro lo Spirito Santo (dunque per bestemmia): in quanto, magnificando una lingua straniera a scapito della materna, avrebbe violato la sacralità del linguaggio umano in generale, più volte ribadita dall'Alighieri nelle sue opere. Non dunque per aver scritto il Tresor in francese (fatto che, a stregua di Cv I XI 15, non è certo passibile di biasimo), ma per aver depresso la propria lingua naturale Brunetto è ‛ bestemmiatore ': violento insomma contro Dio, non contro la natura; e l'episodio del canto XV si verrebbe così più direttamente a riannodare (per una sorta di " parenté morale ", oltre che per la contiguità materiale) con quello di Capaneo, poi convogliando in una medesima specie di peccato ‛ professionale ' anche Prisciano e Andrea dei Mozzi.
La tesi dell'illustre dantista francese non ha, per dire il vero, trovato favore presso i critici, né questo è il luogo per ridiscuterla partitamente. L'ha ripresa (anche se con altra angolatura) R. Kay, il quale ritiene che Brunetto sia stato collocato da D. fra i peccatori contro natura, ma non in quanto sodomita, sibbene perché avrebbe sovvertito l'ordine naturale ponendo la filosofia a servizio, anziché dell'Impero, delle innaturali, insubordinate e autonome strutture comunali. Ipotesi che, se muove da alcune proposizioni della Monarchia circa il duplice ordine della natura e della grazia e circa il compito istituzionale dell'imperatore qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret (III XV 10), ne irrigidisce e insieme troppo ne estende la portata, svilendo nel contempo la nozione, pur da D. chiaramente espressa, della naturale socialità dell'uomo, spontaneamente cive, e del suo libero, naturale e differenziato organizzarsi (dalla domus al vicus alla civitas ai regna particolari) in autonome comunità. D'altronde se l'attuazione dell'intelletto possibile (fine proprio all'uman genere) necessita la presenza di un monarca che garantisca la pace universale, ciò non sottrae certo ai singoli la libertà di contribuire al fine comune mediante l'esplicazione di doti particolari nelle rispettive e più varie condizioni di esistenza (si rammenti anche Cv IV IX 8-9, ove la funzione dell'imperatore è conchiusa nel formulare, promulgare e comandare la ragione scritta, la legge positiva, e più oltre no), dunque operando se del caso anche in termini di un tutto cittadinesco, civile umanesimo, senza per questo violare l'ordine della natura. E anzi, la funzione di Brunetto ‛ digrossatore ' dei Fiorentini non pur sul piano retorico, fu proprio quella (condivisa con Bono Giamboni e Zucchero Bencivenni) di esporre un tipico " materiale didattico guardando a un pubblico di commercianti e banchieri e piccoli imprenditori, abbozzando una dottrina morale che favorisse, invece di ostacolarla, l'attività civile " (C. Segre, in B. Giamboni, Il libro de' vizî e delle virtudi, Torino 1968, p. XXVII). Se poi si rammenti con l'Alighieri (cfr. Cv IV III 6) che dalla morte di Federico II (1250) a dopo il 1308 l'Impero era considerato vacante, come avrebbe potuto D. dannare Brunetto per non aver saputo anticipare negli ultimi 45 anni di sua vita, o nel periodo in cui componeva il Tresor (dove dell'Impero e di alcuni imperatori, pur giudicandone gli atti, si parla con grande rispetto, anche in rapporto all'idea di romanità che, sul piano storico, Brunetto ebbe chiarissima) una problematica che solo mezzo secolo dopo (e in forza di precisi, ben noti accadimenti storici) diverrà leit-motif del pensiero politico di Dante?
Meglio tornare, senza sbandamenti speciosi, alle linee maestre dell'interpretazione tradizionale del canto (e della soluzione del problema), fissate magistralmente a suo tempo da E.G. Parodi: per il quale, se D. volle punito in Brunetto il peccato di sodomia, " nel tempo stesso volle, colla tenerezza del suo affetto e lo splendore della poesia, premiare ed esaltare l'utile cittadino e il dotto operoso e l'efficace banditore delle nuove parole di saggezza e di scienza, attinte alla saggezza e alla scienza antica " (Poesia e Storia, p. 268). Il Parodi sottolineava nel contempo le ragioni tutte artistiche della condanna, pur nel mirabile fondersi in D. di arte e vita morale. Egli aveva bisogno che, al centro dell'Inferno, la propria degnità di uomo e di poeta fosse proclamata dal più illustre e ‛ autorizzato ' (sul piano politico e letterario) dei Fiorentini: come al centro del Paradiso, " per bocca del grande capostipite della sua schiatta ", si farà poi esaltare non solo " come buono e giusto e utile cittadino, ma come insigne per nobiltà... e privilegiato... per grazie speciali e speciali ispirazioni del Cielo " (p. 303). Questi termini di lettura del Parodi hanno improntato di sé, pur con sfumature diverse, la più avvertita critica successiva; che ha talora posto l'accento (F. Montanari) sul " contrasto, sopra tutto, tra lo splendore delle virtù naturali e della naturale sapienza dell'uomo, in confronto con la fragilità umana quando essa non sia confortata dalla Grazia ", sicché Brunetto è proposto come " testimone di come neppure la più fulgida gloria umana è sufficiente alla salvezza pur restando fulgida gloria " (p. 473), oppure (F. Salsano) ha sottolineato " il dramma della nobiltà umana che si perde, il destino dei valori positivi realizzati da quella, validi nella storia dei vivi, ma insufficienti nella scelta definitiva tra il male e il bene e del conseguente giudizio eterno " (p. 24). Da questo punto di vista, e sia pure con le debite differenziazioni di ordine storico ed etico-politico, il ‛ caso ' di Brunetto è analogo a quello di altri grandi spiriti, di altre anime di fama note, che pagano sì la loro colpa (e in ciò, come nella loro notorietà, consiste l'exemplum) ma a cui va la simpatia umana, quando non la pietà, del poeta: si rammentino Francesca, Ciacco, Farinata, Pier della Vigna, i tre Fiorentini, Ulisse, Ugolino. Altro, invece, il tono e il risultato di un saggio di M. Pastore Stocchi, che grava la figura di Brunetto di connotazioni che non sembra si attaglino alla fisionomia (e alla psicologia) del personaggio e alle intenzioni del poeta: " Quel volto paterno e venerato era stato dunque il volto di chi turpemente infrangeva ogni legge divina e umana [nostro il corsivo: e si badi all'ogni]... quelle stimmate atroci sono impresse sul volto di chi la paternità ha di fatto negato e avvilito in sé stesso " (p. 237): ritratto grandguignolesco (che il critico sente oltretutto permeato, anche nella chiusa del canto, di una " vena comica e beffarda che s'è vista insinuarsi alle prime battute dell'incontro "), e che va indubbiamente oltre al pathos e al motivo poetico generatore dell'episodio. Stimolanti, di quel saggio, le pagine che ricordano come la sodomia possa esser stata da D. biblicamente intesa come un peccato ‛ civico ', per il suo minare alle basi un ordinato incremento demografico: pur se tale osservazione non dovrà essere applicata troppo rigidamente alla situazione e alla psicologia obiettiva dei personaggi (come invece accade all'autore; si veda p. 241) posto che, dal punto di vista meramente statistico, Brunetto fu ad esempio certamente prolifico, mentre la prolificità non rientrava certo nei compiti istituzionali e tra le civiche virtù del vescovo Andrea dei Mozzi... Non per questo si deve suggerire che, eo ipso, la prolificità sani il vizio sodomitico; ma neppure si deve instaurare, quanto al XV dell'Inferno, una prospettiva di critica lettura più intonata (absit iniuria verbis) alla ‛ humanae vitae ' che al pensiero dantesco. Troppo rigida, almeno nei termini proposti, anche l'affermazione che " il problema del rapporto personale Dante-Brunetto e quello del rapporto civile Dante-Firenze procedono da un unico nucleo dottrinale o se si preferisce da un'unica intuizione poetica ", sicché " la soluzione dell'uno comporta... la soluzione dell'altro: e con il rifiuto sdegnoso di ogni commercio con le bestie fiesolane si compie anche il distacco definitivo da ser Brunetto " (p. 248): quasi D. non avesse affidato proprio al L., dall'alto della sua autorità morale di civico ‛ digrossatore ' e apprezzato uomo politico, la drastica, analitica condanna di Firenze e dei Fiorentini, nonché la profezia dei dolori, ma anche la vaticinante affermazione della sicura grandezza morale e artistica del discepolo! Anche in questo caso, pur apprezzando l'ingegnosa novità delle proposte, converrà gettare un po' di acqua sul fuoco.
Anche il secondo problema, quello dell'effettiva qualità del magistero di Brunetto, ha trovato nel tempo varie soluzioni. Le postille avanzate in sede di biografia materiale obbligano in ogni caso a non far di lui un " plagosus Orbilius " del secolo XIII, sul tipo di quel " Romanus doctor puerorum " o di altri maestri ‛ elementari ' studiati a suo tempo da S. Debenedetti. Le cariche pubbliche sempre più importanti, e l'affermazione stessa del poeta di un insegnamento ricevuto ad ora ad ora, cioè saltuario ed episodico, vietano d'istituire per D. una discepolanza materiale, non solo a livello della ‛ gramatica ' ma anche della ‛ retorica '. Maestro a un'intiera città (si ricordi il passo del Villani), non a una scuola di ragazzi: con la sua cultura enciclopedica di ascendenza francese, con la sua opera di retore che sa dar forma polita al pensiero mentre (son parole di G. Contini) vien trasportando " naturalmente al volgare le norme della cultura latina ", fondando con la sua Rettorica le basi della prosa d'arte in Firenze, volgarizzando Cicerone, e insieme svelando ai giovani fiorentini i segreti dell'Ars dictandi: colorita in Brunetto anche dalle personali esperienze transalpine, e che D. epistolografo saprà applicare poi sempre in maniera impeccabile. Ma non scordiamo neppure (già ben vide il Villani) l'insegnamento tutto ‛ civile ' di Brunetto, i suoi ‛ documenti ' (valga l'accezione etimologica) politici e sociali, fondati sul volgarizzamento del pensiero aristotelico, in particolare dell'Etica (si rammenti il libro II del Tresor) e sulla diffusione di alcune venature di pensiero più propriamente stoico, come ha mostrato H. Baron. È dunque un ampio ventaglio di possibilità, per chi voglia definire l'essenza dell'insegnamento ideale e pratico insieme, svolto da Brunetto nei confronti dei giovani fiorentini: di retorica, di etica, di politica: lezione amplissima, insomma, e di un ben alto e civile umanesimo. Da questo punto di vista molto opportunamente il Parodi, nel già citato saggio, così concludeva attorno le ragioni della riverenza e della simpatia dell'Alighieri verso l'ideale maestro: " il giovane poeta... aveva senza dubbio partecipato alla rispettosa ammirazione de' suoi concittadini per il dotto studioso, per l'ornato dicitore, per il saggio teorico dell'arte politica; ed essendosi stretto in reverente amicizia con lui, molto ne aveva appreso, e forse aveva appreso soprattutto ad amare il sapere, presentendone l'austera dolcezza, e a non disgiungere mai l'attività intellettuale da precisi e austeri intendimenti di utilità morale e civile ". Questo, per il Parodi, l'insegnamento e l'influsso di Brunetto su D.; con altre parole del critico (a glossa del v. 85), " come l'uomo si faccia immortale colla sapienza e colla virtù ". Al Parodi si è accostato nel suo commento N. Sapegno, il quale cita dal Tesoro volgarizzato un passo ove il L. allude alla gloria che il prode uomo si procura con le buone opere, conquistandosi insomma una seconda vita: " Gloria dona al prode uomo una seconda vita, ciò è a dire che, dopo la sua morte, la nominanza che rimane di sue buone opere mostra ch'egli sia ancora in vita ". Parrebbe dunque che, per Brunetto, le " buone opere " fossero ‛ opere di bene ', e che quindi il suo insegnamento fosse, almeno verso D., soprattutto morale; non politico né tanto meno retorico. In effetti, all'inizio del capitolo De gloire (II CXX 1) si può anche leggere: " Gloire est la bone renomee, ki cort par maintes terres, d'aucun home, de grant afere, ou de savoir bien son art ". Come si vede, fra le supposte ‛ opere di bene ', intese quale mezzo per eternarsi, vi è anche quella " de savoir bien son art ": il che dovrebbe consigliare a non intendere in senso unicamente morale la precettistica brunettiana, ma semmai di allargarne (con il Parodi) i termini alla politica e alla retorica. E ciò hanno fatto ad esempio il Montanari e il Salsano: il primo insistendo soprattutto sull'eternarsi dell'uomo " mediante il glorioso esercizio della poesia ", il secondo volutamente puntando su di una esegesi più generica. Quanto al Pastore Stocchi (p. 237 n. 18), ritiene che il problema storico dell'insegnamento di Brunetto sia del tutto irrilevante " per una esatta comprensione del canto XV "; ma, come vedremo, le cose stanno in ben altro modo. Un maestro come Umberto Bosco ebbe invece recentemente a restringere il campo, escludendo qualunque influsso del L. su D. che non fosse strettamente morale (muovendo ovviamente dal giudizio espresso nel De vulg. Eloq., che coinvolge, accanto a Brunetto, Guittone e gli altri toscani pre-stilnovisti). Ma le teoriche espresse nel De vulg. Eloq. e i giudizi che ne conseguono, sono un preciso e ben isolato momento entro l'esperienza poetica di D., in rapporto alla conquista di un ideale d'arte e di stile illustre poi superato e trasceso nella Commedia (ove D. usa addirittura vocaboli riprovati nel trattato latino); poi l'accoppiamento con Guittone, bistrattato ma prima e dopo imitato e usufruito, mostra che un giudizio negativo sul piano letterario può significare più un superamento che un'aprioristica esclusione. Del rimanente, proprio mentre giudicava il L., D. a ben guardare si accingeva a imitare, e vorrei dire emulare, la tipologia globale e le linee maestre della sua operosità: nel libro II del Tresor è la condizione prima dell'esperimento del Convivio, aristotelicamente concepito come un'enciclopedia filosofica volta a dichiarare le virtù morali e intellettuali e a segnare le linee tutte umane di un cammino verso la felicità di questa vita; mentre lo stesso De vulg. Eloq., pur tenendo presente che vuol essere un'arte poetica diretta a precise conquiste di stile, può esser messo in rapporto sia con la Rettorica, sia con l'ultima parte del Tresor: non per nulla l'anonimo quanto acuto lettore del codice berlinese poté benissimo inquadrare l'operetta sotto la ben nota epigrafe " Incipit Rectorica Dantis ". Sicché entrambi i trattati, composti quando D. era entrato nella sua piena maturità di artista e di pensatore, portano, nella tematica e più genericamente nelle intenzioni, un'impronta che non esiterei a definire brunettiana: anche se in effetti si tratterà di un intenzionale superamento, attuato con ben altra forza e ben altra grandezza, dell'esempio dell'antico maestro (si rammenti poi che il Convivio completa nell'esecuzione un disegno brunettiano, quello del " prosimetrum " annunziato nel Tesoretto e mai attuato).
A questi elementi macroscopici si aggiunge un dato non meno significante: l'indubbia consonanza tra alcuni punti della biografia del L. e quella di D. (mi riferisco ovviamente all'esilio) che rende ancor più intenzionale l'emulazione dell'Alighieri verso il suo paradigma: se con il Convivio e il De vulg. Eloq., per sua stessa ammissione, egli voleva presentare ai Fiorentini di dentro una diversa, rinnovata e più matura imagine di sé, che gli consentisse di tornare nella patria sospirata e rimpianta, non più come uomo di parte, ma come filosofo, poeta, rettorico perfetto, novello ‛ digrossatone ', insomma, dei suoi concittadini (e non si scordi l'attacco del canto XXV del Paradiso). Non è dunque possibile escludere a priori che D. abbia ricevuto da Brunetto qualche stimolo alla sua opera letteraria: non solo, dunque, documenti civili e morali, ma un ‛ codice ' da recepire, translitterare, ampliare. E viene allora spontaneo chiederci se per avventura di questo influsso non rimangano tracce più concrete e puntuali, non tanto in sede teorica (di ‛ struttura portante ') ma pratica: cioè a dire se Brunetto uomo di lettere (retore, rimatore municipale, scrittore enciclopedico) non abbia in qualche punto influito su D. poeta e letterato proprio quanto alla resa puntuale dell'arte, agendo insomma sul ‛ mestiere ' e sulla pagina, nell'ambito di quel magistero letterario e retorico così recisamente escluso con argomenti avvincenti se non convincenti. L'ostinato silenzio di D. nei confronti della Rettorica (salvata dal ludibrio proprio perché mai citata...) ben autorizza a ritenere, per dirla con il Contini, che sia proprio questo, per D., " l'aspetto imitabile " di Brunetto maestro; e ci sembra legittimo affermare fin d'ora che, nel caso di una risposta positiva, non soltanto il problema della qualità e quantità dell'effettivo magistero di Brunetto troverebbe inoppugnabile soluzione sul piano filologico, ma che anche l'altro problema, quello della qualità della colpa e delle ragioni della condanna, riceverebbe nuova luce, e tale da sgombrare il campo dalle più peregrine ipotesi di lavoro.
E cominciamo allora a prelevare dalle Rime, cercando se esistano segni di una lettura e di una memoria fervida e ben disposta. Si veda ad es. il sonetto Tanto gentile (Vn XXVI 5-7): nei vv. 10-11 (che dà per li occhi una dolcezza al core, / che 'ntender no la può chi no la prova) è stato riconosciuto dal Contini un rimbalzo cavalcantiano (Donna me prega 53 " imaginar non pote om che nol prova "); ma già Tesoretto 2374-75 recitava: " che la forza d'amare non sa chi no lla prova "; e il coincidere della clausola parla più a favore di Brunetto che del Cavalcanti. E ancora: De gli occhi de la mia donna si move (Rime LXV) 3-4 si veggion cose ch'uom non pò ritrare / per loro altezza e per lor esser nove, da rileggere con Tesoretto 1233-35 " e vidi tante cose / che già in rime né in prose / no lle poria ritrare " (il testo Contini adotta " contare ", che è però [cfr. ediz. Wiese, ad l.] del solo cod. R). Altre volte si tratta invece di una scoperta assunzione di parole ed emistichi-rima; così nel sonetto Messer Brunetto (Rime XCIX) i vv. 9 e 12 Se voi non la intendete in questa guisa / ... Con lor vi restringete sanza risa riprendono Tesoretto 1981-95 " Allor vid'io Prodezza / ... sicura e sanza risa / parlare in questa guisa " (e cfr. ancora i vv. 1749-50). O si veda la ripresa puntuale di due parole-rima in Così nel mio parlar (Rime CIII 21-22 'l peso che m'affonda / è tal che non potrebbe adequar rima. / Ahi angosciosa e dispietata lima...) da Tesoretto 411-412 " Ma perciò che la rima / si stringe a una lima... ". E ancora, La dispietata mente (Rime L) 14-18 Piacciavi, donna mia, non venir meno / a questo punto al cor che tanto v'ama... / ché buon signor già non ristringe freno / per soccorrer lo servo quando 'l chiama, da confrontare con Tesoretto 2753-60 (" Ma colui c'ha divizia / sì cade in avarizia,/ che l'avere non spende / ... anz'ha paura forte / ch'anzi che vegna a morte / l'aver gli vegna meno, / e pu ristringe freno "), con implicazioni anche per l'esatta determinazione del significato di ristringe freno nel contesto dantesco. E potremmo operare altri confronti, ma quelli addotti ci sembrano più che indicativi.
Ben più vivaci e diretti - fino alla scoperta imitazione e al deliberato gioco di scuola - gl'influssi che emergono per ciò che è del Fiore e del Detto d'Amore. Quest'ultimo è un testo così autenticamente ‛ brunettiano ' nell'arcaicità dell'impasto linguistico e dell'aspetto metrico (si pensi all'opzione per il settenario a rima baciata, che rinvia subito al Tesoretto e al Favolello) che non c'è davvero bisogno di sottolineare la portata di quella lezione e di quell'incontro, bastando mettere in parallelo, per più minuti raffronti, la descrizione delle bellezze della donna in Detto 166-213 con quella brunettiana di natura in Tesoretto 228-230, 248-271, da integrare con le bellezze di Isotta presentate in Tresor III XIII 11. Anche dal punto di vista testuale e interpretativo il ricorso al Tresor può essere fruttuoso: se a Detto 189-190 (e lo scura e l'aluna / sì come il sol la luna) il Parodi (cfr. il glossario della sua edizione) dubitosamente postillava: " allunare, ridurre al piccolo splendore di una luna rispetto a un sole? ", ciò accadeva perché non gli eran presenti i luoghi del Tresor (I CXV 2-3, CXVI 3-5) ove si parla della luna " ki par soi ne luist mie tant que nos puissons veoir sa clarté; mais quant li solaus le voit, il l'enlumine... et la fait ausi resplendissant com ele apert a nous ", luogo che permette di considerare aluna un chiaro provenzalismo (cfr. alumnar). Riscontri con luoghi brunettiani son ben possibili anche per il Fiore: ma basterà rammentarne l'impianto e il tono ‛ goticizzante ', poi il proposito - cui aspira ostentatamente anche il Detto - di essere volgarizzamento della Rose, dunque (almeno per la seconda parte del Roman) di un ‛ vient de paraitre ' di quegli anni, messo ampiamente a frutto proprio dal L. nell'opera sua. Se sul Tesoretto del maestro D. giovane aveva modellato il suo Detto, quello maturo (diciamo quello intorno al 1285-90 se non posteriore), nella scia della lezione brunettiana ha dato col Fiore un prezioso e significante volgarizzamento della Rose, preludio assoluto alla conquista dello stile ‛ comico ' e del mosso dialogare del poema maggiore. E la frequentazione (non foss'altro mnemonica) con testi brunettiani non si limita certo alle opere composte da D. prima dell'esilio, ma continuerà poi sempre, anche là dove meno ci si aspetterebbe. Così ad esempio nel De vulg. Eloq., dove uno dei luoghi più risentiti e patetici di quel testo (ove l'animo dolente dell'esule trova accenti di un'inspirata, nobilissima amplitudine) deriva sicuramente da un passo del Tresor, anche se in linea teorica è possibile una fonte comune. Alludo al notissimo passo (I VI 3) ove D., accennando al suo amore per Firenze, all'esilio ingiustamente patito, e insieme al suo retto giudicare attorno il carattere municipale del volgar fiorentino, se n'esce in quel mirabile inciso: Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus aequor, indubbia ripresa ovidiana (Fasti I 493-494 " Omne solum forti patria est, ut piscibus aequor, / ut volucri vacuo quicquid in orbe patet "), ma che ritroviamo puntualmente, in un contesto più ampio, nel Tresor II LXXXIV 11 " Toutes terres sont paîs au preudome, autresi comme la mers as poissons; ou que jou aille serai jou en la moie terre, que nule terre ne m'est essilh ". Nonostante il ricorso al testo ovidiano (U. Bosco [D. vicino, p. 121] parla opportunamente di un controllo) la presenza di Brunetto è garantita dal fatto che il luogo del Tresor è a sua volta quasi puntuale volgarizzamento di un passo dello pseudo-senechiano De Remediis fortuitorum che D. invocherà, qualche tempo dopo, nella sua lettera Exulanti Pistoriensi. E, per questo punto, la lezione del L. durerà ben oltre i primi anni dell'esilio, se impronterà di sé il tono alto e inimitabile dell'epistola Amico fiorentino.
Quanto al Convivio il discorso potrebb'essere fitto e complesso. Già dicemmo che la struttura stessa dell'opera, il suo ‛ peso ' entro lo spazio culturale di quel momento storico, miravano nelle intenzioni di D., mentre più direttamente si riannodava all'insegnamento filosofico brunettiano del Tresor, a trascenderlo e a sostituirlo nell'ambito della cultura fiorentina: le affinità sono dunque innanzi tutto legate a una comune matrice ideologica e concettuale, nonché ai fini intrinseci delle due opere. Ma specillando la trama del Convivio appaiono convergenze ben più massicce e puntuali, anche se talora son dovute all'identità della fonte aristotelica. Si veda ad esempio il tono di certe citazioni sentenziose, il cui riferimento aristotelico è ovviamente taciuto nel Tresor ma esplicitato in D.: " une seule vertus ne poroit fere l'ome beate et parfet dou tout. Car une seule arondele ki viegne ne uns seus jours atemprés ne donent pas certaine ensegne dou printens " (Tresor II VI 3), luogo ripreso in Cv I IX 9 sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica, " una rondine non fa primavera ". Oppure ecco un analogo usufruimento delle consuete fonti, là dove Brunetto e D. affrontano i medesimi argomenti (in questo caso l'elogio della Giustizia come virtù): " de qui la force est si grans que cil ki se paissent de felonie et de meffet ne puent pas vivre sans aucune partie de justice, car li laron ki emblent ensamble welent que justice soit entr'aus gardée " (Tresor II XCI 2), passo da confrontare con Cv I XII 10 Questa è tanto amabile, che, sì come dice lo Filosofo nel quinto de l'Etica, li suoi nimici l'amano, sì come sono ladroni e rubatori; e però vedemo che 'l suo contrario, cioè la ingiustizia, massimamente è odiata.
In altri casi la fonte è più esplicita, sicura: si veda ad esempio la definizione della nobiltà data nel Tresor II LIV, da mettere in parallelo con brani del Convivio (IV VII 2, X-XV), o la precisa graduazione, proporzionata alle varie età della vita (dall'infanzia alla maturità) degli umani appetiti in rapporto ai loro concreti oggetti, esposta schematicamente da Brunetto in un passo del Tresor (II LXXIV 6), e risolta invece da D., in un brano di prosa d'arte, nel luogo parallelo di Cv IV XII 16. Questi ‛ incontri ' fra il Tresor e il Convivio (altri se ne potrebbero aggiungere) vogliono soprattutto sottolineare, al di là di un problema di ‛ fonti ' o di una comune problematica, chiare convergenze che provano una precisa comunanza di cultura e d'interessi: da questo punto di vista una ricerca condotta compiutamente offrirebbe certo risultati più sicuri e precisi di quanto non si sia fino a oggi accertato o proposto: chi scrive ha il non remoto sospetto che proprio il Tresor sia molto spesso per D. la Summula de virtutibus tenuta sott'occhio quale introibo alla diretta fonte aristotelica. Ma l'apporto di testi brunettiani alla migliore intelligenza del Convivio non è soltanto di ordine storico culturale: almeno in un caso (daremo altrove la dimostrazione) il confronto consente sicuri recuperi sul piano ecdotico, se un passo della Rettorica (17,6, ediz. Maggini) è chiara fonte di Cv III XI 5-6 e consente di accogliere in toto (salvo un minimo emendamento) la lezione dell'archetipo considerata invece interpolata da tutti gli editori, i quali non han visto che D., in quel luogo, anziché le Derivationes, ormeggiava puntualmente il dettato dell'altro suo maestro. E a proposito sempre della Rettorica, facile sarebbe rilevare altri sicuri apporti, anche per ciò che concerne luoghi delle epistole; basti in questa sede rammentare le osservazioni avanzate in merito dal Novati e dallo Schiaffini, e le belle pagine di D. De Robertis.
Ma veniamo finalmente alla Commedia. E qui i ‛ rimbalzi ' si moltiplicano, se l'assunzione dello stile ‛ comico ' ivi consente all'Alighieri, nell'ambito di una poetica tutta nuova, di riconciliarsi anche sul piano teorico con Brunetto scrittore, accogliendo forme e vocaboli rifiutati (sul piano di un giudizio di gusto e di un'opzione di stile) all'altezza del De vulg. Eloq., e assumendo in qualche punto elementi del linguaggio brunettiano (addirittura dal Tesoretto) pur nell'ampio dilatarsi dell'endecasillabo. Pochissimi gli esempi, anche per questo paragrafo, tra i molti possibili.
Da tempo si è riconosciuto, nella prima terzina della Commedia, un'eco da analoga situazione del Tesoretto (188-190 " Perdei il gran cammino / e tenni a la traversa / d'una selva diversa "); ma anche la seconda terzina offre scoperti segni di un'attenzione non tenue per il vocabolario, anzi per la parola-rima, che viene assunta e ridistribuita nel dettato.
Si confronti If I 3-8 (Ahi quanto a dir quel era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura! / Tant'è amara che poco è più morte) con Tesoretto 1192-1206 " Deh, che paese fero / trovai in quella parte / ... ché, quanto io più mirava / più mi parea salvaggio / ... Ed io, pensando forte, / dottai ben de la morte ", dunque con la variatio (in D.) di forte da avverbio ad aggettivo, e l'abbandono dell'arcaismo dottare. Anche l'enigmatico Veltro, che non ciberà terra né peltro, / ma sapïenza, amore e virtute (If I 103-104), trova riscontro nell'ideale signore cui Brunetto dedica Tesoretto e Tresor: " ché per neente avete / terra, oro ed argento " (Tesoretto 30-31). Un altro verso tormentato e discusso come If II 61 (l'amico mio, e non de la ventura) riceve da alcuni versi del Favolello (71-80), forse meglio che dai passi di Abelardo a suo tempo addotti da M. Casella, la sua dichiarazione (" Così ho posto cura / ch'amico di ventura / come rota si gira, / ch'ello pur guarda e mira / come Ventura corre: / e se mi vede porre / in glorïoso stato, / servemi di buon grato; / ma se cado in angosce / già non mi riconosce "). E già che abbiamo nominato la Ventura, rammentiamo una volta per tutte che i danteschi accenni alla Fortuna nei canti VII e XV dell'Inferno (in quest'ultima sede, proprio entro il colloquio col L.) trovano un loro precedente in parecchi luoghi brunettiani, sia del Tesoretto (2434 ss.) che del Tresor (II CXV): anche se il tema era frequentissimo, e rinnovato in poesia proprio dal Roman de la Rose. Sempre nell'ambito di riprese testuali e di contenuto che possono d'altronde risalire a fonti comuni, citeremo, col Bozzetti, i brani del Tresor attorno la Magnanimità, che trovano del resto (come ha mostrato F. Forti in " Giorn. stor. " CXXXVIII [1961] 329-364) il punto di partenza comune nell'Etica aristotelica.
Ma torniamo a ‛ rimbalzi ' più puntuali e riecheggiamenti sicuri e talora sorprendenti. Chi penserebbe per es. che un verso così ricco di pathos come If V 38-39 (i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento) sia traduzione puntuale da Tresor II XX 6 " On doit contrester au desirier de delit; car ki se laisse vaincre, la raisons remaint sous le desirier... Par quoi on se doit estudiier que raisons soit sor la concupiscence "? Da tempo ho poi avuto modo di collegare l'attacco di If VI (Al tornar de la mente) con Tesoretto 191 (" Ma tornando a la mente "); ma si osservi di quel canto il v. 42 (tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto) a confronto di Tesoretto 311-312 (" quello che vuol ch 'i ' faccia / e che vol ch'io disfaccia "); o si rammenti l'indubbio parallelismo di certi ‛ attacchi ' brunettiani con altri luoghi della Commedia: Tesoretto 1183-84 (" Or va mastro Brunetto / per un sentiero stretto "); Tesoretto 2181-82 (" Or si ne va il maestro / per lo camino a destro "), luoghi indubbiamente paralleli a If X 1-3 Ora sen va per un secreto calle / ... lo mio maestro, e io dopo le spalle, e all'altro attacco di If XV 1 ss. (Ora cen porta l'un de' duri margini), dove la ripresa, in fin dei conti, vuole proprio annunciare il prossimo incontro con Brunetto personaggio. Siamo di fronte all'intenzionale imitazione di moduli che pertengono agli anni ormai lontani di un preciso tirocinio poetico e che riaffiorano simpateticamente alla memoria. E basta scorrere ulteriormente il poema per imbattersi in altri esempi sicuri. Così If X 51 (ma i vostri non appreser ben quell'arte), e 77 " S'elli han quell'arte ", disse, " male appresa ... ") riecheggia Tesoretto 1989-90 (" non ha presa mi' arte / chi segue folle parte ") e Favolello 88 (" Ond'io n'ho presa un'arte "); altrettanto sicuro è poi il raffronto tra If XVI 124-125 (Sempre a quel ver ch'ha faccia di menzogna / de' l'uom chiuder le labbra) con Tresor II LVIII 3 " La verités a maintes fois face de mençoigne ". Altre volte sarà ancora il municipale Brunetto (come documenta la parola-rima) a fornire un vocabolario corposo e popolare, davvero ‛ municipale ', consono al tono di Malebolge: basterà rammentare (bloccando insieme, per comodità, i vari passi) che l'epe dei ladri (If XXV 82), l'epa croia di XXX 102 e quell'altra epa (in rima con crepa) dello stesso canto (vv. 119 e 121) trovano riscontro in Tesoretto 2837-38 " E mette tanto in epa / che talora ne crepa ", passo tenuto ben a mente se le rime dei due versi precedenti erano già nel canto di Maometto (If XXVIII 26 e 30), ove sacco rima con dilacco, su Tesoretto 2835-36 (" Ben è tenuto lacco / chi fa del corpo sacco "). Quanto a ‛ croio ' sopra citato, è anche in Tesoretto 2697. Sempre sulla stessa linea d'imprestiti, si veda l'apostrofe virgiliana (ad Anteo) in If XXXI 122-126 mettine giù, e non ten vegna schifo... / però ti china e non torcer lo grifo, da confrontare con Tesoretto 2591-92 " O s'hai tenuto a schifo / la gente, o torto 'l grifo ".
Ma usciamo a riveder le stelle, rammentando l'indubbio parallelo, rilevato da parecchi studiosi, fra la descrizione di Tolomeo (Tesoretto 2911 ss.) e la figura simbolica di Catone (Pg I 31 ss.): nonostante lo scarto che corre tra il saltellare del settenario a rima baciata e l'amplitudine dell'endecasillabo, non è possibile negare il rapporto, visto bellamente, già nel 1843, da Vincenzio Nannucci.
Indichiamo, prima di concludere, altri tasselli sicuri. Pg XVI 94 (Onde convenne legge per fren porre) non sarà ripresa (quanto cosciente?) da Tresor I XVII 1 " covint ke loi fust faite "? E Tesoretto 1233-35 (" E vidi tante cose / che già in rima né prose / no lle porria ritrare ") non rammenta anche Pd I 5-6 (vidi cose che ridire / né sa né può...), pur con la sostanziale differenza dei due contesti? E Pd XXXIII 5-6 (che 'l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura), tenuto pur conto dei precedenti nell'Anticlaudianus e in s. Bernardo, non rinvia anche a Tesoretto 290-291 (" e sono una fattura / de lo sovran Fattore ")? Ancora un ultimo esempio, proprio perché paradigmatico e vorrei quasi dire paradossale, sempre dall'ultimo canto del Paradiso. In quel canto, nella sublime preghiera di Bernardo alla Vergine, ai vv. 20-21 leggiamo: in te s'aduna / quantunque in creatura è di bontate. Non sarà irriverente rammentare l'eulogio che Brunetto, all'inizio del Tesoretto (63-64), fa del Signore cui l'opera è dedicata: " e posso dire insomma / che 'n voi, segnor, s'asomma / e compie ogne bontate ".
Sappiamo bene - anzi siamo i primi ad affermarlo e a riconoscerlo - che, di fronte alla mole della Commedia, e soprattutto di fronte all'altezza poetica e letteraria di quell'opera, al suo spazio e al suo peso nell'ambito della Weltliteratur (come di fronte alla globale personalità di D. filosofo, poeta, letterato) la campionatura qui addotta (sia pur ristretta ai reperti più sicuri e significativi) non implica certo il riconoscimento di una sudditanza, sul piano retorico-letterario, dell'Alighieri verso il Latini. D., è ben ovvio, rimane D.; e Brunetto, dal raffronto, appare né più né meno quello che, sul piano letterario, D. lo definì: un poeta municipale, superato (non contiamo le lunghezze!) dal suo discepolo. Altro discorso si potrebbe fare, invece, per Brunetto enciclopedista e retore, non a farlo competere con altri, ma a segnare e ribadire l'indubbia importanza, nella Firenze del secolo XIII, dell'opera sua di educatore, di divulgatore, d'iniziatore. Ché il peso del L. nella storia della cultura non pur fiorentina di quel secolo va ricercato, per un verso, nella sua attività di volgarizzatore e di retore; per altro verso, nel suo impegno di filosofo morale, diffusore dell'insegnamento aristotelico, tutto aperto a un bello e concreto umanesimo civile. Ma se tutto questo è indubbiamente vero, crediamo che i riscontri offerti possano far meglio comprendere (e intendere con altro gusto) il sapore umanissimo e l'esatto valore di quell'incontro nell'infuocata landa del canto XV dell'Inferno, e dello svariare di prospettive (rispetto alle critiche mosse da D. nel Convivio e nel De vulg. Eloq.) che esso incontro rappresenta. Superato, sul piano teorico e pratico, il momento del volgare ‛ illustre '; caduto per D. il motivo polemico univocamente letterario, legato a precise opzioni di poetica e di stile, non poteva non riaffiorare potente - nella più ampia libertà consentita dall'ormai conquistato stile ‛ comico ' - il bisogno, schiettamente umano ma anche altamente poetico, di riconoscere un antico debito, e di testimoniare il grato affetto per una lezione non mai dimenticata: una lezione che fu stimolante avvio alla poesia, efficace persuasione alla retorica, molteplice ricchezza d'insegnamenti filosofici e sapienziali, schietto documento di civile umanità e di ben regolato reggimento politico. Una lezione che D. non poteva certo obliare, e che, spente le accensioni polemiche del critico militante, raggiunta una nuova e definitiva dimensione di poesia, mostra chiaramente, a saperlo rileggere, di non aver dimenticato: cosicché, quando si voglia rettamente interpretare il canto XV dell'Inferno e insieme capire e precisare il sentimento dell'Alighieri verso il maestro suo, accanto alla politica e alla morale, accanto alla rettorica e all'umanesimo civile, bisognerà chiamare in causa anche le ‛ humanae litterae ': mettere pur in conto un pochino di letteratura.
Bibl. - Edizioni: Il Tesoretto e il Favolello sono stati magistralmente ripubblicati di recente in Contini, Poeti II 175-277, 278-284 (con ampio commento), dopo la prima ediz. dell'Ubaldini (Roma 1642), l'ottocentesca dello Zannoni (Firenze 1824) e quella criticamente fermata di B. Wiese nella " Zeitschrift für Romanische Philologie " VII (1883) 236-389. Divulgative le edizioni di L. Di Benedetto, Poemetti allegorici-didattici del secolo XIII, Bari 1941, e di G. Petronio, Poemetti del Duecento, Torino 1951. Prima ediz. della Rettorica quella " stampata in Roma in Campo di Fiore per M. Valerio Dorico, et Luigi Fratelli Bresciani " (Roma 1546), curata da Francesco Serfranceschi. Capitale l'ediz. critica di F. Maggini: La Rettorica di B.L., Firenze 1915 (rist. con prefazione di C. Segre: ibid. 1968). Per il Tresor si veda l'edizione (scorretta ma necessaria) a c. di F.J. Carmody, Li livres dou Tresor de B.L., Berkeley-Los Angeles 1948. - Per le orazioni ciceroniane: J. Corbinelli, L'Etica di Aristotele ridotta a compendio da Ser B.L. et altre tradutioni, Lione 1568; L.M. Rezzi, Le tre orazioni di M.T. Cicerone dette dinanzi a Cesare, Milano 1832. Nuova ediz. della Pro Ligario nei Volgarizzamenti del Due e Trecento, a c. di C. Segre, Torino 1953, 381-398 (rist. con ritocchi in Segre-Marti, Prosa 171-184). La Sommetta è stata pubblicata da H. Wieruszowski, B.L. als Lehrer Dantes und der Florentiner, in " Archivio Italiano per la Storia della Pietà " II (1957) 171-198. Si aggiunga che il Tresor fu precocissimamente volgarizzato (da respingere, con C. Segre, l'attribuzione del volgarizzamento a B. Giamboni) ed ebbe fortuna anche per le stampe (Treviso 1474; Venezia 1528, 1533). Altra ediz. veneziana quella a c. di L. Carrer, Il Tesoro... volgarizzato da B. Giamboni, Venezia 1839; migliore l'ediz. curata da L. Gaiter, Bologna 1878-83.
Studi: T. Sundby, Della vita e delle opere di B.L., a c. di R. Renier, con appendici di I. Del Lungo e A. Mussafia, Firenze 1884 (prima ediz. danese, Copenhagen 1869); U. Marchesini, B.L. Notaio, Verona 1890 (per nozze Cipolla-Vittone, 57-65); L. Frati, B.L. speziale, in " Giorn. d. " XXII (1914) 1-3. Bella e informatissima la sintesi di Contini, Poeti II 169-174 (con bibl.). Discontinuo il capitolo di D. Mattalia, B.L., in Letteratura Italiana. I Minori, Milano 1961, 27-45; equilibrato ma scolastico il volume di B. Ceva, B.L. - L'uomo e l'opera, Milano-Napoli 1965. Succinte ma salde le pagine di M. Marti, B.L., in Storia della Letteratura Italiana, a c. di E. Cecchi e N. Sapegno, I, Milano 1965, 605-609; e si veda inoltre E. Pasquini, La letteratura didattica e allegorica, in La letteratura italiana. Storia e testi, Bari 1971, I II 71-82, 393-401, 637-639.
Valida sintesi delle posizioni e giudizi di D. attorno la lingua letteraria è quella di I. Baldelli, Sulla teoria linguistica di D., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 705-713 (per il L., cfr. p. 707).
Su Brunetto enciclopedico: A. Marigo, Cultura letteraria e preumanistica nelle maggiori enciclopedie del Dugento, in " Giorn. stor. " LXVIII (1916) 1-42, 289-326; sui rapporti con la cultura e la poetica allegorica di ascendenza francese, L.F. Benedetto, Il Roman de la Rose e la letteratura italiana, Halle 1910, 89-100 (" Beihefte zur Zeitschrift für Romanische Philologie " XXI); H.R. Jauss, B.L. als allegorischer Dichter, in Festschrift für Paul Böckmann, Amburgo 1964.
Per il problema del ‛ peccato ' di Brunetto, si veda A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950; R. Kay, The Sin of B.L., in " Mediaeval Studies " XXXI (1969) 262-286; le ‛ lecturae ' indicate nel paragrafo sono quella di E.G. Parodi, Il canto di B.L., in Poesia e storia nella D.C., Napoli 1921, 253-311; di F. Montanari, B.L., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 441-475; di F. Salsano, Carità e giustizia (B.L. e i tre fiorentini), e La polemica con Firenze, in La coda di Minosse, Milano 1968, 21-52, 53-84; di M. Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto XV dell'Inferno, in Letture Classensi, III, Ravenna 1970, 219-254.
La questione del carattere del magistero di Brunetto è stata discussa da schiere di studiosi: dal Sundby, cit., il quale credeva a un effettivo insegnamento; a J. Ortolan, Les pénalités de l'Enfer de D. suivies d'une étude sur B.L. apprécié comme le maître de D., Parigi 1873, 123-170 (il quale, nonostante il sottotitolo, minimizza gli apporti); a G. Todeschini, Scritti su D., Vicenza 1872 (cfr. I 287 ss.), che nega una vera e propria discepolanza; a V. Imbriani, che dedicò un intero capitolo dei suoi Studi danteschi (Firenze 1891, 333 ss.) a mostrare " che B.L. non fu maestro di D. ". Utili ancora oggi le pagine dedicate all'argomento da M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di D., Torino 1896 e (non soltanto per gl'influssi di Brunetto su D. ‛ dettatore ' in latino) da F. Novati, Le Epistole, in Lectura Dantis. Le Opere minori di D.A., Firenze 1906, 290-293; mentre una bibliografia per allora completa su Brunetto, e quindi anche sui rapporti con D., fu stampata da E. Testa nella " Rivista di Sintesi Letteraria " III (1937) 79-93. Si veda anche W. Goetz, D. und B.L., in " Deutsches Dante - Jahrbuch " XX (1938) 78-99 (rist. in Dante. Gesammelte Aufsätze, Monaco 1958, 14-52). Ulteriori aggiunte nel cit. volume di A. Pézard e nel menzionato saggio della Wieruszowski; le pagine di U. Bosco nel saggio Il canto di B. (1962), ora in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 92-121. Sull'ambiente culturale fiorentino fra i secoli XIII e XIV cfr. poi S. Debenedetti, Sui più antichi " doctores puerorum " a Firenze, in " Studi Mediev. " II (1907) 327-351; C.T. Davis, The Early Collection of Books of S. Croce in Florence, nei " Proceedings of the American Philosophical Society " CVII (1963) 399-414; ID., Education in Dante's Florence, in " Speculum " XL (1965) 415-435; ID., B.L. and D., in " Studi Mediev. " s. 3, VIII (1967) 421-450; ID., Il buon tempo antico, in Florentine Studies. Politics and Society in Renaissance Florence, a c. di N. Rubinstein, Londra 1968, 45-69 (passim); C. Segre, Bono Giamboni e la cultura fiorentina del Duecento, introduzione a B. Giamboni, Il libro de' vizî e delle virtudi, Torino 1968. Su Brunetto cancelliere vedi inoltre D. Marzi, La Cancelleria della Repubblica fiorentina, Rocca San Casciano 1910; e sul retore le ottime pagine di A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana, ecc., Genova 1934, 53 n. 17 (in quanto ‛ maestro ' di D.), 183 ss., nonché di F. Maggini, Orazioni ciceroniane volgarizzate da B.L., in I primi volgarizzamenti dei classici latini, Firenze 1952, 16-40; e soprattutto C. Segre, Lingua, stile e società, Milano 1963, 176 ss., alle quali, per i volgarizzamenti delle orazioni, si può aggiungere J. Thomas, B. Latini's Uebersetzung der drei ‛ Cesarianae '... Inaugural-Dissertation, Colonia 1967. Utili osservazioni nel saggio di A. Buck, Gli studi sulla poetica e sulla retorica di D. e del suo tempo, in Atti del Congresso Internaz. di Studi danteschi, Firenze 1965, I 249-278, mentre un'acuta e bella sintesi è quella di G. Nencioni, D. e la Retorica, in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 98-101. Ivi alcune utili postille di E. Raimondi, I canti bolognesi dell'Inferno dantesco, pp. 232-233. Preziose indicazioni in D. De Robertis, Nascita della coscienza letteraria italiana, ne Il libro della ‛ Vita Nuova ', Firenze 1970, 177-238.
Tentativi di raccogliere elementi utili a illuminare soprattutto contatti di pensiero (che quindi potrebbero derivare da fonti comuni) tra Brunetto e D. furono compiuti da A. Dobelli, Il Tesoro nelle opere di D., in " Giorn. d. " IV (1897) 310-349; e da L.M. Capelli, Ancora del Tesoro nelle opere di D., ibid. V (1897) 548-556. Alcuni raffronti significativi (anche dal Tesoretto) erano del resto già stati raccolti da V. Nannucci nel suo Manuale di storia della letteratura italiana, uscito in prima ediz. a Firenze nel 1843 (cfr. I 199-203); della seconda ediz. accresciuta e più volte ristampata si veda sempre il vol. I, pp. 461-463. Oltre il Nannucci si occuparono, in quegli anni dell'Ottocento, di schedare i rapporti tra il L. e D. anche il Ferri di S. Costante, nello " Spettatore Italiano " I (1817) 70 e (un po' più metodicamente), N. Delius, Dante's Commedia und B. Latini's Tesoretto, nello " Jahrbuch der Deutsche Dantes Gesellschaft " IV (1877) 1-23. Buone schedature anche in Scherillo, op. cit., pp. 155 ss., 232 ss. Una rapida serie di raffronti concettuali e tematici anche presso la citata ediz. Gaiter del Tesoro volgarizzato (cfr. I 154-155). Un bilancio consuntivo, da cui hanno preso naturale avvio queste pagine, è poi stato compiuto dall'estensore della presente voce nel saggio Brunetto in D., introduttivo a B.L., Il Tesoretto. Il Favolello, Alpignano 1967.