Breve storia dell'anticlericalismo
Secondo Guido Verucci, uno dei maggiori studiosi dell’Italia laica prima e dopo l’Unità, per riprendere il titolo di un suo noto libro, l’anticlericalismo «appartiene in pieno alla storia d’Italia, è componente importante di questa storia, e va studiato, al di là talora della rozzezza delle sue espressioni, analoghe peraltro a quelle della parte avversa, nella funzione che ebbe di contribuire, come sostegno indispensabile, a sospingere in avanti il processo di laicizzazione»1. Pietro Scoppola, a sua volta, non ha esitato a definire l’anticlericalismo «una componente importante della nostra storia», aggiungendo: «non vi è ricerca sulla vita politica o religiosa dell’Italia unita che possa prescinderne»2. Ne consegue la necessità, a mio avviso, di raccogliere la sollecitazione di René Remond a considerare l’anticlericalismo non come un agglomerato eterogeneo e pittoresco di personaggi e movimenti tesi unicamente ad avversare la Chiesa cattolica e la sua influenza nella sfera pubblica, bensì come una «ideologia politica positiva», ispiratrice di cambiamenti significativi nelle istituzioni, nella vita sociale e nel costume dell’Europa otto-novecentesca3.
Ciò rimanda da subito alla questione classica di che cosa debba intendersi per ‘anticlericalismo’ e di come esso possa distinguersi da altri concetti quali ‘laicismo’ e/o ‘laicità’, ‘anticonfessionalismo’, ‘antipapismo’, ‘antitemporalismo’ e così via. È opinione abbastanza condivisa che l’anticlericalismo, almeno nell’accezione moderna del termine, vale a dire nell’uso che di esso è stato fatto dal secolo XIX in avanti, rappresenti una reazione al clericalismo. Rémond lo ha sostenuto in modo perentorio: «sans cléricalisme avéré ou supposé, pas d’anticléricalisme»4. Innanzitutto, perciò, occorre definire il concetto di clericalismo, cercando contestualmente di individuare il momento in cui esso è entrato nel lessico politico e nell’uso pubblico. Con la consapevolezza, peraltro, che sia l’anticlericalismo che il clericalismo sono due termini «a geometria variabile»5, i quali, pur avendo avuto una storia e un destino comune, hanno visto evolvere e mutare il rispettivo significato nel corso del tempo anche in conseguenza dei reciproci condizionamenti.
Con il termine ‘clericalismo’ si definisce la tendenza, da parte del potere ecclesiastico, a uscire dall’ambito religioso per intervenire in quello della società civile e dello Stato al fine di «determinarne le scelte e gli orientamenti, utilizzando come strumento di intervento il clero e le sue organizzazioni laicali, indirizzate così verso attività che esulano dai fini per i quali sono state create»6. L’anticlericalismo si qualifica dunque storicamente come risposta a questo fenomeno, vale a dire come quell’insieme di idee e di comportamenti che, all’indomani della Rivoluzione francese e nei decenni successivi, proclamarono l’illegittimità di ogni interferenza della Chiesa istituzionale e della religione nella vita pubblica. Più precisamente esso si è venuto delineando come «affermazione di una necessaria separazione fra politica e religione, fra Stato e Chiesa, riducendo la Chiesa al diritto comune e la religione a fatto privato, secondo l’ispirazione dell’individualismo liberale; come difesa di valori di libertà di coscienza e di autonomia morale che si sentono nati al di fuori di un alveo religioso»7.
Il termine ‘clericale’, nell’accezione che si è poc’anzi descritta, cominciò a circolare nel linguaggio politico nella Francia del 1848, dapprima come aggettivo (di solito affiancato a ‘partito’) e poi, dal 1860, come sostantivo. Le forme astratte, cléricalisme e anticléricalisme, apparvero intorno al 18708. È del maggio 1877 la celebre parola d’ordine scandita da Léon Gambetta nella Camera francese: «Le cléricalisme? Voilà l’ennemi».
La comparsa di questi vocaboli nella lingua italiana fu un poco più tarda. Ancora nel 1875 Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani, autori di un Vocabolario italiano della lingua parlata, consideravano la parola ‘clericale’ un neologismo a cui guardare con diffidenza: «Oggi nel linguaggio politico, fecondo sempre di nomi nuovi, dicesi di colui che è addetto a un partito, nemico sotto colore di religione a ogni civile libertà e usasi più spesso in forza di sostantivo»9.
Il lemma ‘anticlericale’ e soprattutto la sua forma astratta ‘anticlericalismo’ fecero più fatica ad affermarsi e ad essere registrati dai vocabolari. Basti pensare che la parola ‘anticlericalismo’ non compariva neppure nel Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia del 1961, dove venivano registrati invece i concetti di ‘laicismo’ e di ‘laicità’10. Il Grande dizionario avrebbe recepito il lemma «anticlericalismo» soltanto nel supplemento del 2009 diretto da Edoardo Sanguineti, considerandolo come qualcosa di assai diverso dalla laicità e di relativamente distinto anche dal laicismo. Accostato al concetto di ateismo e quindi a un’irriducibile antireligiosità, volgare e scomposto in molte sue manifestazioni, esso rientrava nel programma politico di correnti radicali ed estremiste, le quali, anche nelle loro forme espressive, non apparivano affatto inclini alla moderazione e all’understatement.
È certo che esso, come movimento politico-culturale, trovò il suo ubi consistam e il suo paradigma identitario proprio nella vocazione polemica e nel ricorso a strumenti di comunicazione e di propaganda che avrebbero sempre contemplato anche la satira e il vero e proprio sberleffo. L’anticlericalismo, ha osservato Rémond, aderisce ai grandi principi che definiscono il concetto di laicità: in più, di suo, ci aggiunge una «nuance combative». In altre parole, esso tende a semplificare e a estremizzare le argomentazioni del laicismo, talvolta le deforma in maniera grossolana. Per certi versi, come ha scritto uno studioso, l’anticlericalismo può essere considerato «la laïcité du pauvre»11.
Tuttavia, l’anticlericalismo italiano dell’Ottocento e del Novecento non si può identificare esclusivamente con le sue componenti più battagliere e sguaiate, quelle che si riconoscevano politicamente nei partiti democratici di matrice risorgimentale (repubblicani e radicali) o nel movimento anarchico e socialista. Vi è stato infatti anche un anticlericalismo liberale, che ha allignato sia nella destra storica che nella sinistra costituzionale e poi in certi settori del liberalismo italiano del secondo Novecento, come pure uno d’ispirazione cattolica, impegnato nella critica di alcune degenerazioni del ruolo della Chiesa e del clero nella società, o ancora uno presente all’interno del regime fascista e avverso alla svolta concordataria del 1929.
Alla luce degli studi degli ultimi decenni, anche la distinzione suggerita daWalter Maturi nella voce ‘laicismo’ da lui scritta per il Dizionario di politica, edito nel 1940 dall’Enciclopedia italiana, appare insoddisfacente e troppo sbrigativa: «il termine anticlericalismo è meramente negativo e polemico, mentre quello laicismo contiene sulla società civile visioni costruttive»12.
In realtà, come si è cercato di argomentare, è più corretto parlare dell’anticlericalismo non come movimento puramente distruttivo, volto a rintuzzare l’invadenza delle Chiese e della religione nella sfera pubblica, bensì come strumento ideologico-politico di trasformazione della società. Attraverso le battaglie condotte nel corso dei decenni (per la scuola laica, per il matrimonio civile, per il divorzio, per l’aborto, per la cremazione, per il testamento biologico, ecc.), battaglie che ai contemporanei apparvero sovente avveniristiche se non addirittura utopiche, esso ha contribuito in modo decisivo al processo di laicizzazione e di crescita civile e culturale del paese. Ha rappresentato cioè una sorta di ‘braccio armato’ del laicismo, caratterizzandosi dunque non soltanto per le sue prese di posizione polemiche contro la Chiesa e il clero, ma anche per la sua forza propositiva, per le sue iniziative tese a dare concreta attuazione ai principi della laicità.
In Italia come in altri paesi europei, specie quelli a dominante presenza cattolica (la Francia, il Belgio, la Spagna), la stagione d’oro dell’anticlericalismo coincise con gli ultimi decenni dell’Ottocento e con lo scorcio iniziale del Novecento fino alla Prima guerra mondiale. I gruppi anticlericali attivi nei diversi contesti nazionali ebbero ben chiara la consapevolezza di essere parte di un più vasto movimento europeo che, fatte salve le singole specificità, condivideva il medesimo progetto ideale e politico e portava avanti le stesse battaglie. Tempi, modalità di lotta e obiettivi furono sostanzialmente gli stessi, anche se i risultati raggiunti furono assai diversi. Gli anticlericali italiani, per esempio, guardarono sempre con un misto di ammirazione e d’invidia alla Terza Repubblica francese, capace di realizzare una vera laicizzazione e di arrivare infine alla separazione fra Chiesa e Stato, mentre i governi liberali della penisola, sia di destra che di sinistra, non andarono oltre un laicismo di facciata e sui grandi temi della politica ecclesiastica e di quella scolastica non seppero, o non vollero, incidere in profondità sui privilegi della Chiesa e del clero.
Le prime testimonianze significative di una presenza anticlericale nella penisola si ebbero comunque già negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento. Esse trassero alimento anche dalla politica antiliberale di papa Gregorio XVI, che fin dalla sua ascesa al soglio pontificio nel 1831 varò una serie di provvedimenti tesi a limitare le libertà civili e politiche e a perseguitare i seguaci di altre religioni, come gli ebrei e i protestanti. Questo primo sentimento anticlericale, che fu trasversale a varie componenti del nascente liberalismo italiano, si caratterizzò soprattutto per un connotato antitemporale o anti-istituzionale. Ebbe cioè come bersaglio polemico non tanto il sentire religioso o la Chiesa cattolica in sé, quanto piuttosto l’esercizio del potere politico da parte della struttura ecclesiastica e la degenerazione morale che ne era seguita. Riprendeva motivi dell’anticlericalismo religioso dei secoli precedenti, da Dante a Savonarola, per richiamare la Chiesa ai valori del cristianesimo delle origini e sottrarla alla spirale di corruzione e malgoverno in cui l’aveva precipitata il temporalismo. E, naturalmente, vedeva nell’esistenza di uno Stato della Chiesa, come già aveva ammonito Machiavelli, uno dei maggiori ostacoli nella costruzione dell’unità nazionale.
Qualche traccia di questo anticlericalismo la ritroviamo anche in alcuni esponenti del cattolicesimo liberale, daManzoni a Rosmini, daLambruschini a Tommaseo, daGioberti a Capponi e Ricasoli. Essi sostennero l’assoluta necessità di una riforma dall’interno della Chiesa cattolica, che doveva restituirla all’essenzialità evangelica e che aveva come indispensabile prerequisito la fine del potere temporale. Quello dei cattolici liberali fu soprattutto un anticurialismo (si pensi alle Cinque piaghe della Santa Chiesa di Rosmini o al Gesuita moderno di Gioberti) che mirava a liberare la Chiesa dai suoi anacronismi, a purificarla dalle scorie delle compromissioni politiche, a riconciliarla con il liberalismo e con le aspirazioni unitarie dei patrioti italiani. Ma si trattò di una polemica che, pur avendo punte assai aspre e accenti sicuramente etichettabili come anticlericali, conservò un carattere eminentemente religioso: si pose cioè l’obiettivo non di limitare l’influenza della Chiesa e della religione nella società, bensì di difenderla, restituendola alla dimensione spirituale delle origini.
Questo anticlericalismo, in cui confluirono retaggi del cattolicesimo illuminato, del giansenismo e dell’antigesuitismo settecenteschi, e persino echi savonaroliani, oltre al mito del ritorno al cristianesimo primitivo, lasciò memorie durature anche nel cattolicesimo liberale del secondo Ottocento. Naturalmente fu cosa assai diversa dall’anticlericalismo laico ed ebbe semmai elementi di contatto con l’anticlericalismo delle minoranze protestanti13 e con quello di alcuni esponenti del liberalismo moderato, come Massimo d’Azeglio e Terenzio Mamiani, che mossero critiche severissime al papato e allo Stato pontificio, denunciandone l’anacronistico dispotismo e l’avversione a ogni forma di libertà e di progresso.
In questi anni, l’eterogeneo gruppo di scrittori che si distinse per i suoi attacchi alla Chiesa romana individuò un importante riferimento teorico in Sismondi e nella sua Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo, un’opera che ebbe vasta risonanza nell’Europa d’inizio Ottocento (fu pubblicata fra il 1807 e il 1818) e di cui apparve nel 1819 la prima edizione italiana14. Lo scrittore ginevrino, di formazione calvinista, sosteneva che il cattolicesimo aveva rappresentato «la malattia della nazione italiana» ed era stato, insieme alla dominazione straniera, una delle cause principali della sua «devirilizzazione», resa emblematica, fra l’altro, dalla diffusione di un fenomeno bizzarro come quello del «cicisbeismo»15. L’egemonia cattolica sulla penisola dalla Controriforma in avanti aveva contribuito a fiaccare il carattere degli italiani, diffondendo una morale lassista, un’attitudine all’inganno, un senso di deresponsabilizzazione dell’individuo, che si erano tradotti nella predisposizione al servilismo, specie nei confronti del potere politico. Tutti temi, che sarebbero stati poi variamente ripresi dalla polemica anticattolica dei decenni successivi.
Alcuni di questi spunti polemici furono fatti propri anche da quel nucleo di letterati e intellettuali del filone cosiddetto neoghibellino, che si costituì in opposizione alle tesi neoguelfe di Gioberti e all’interno del quale si distinsero, fra le altre, figure come Giovambattista Niccolini,Francesco Domenico Guerrazzi, Giuseppe Giusti, Gioacchino Belli, Michele Amari, Giuseppe Montanelli, Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane.
La loro influenza nella vita politica e culturale dell’Italia di metà Ottocento non fu affatto marginale. Se la pungente satira dialettale delBelli ebbe una circolazione relativamente limitata, altrettanto non può dirsi per le raccolte poetiche di Giusti né per le opere di Niccolini e Guerrazzi, che conobbero un vasto successo di pubblico e concorsero a plasmare una generazione di patrioti. L’Arnaldo da Brescia di Niccolini (1843) e L’assedio di Firenze di Guerrazzi (1836), in cui l’esaltazione dell’antico eroismo italico si mescolava con ideali repubblicani e con la sferzante denuncia della decadenza della Chiesa, ebbero infatti un ruolo significativo nella gestazione di quello che Alberto Mario Banti ha chiamato «canone risorgimentale»16. Sulla stessa linea si collocò lo storico Michele Amari, specie con una delle sue opere più note, La guerra del Vespro siciliano (1842), ispirata da un materialismo razionalistico che, trasferito sul terreno della lotta politica di quegli anni, si traduceva nell’affermazione di una prospettiva laicista e nel rifiuto di ogni soluzione neoguelfa del problema italiano.
Ma colui che con maggior vigore dette voce alle istanze anticlericali fu Giuseppe Ferrari, allievo di Romagnosi e fra i primi in Italia a teorizzare l’idea di un socialismo federalista e umanitario, i cui scritti, anche in virtù del fatto che dal 1838 risiedette in Francia, ebbero una certa risonanza in vari Paesi europei. La sua critica alla Chiesa e alla religione fu radicale, e sfociò in un anticristianesimo viscerale. Accenti simili si ritrovano in Carlo Pisacane, che nel Saggio sulla rivoluzione fece esplicite affermazioni di ateismo («di tutte le ipotesi la più assurda è quella di supporre l’esistenza di Dio e l’uomo creato a sua immagine») e scrisse che il socialismo si contrapponeva al Vangelo «come la rigogliosa vita d’un corpo giovane [al] rantolo d’un moribondo»17. Pisacane però, a differenza di Ferrari, non dava troppo peso al pericolo clericale e non inneggiò alla lotta contro la religione, convinto che la rivoluzione e l’avvento del socialismo avrebbero spazzato via il potere della Chiesa. «L’edificio religioso – osservava Pisacane – non ha bisogno di essere diroccato, ma basta rimuovere i puntelli che lo innalzano per vederlo crollare»18.
Un caso particolare fu poi quello di Mazzini, ambiguamente e talora contraddittoriamente sospeso fra una polemica antipapale, anticattolica e anticristiana e il tentativo, perseguito per tutta la vita, di costruire una nuova religione dell’umanità. Il pensiero filosofico-politico di Mazzini fu fortemente impregnato di religiosità, al punto che nel suo anticlericalismo vi è stato chi ha visto il «mezzo per far prevalere un sistema teistico e spiritualistico che si potrebbe anche definire di teocrazia democratica»19. Egli, tuttavia, fu sempre sorretto dal convincimento che l’Unità d’Italia poteva farsi soltanto abbattendo lo Stato pontificio e che il cristianesimo stesso poteva salvarsi solo attraverso una riforma radicale dell’organizzazione ecclesiastica. Non a caso, fra i primi atti della Repubblica romana del 1849 vi sarebbe stata la proclamazione dell’abolizione del potere temporale.
Negli anni successivi e anche dopo il 1860 Mazzini avrebbe poi dedicato vari scritti alla questione religiosa, denunciando nel papato una fonte permanente di corruzione e d’immoralità e accusando la Chiesa di Roma di aver opposto un argine allo sviluppo della civiltà. Ma nel suo pensiero religioso di questo periodo non ritroviamo più gli accenti esacerbati degli scritti apparsi venti o trent’anni prima, e anzi, nel momento in cui s’irradiarono le correnti razionaliste e materialiste egli si erse a difesa dei principi spiritualistici, prendendo nettamente le distanze dai nuclei più combattivi del fronte anticlericale.
Un deciso impulso alla diffusione di idee e gruppi anticlericali si ebbe dopo gli avvenimenti del 1848-1849, che misero fine all’illusione neo-guelfa e alimentarono un diffuso risentimento verso Pio IX e la Chiesa cattolica, accusati di aver tradito la causa italiana e di essere tornati a incarnare il baluardo della reazione. Al declino del cattolicesimo liberale si accompagnò il sempre più convinto approdo del liberalismo moderato su posizioni laiche, specie nel Regno di Sardegna, dove il governo negli anni Cinquanta avviò un processo di laicizzazione piuttosto avanzato. Nel movimento democratico, inoltre, prese consistenza la componente laica e razionalista, che dette vita anche a interessanti esperienze giornalistiche.
Una delle più significative fu sicuramente la rivista «La Ragione», un periodico di «filosofia religiosa, politica e sociale», come recitava il sottotitolo, che si pubblicò a Torino dall’ottobre 1854 al maggio 1858. Fondata e diretta da Ausonio Franchi, pseudonimo di Cristoforo Bonavino, il sacerdote che per il suo razionalismo di matrice illuministica era stato sospeso a divinis nel 1849 e indotto a deporre l’abito talare. «La Ragione» si caratterizzò per un democraticismo sociale ostile alle posizioni di Mazzini, sempre coniugato con un razionalismo anticattolico che non di rado sfociò in aperto anticlericalismo. Fra i collaboratori della rivista vi furono Mauro Macchi e Giuseppe Ricciardi, che vi fecero professione di esplicito ateismo, ma anche David Levi eGiuseppe Montanelli, che invece pubblicarono articoli pervasi di un sentimento religioso d’ispirazione sansimoniana20.
Molti dei collaboratori de «La Ragione» li avremmo ritrovati, di lì a pochi anni, fra gli affiliati alle logge massoniche di Torino e di altre città della penisola. A cominciare naturalmente da Ausonio Franchi, che nel 1864 avrebbe addirittura capeggiato la scissione dal Grande Oriente d’Italia di un gruppo di logge dissidenti, aggregatesi in una nuova obbedienza che prese il nome Rito simbolico milanese. Altri, come Giuseppe Montanelli, David Levi e Mauro Macchi sarebbero stati esponenti di spicco dello stesso Grande Oriente21.
Più ancora de «La Ragione», che ebbe una tiratura limitata e si rivolse a un pubblico selezionato, un forte contributo all’irradiamento delle istanze laiciste lo dettero alcuni giornali della sinistra liberal-democratica, e fra questi soprattutto «La Gazzetta del popolo», che vide la luce a Torino nel giugno 1848 per iniziativa di Alessandro Borella, Giovanni Battista Bottero e Felice Govean. Il giornale ebbe caratteristiche editoriali e una linea politico-culturale che ne favorirono l’immediato successo e un’ampia diffusione (nel periodo risorgimentale raggiunse i 14.000 abbonamenti). Fin dai primi numeri fece dell’anticlericalismo uno dei propri elementi identitari, e ospitò anche una rubrica, il Sacco nero, in cui metteva alla berlina, nominandoli uno per uno, i preti corrotti e politicanti. Successivamente si schierò contro il potere temporale e a sostegno delle leggi laiche del governo22.
La linea politica del giornale fu elaborata principalmente da Govean, che nell’ottobre 1859, coerentemente con i propri valori ideologici e culturali, sarebbe stato uno degli artefici della rifondazione della massoneria italiana23. Egli fece de «La Gazzetta del popolo» anche il punto di riferimento del nascente movimento operaio torinese e dette il proprio personale contributo alla fondazione di società di mutuo soccorso e di biblioteche popolari. L’universo dell’associazionismo operaio a carattere mutualistico divenne infatti un altro importante veicolo di diffusione degli ideali di laicità: sia come risposta all’avversione manifestata dalle gerarchie ecclesiastiche per questo tipo di associazioni, nelle quali esse videro una minaccia di ordine politico-religioso e un elemento di sovversione degli equilibri sociali esistenti; sia perché esse di fatto rappresentarono la prima reale alternativa alle organizzazioni cattoliche di carità e posero le premesse per sottrarre alla Chiesa il controllo dell’assistenza ai poveri e per arrivare alla nascita di un moderno Stato sociale di natura laica; sia infine perché, proclamandosi aconfessionali e mettendo al bando la religione dalla gestione dei sodalizi, istituzionalizzarono alcune pratiche sociali, come la celebrazione di funerali esclusivamente civili per i soci defunti, che prepararono il terreno, sul versante dei comportamenti individuali e collettivi, per alcune rivendicazioni anticlericali dei decenni successivi.
Giornali e associazioni popolari contribuirono alla nascita di un’opinione pubblica di orientamento laico, che offrì di fatto un importante sostegno al processo di laicizzazione perseguito dal Piemonte cavouriano. Quanto a Cavour, dietro la sua visione della questione religiosa ci fu l’influenza del pensiero liberale (Constant, Guizot, Tocqueville, Lamennais, ecc.), ma anche la frequentazione di alcuni ambienti del protestantesimo ginevrino (Vinet), da cui egli ricavò l’idea fondamentale della separazione fra Chiesa e Stato24. Ecco quanto scriveva nell’agosto 1850 a Carlo Birago di Vische, direttore dell’«Armonia»:
«Amico quant’altri mai della libertà religiosa la più estesa, io desidero ardentemente di veder giungere il tempo in cui sarà possibile di praticarla da noi, quale essa esiste in America, mercé l’assoluta separazione della Chiesa dallo Stato. Separazione che io reputo essere una conseguenza inevitabile del progresso della civiltà e condizione indispensabile al buon andamento delle società rette dal principio di libertà»25.
Quel tempo però, secondo Cavour, nel 1850 non era ancora giunto: gli «spiriti» non gli sembravano preparati per accogliere una così «grande riforma sociale», e quanto al clero sarebbe stata necessaria una lunga opera di «educazione» indirizzata «a questo santo scopo». Nella medesima lettera perciò aggiungeva:
«Fintantoché vi sarà una religione dello Stato, sarà forza sospendere l’applicazione di teorie di cui riconosco l’eccellenza e conservare delle leggi antiche quel tanto che è necessario per impedire che un partito oltremodo tenace, se non potentissimo, sotto pretesto di conquistare maggiori libertà ci ritorni al vecchio assolutismo, di cui ieri era ancora il più fervente fautore»26.
Fu questa la linea a cui Cavour si attenne durante il cosiddetto ‘decennio di preparazione’: fedeltà ideale alla formula separatistica, ma, nel concreto delle decisioni politiche, sostanziale continuità con la tradizione giurisdizionalistica e giuseppinistica del periodo prequarantottesco. E conseguentemente forte insistenza sui motivi anticlericali e antiromani, e adozione di provvedimenti politici di spiccata connotazione anticattolica, che ebbero il gradimento della sinistra laica e consentirono a Cavour di allargare la base politica dei suoi governi.
In effetti lo Statuto albertino, pur garantendo l’assoluta uguaglianza di tutti i ‘regnicoli’ dinanzi alla legge e l’uguale godimento dei diritti civili e politici, affermava che «la Religione Cattolica, Apostolica e Romana [era] la sola Religione dello Stato». Ne derivò per la Chiesa cattolica una serie di privilegi di natura giuridica, politica e fiscale, che fu largamente bilanciata dal potere d’intervento dello Stato nella sfera ecclesiastica. E di tale potere i governi liberali – fra cui quelli guidati dallo stesso Cavour – fecero ampio uso, varando una legislazione anticlericale che andò a erodere i privilegi dei cattolici e portò alla progressiva laicizzazione delRegno sabaudo. Basti solo ricordare la legge del 1848 che negò il diritto di voto ai Gesuiti; la legge del 9 aprile 1850 che abolì il foro ecclesiastico, le immunità ecclesiastiche e il diritto di asilo; quella del 5 giugno 1850 che proibì al clero di acquistare beni mobili e immobili, anche a titolo gratuito, senza l’autorizzazione del governo; quella del 29 maggio 1855 che soppresse tutte le congregazioni religiose con l’esclusione di quelle che si dedicavano alla predicazione, all’educazione o all’assistenza dei malati; o ancora la legge Casati del 1859 che svincolò l’istruzione pubblica dall’autorità ecclesiastica, pur prevedendo ancora la figura del direttore spirituale, eliminata poi nel 1877.
Questa impostazione politica non conobbe soluzioni di continuità neppure dopo la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, quando la formula separatistica cavouriana «libera Chiesa in libero Stato», avversata sia dalla destra liberale che dalla sinistra costituzionale e democratica, non trovò alcuna pratica possibilità di attuazione. L’intrecciarsi e il sovrapporsi della questione religiosa con quella ‘romana’, ossia con il problema del completamento dell’unificazione nazionale e della ‘liberazione’ di Roma, fece sì che qualunque iniziativa di carattere autenticamente liberale, volta a porre fine al potere temporale e al tempo stesso a dare maggiore libertà alla Chiesa cattolica sul terreno spirituale, fosse ritenuta pericolosa e non percorribile. Per cui il sistema politico italiano continuò a caratterizzarsi come una sorta di «giurisdizionalismo liberale» o «mitigato»27, nel quale l’incidenza delle suggestioni anticlericali ebbe un peso crescente.
Una prima traccia dell’anticlericalismo della destra si può trovare nella decisione di estendere al Regno d’Italia alcune delle principali leggi che erano state varate dal Piemonte, nel decennio precedente, in materia di politica ecclesiastica. Le due più importanti furono quelle del 7 luglio 1866 e del 15 agosto 1867 sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico: con la prima vennero soppressi gli ordini religiosi, a cui si negò la personalità giuridica e quindi il diritto a possedere terre, conventi e monasteri, che passarono ai comuni e alle province; la seconda decretò l’abolizione degli enti ecclesiastici residui e l’incorporazione dei rispettivi beni. Ma già nel 1865 fu introdotta l’esclusività del matrimonio civile e il nuovo codice non riconobbe più effetti civili al matrimonio religioso; nel 1869 fu varata la legge che sottoponeva gli ecclesiastici all’obbligo di leva; nel 1873 furono abolite le facoltà di teologia nelle università.
A maggior ragione fu improntata a tratti anticlericali la politica ecclesiastica della sinistra, che fin dal suo avvento al potere nel 1876 si connotò per una decisa avversione alla Chiesa cattolica. Una prima conferma si ebbe nel 1877 con la legge Coppino, che rese facoltativo l’insegnamento della religione nella scuola elementare (un successivo regolamento del 1888 impose, fra l’altro, che fosse destinato soltanto a quegli alunni i cui genitori ne facessero domanda), stabilì che esso fosse impartito dai maestri e non da religiosi, e cancellò l’esame finale previsto dalla precedente normativa. Un’altra tappa significativa si ebbe nel 1888 con il nuovo codice sanitario che legalizzò esplicitamente la cremazione, imponendo ai comuni di concedere gratuitamente l’area necessaria nei cimiteri per la costruzione dei crematori, e stabilì che in ogni cimitero dovesse esserci uno spazio per gli acattolici. Appena due anni prima, giova ricordarlo, col decreto emanato dal Sant’Uffizio il 19 maggio 1886 (Quoad cadaverum cremationes), la Chiesa aveva sancito la condanna ufficiale e definitiva delle pratiche cremazioniste28. Nel 1890 si ebbe poi la legge Crispi che laicizzò le opere pie trasformandole in istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza ed escludendo dalle congregazioni di carità gli ecclesiastici con cura d’anime. Nel 1895, infine, in occasione del venticinquesimo anniversario di Porta Pia, accogliendo le insistite richieste del movimento patriottico di matrice laico-massonica, il governo Crispi decretò che la ricorrenza del 20 settembre diventasse festa nazionale29.
Nella scelta di adottare questa politica ecclesiastica di taglio giurisdizionalistico e d’impronta anticlericale molto influì l’atteggiamento della Chiesa e del movimento cattolico, che dopo il 1861 si arroccarono a difesa del potere temporale e di quanto era rimasto degli antichi privilegi. Fra i cattolici la componente liberale e conciliatorista si assottigliò a tutto vantaggio di quella intransigente, la quale, soprattutto dopo il 1870 e dopo il non expedit, divenne largamente egemone e caratterizzò la propria opposizione allo Stato unitario come «anti-sistema». Giudicò cioè il Regno d’Italia illegittimo e usurpatore, rifiutando qualsiasi forma di collaborazione che potesse affermarne la legittimità, a cominciare dalla partecipazione alle elezioni politiche. Inoltre, fin dai primi anni dopo l’Unità alcuni settori del clero, specie nelle regioni meridionali, non esitarono ad appoggiare forme estreme di protesta sociale e politica come il brigantaggio.
Ciò fece sì che l’anticlericalismo non tardasse ad essere identificato come uno dei pochi elementi unificanti dell’intero schieramento dei nation builders, dalla destra liberale alla sinistra democratica, di coloro che rivendicavano la piena legittimità del Regno sabaudo e auspicavano apertamente che Roma ne divenisse la capitale. In altre parole, in questi anni vasti settori della classe dirigente e della cultura italiana vissero il confronto con la cattolicità come uno scontro irriducibile fra due diverse visioni del mondo, fra chi si riteneva, a torto o a ragione, interprete del progresso e della modernità e chi veniva invece identificato tout court con la reazione, con l’oscurantismo, con la negazione della civiltà, e quindi doveva essere emarginato e abbattuto. «L’Italia, creatrice del Papato – ha scritto Federico Chabod –, doveva distruggere il Papato, doveva spaparsi»30.
Dopo l’Unità, dunque, le ragioni del laicismo presero campo progressivamente in segmenti sempre più ampi e trasversali del mondo politico e culturale. E a essere interessate non furono solo la cultura scientifica e quella filosofico-giuridica, dominate dall’evoluzionismo darwiniano e dalpositivismo, ma anche la cultura letteraria. Ha scritto in proposito Roberto Pertici:
«Uno sguardo, anche superficiale, ci mostra una serie di gruppi letterari (dagli scapigliati ai carducciani, ai veristi, agli «esteti» dei primi anni Novanta) in cui la sensibilità religiosa è completamente assente: l’eclissi del manzonismo, evidente dopo il 1870, la debolezza dei suoi epigoni (da Bonghi a Zanella), la fortuna crescente della poesia, tutta classica e pagana, di Carducci (che nel decennio precedente era stato il poeta dell’anticlericalismo italiano) sono fra gli indicatori più significativi del nuovo clima. È tutta una generazione che si stacca dal cristianesimo: non si può essere «colti» e, al tempo stesso, cristiani in epoca di darwinismo e scientismo laicista»31.
La novità più eclatante, rispetto al periodo preunitario, fu la diffusione di un movimento organizzato che fece dell’opposizione alla Chiesa cattolica, al papato, all’idea stessa di religione la sua principale ragione di vita. Le espressioni più significative di questo movimento furono la massoneria e le associazioni del libero pensiero.
La massoneria, messa al bando in tutti gli Stati preunitari, ricomparve nel 1859, quando venne fondato a Torino il Grande Oriente Italiano (Goi). L’istituzione liberomuratoria ebbe un ruolo di grande rilievo per vari motivi: anzitutto perché divenne una struttura associativa radicata in tutta la penisola e nel momento della sua massima espansione, ossia alla vigilia della Grande guerra, raggiunse un numero di circa venticinquemila iscritti (in cui erano compresi anche gli affiliati alla Gran loggia d’Italia, l’obbedienza dissidente formata da un gruppo di massoni del rito scozzese che erano usciti dal Goi nel 1908); in secondo luogo perché aderì al Goi una rappresentanza ragguardevole di esponenti politici, fra i quali almeno cinque presidenti del Consiglio (Depretis, Crispi, Zanardelli, Fortis, Boselli), parecchi ministri e innumerevoli parlamentari (nel 1914, secondo una stima attendibile, si contavano alla Camera ben novanta deputati massoni o con recenti trascorsi massonici), oltre a rilevanti figure del mondo accademico e culturale (Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli, Pasquale Villari, Giovanni Bovio, Antonio Labriola); infine perché la massoneria fu una sorta di levatrice di altre associazioni che furono assai attive sul fronte della concreta militanza anticlericale. Mi riferisco per esempio alle società per la cremazione, alle associazioni di pubblica assistenza e di soccorso, alle scuole popolari, agli asili e ai ricreatori laici.
Tutti questi sodalizi svolsero attività e funzioni, attraverso le quali cercarono di erodere il potere che in certi ambiti (l’istruzione delle classi popolari, l’assistenza ai bisognosi, la gestione della morte e dei rituali funebri, lo svago e l’educazione dei fanciulli) era esercitato in modo quasi esclusivo dalla Chiesa, dal clero e da molteplici organizzazioni del mondo cattolico. Così le società laiche di pubblica assistenza, dal 1904 costituite in federazione nazionale, agirono in diretta concorrenza con le Misericordie32; i ricreatori laici tentarono di offrire un’alternativa agli oratori cattolici33; le società per la cremazione si batterono per affermare il concetto della ‘morte laica’, e con essa l’idea del progresso igienico-sanitario che solo le nuove tecniche potevano garantire. E non pochi fratelli, a cominciare da Adriano Lemmi e Andrea Costa, figurarono fra gli oltre ventimila cremati che si ebbero in Italia fra il 1876, anno della prima cremazione ufficiale avvenuta a Milano, e gli anni Venti del Novecento. Il Goi inserì ufficialmente fra i suoi obiettivi il progetto di legalizzazione della cremazione in occasione dell’assemblea del 1874, quando formulò altresì l’auspicio che i cimiteri divenissero «esclusivamente civili, senza distinzione di credenze o di riti»34.
L’impegno anticlericale della massoneria si manifestò inoltre attraverso il sostegno che le logge dettero ad alcune iniziative politiche, come la campagna per introdurre il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano. Il fronte divorzista produsse un primo sforzo ingente intorno al 1890, quando fra gli altri si distinsero due avvocati entrambi massoni, il bolognese Giuseppe Ceneri e il piemontese Tommaso Villa, quest’ultimo già ministro dell’Interno e poi della Giustizia con Cairoli dal 1879 al 1881 e più avanti presidente della Camera. Logge e giornali massonici raccolsero fondi per promuovere comitati e pubblicazioni a favore del divorzio e per orientare in tal senso il mondo giuridico nazionale, all’interno del quale l’ordine liberomuratorio contava numerosi affiliati. Ma a nulla valse questo impegno contro l’imponente mobilitazione dei cattolici, che attraverso l’Opera dei congressi e altre strutture associative riuscirono ad arginare l’offensiva laicista e a impedire che la temuta innovazione fosse accolta dal parlamento35.
Almeno nei primi decenni postunitari, tuttavia, l’ostilità nei confronti della Chiesa non si tradusse necessariamente nell’affermazione di un sentimento di irreligiosità esasperata, di negazione del sacro e dell’idea di trascendenza, di identificazione in valori puramente materialistici e atei. Di ciò si trova conferma, per esempio, nella decisione, assunta a schiacciante maggioranza dall’assemblea del Goi svoltasi a Firenze nel 1869, di respingere la proposta avanzata dalla loggia Goffredo Mameli di Sassari, con la quale si chiedeva di sostituire la tradizionale invocazione massonica «Alla gloria del grande architetto dell’universo» (Agdgadu) con la formula «In nome della patria universale e del progresso infinito». Eloquente fu anche la tiepida accoglienza che il Goi riserbò nel 1869 all’appello di Giuseppe Ricciardi affinché le logge massoniche partecipassero in massa all’Anticoncilio di Napoli: una manifestazione a cui invece aderirono numerose logge del Supremo Consiglio del rito scozzese di Palermo, un’obbedienza massonica minore, che fu attiva fra il 1860 e il 1872 e si caratterizzò per una vivace militanza democratica e anticlericale36.
Quanto al movimento del libero pensiero, anch’esso largamente rappresentato all’Anticoncilio di Napoli (sebbene con alcune rilevanti defezioni), aveva allora pochi anni di vita. Il primo nucleo organizzato era stato infatti quello della Società democratica dei liberi pensatori di Siena, che nacque nel 1864 e pubblicò alcuni numeri di un settimanale, «Il libero pensiero», diretto da Francesco Cellesi. L’anno seguente furono costituite associazioni analoghe a Firenze e a Napoli, nell’ambito dei gruppi democratici che gravitavano intorno a Bakunin, e a Milano, quest’ultima destinata ad assumere la leadership del movimento grazie all’intensa attività organizzativa e pubblicistica di Luigi Stefanoni, che nel 1866 fondò e diresse la più importante rivista del movimento, «Il libero pensiero», avente come sottotitolo: «Giornale dei razionalisti».
Nella rivista milanese, e più in generale nel movimento del libero pensiero, i motivi del razionalismo materialista francese si combinarono con quelli del positivismo scientifico tedesco, con le teorie evoluzionistiche di Darwin e con la tradizione dell’anticlericalismo italiano. Il comune denominatore fu individuato nella lotta contro la Chiesa e contro la religione, ritenute i principali ostacoli sulla via del progresso e strumenti di oppressione di quei ceti popolari, in specie le donne, che erano meno attrezzati sul piano culturale e quindi più esposti all’influenza nefasta delle superstizioni. Sotto questo profilo, il libero pensiero trovò quindi non pochi elementi d’intesa sia con il nascente socialismo sia con le prime organizzazioni dell’emancipazionismo femminile37.
Non a caso il movimento conobbe un robusto sviluppo nei primi anni Settanta, in coincidenza con la crisi del mazzinianesimo, con la diffusione del primo internazionalismo e con gli entusiasmi suscitati dall’abbattimento del potere temporale. Garibaldi – l’ultimo Garibaldi del dissidio con Mazzini, delle simpatie internazionaliste, del viscerale anticlericalismo – divenne uno dei maggiori punti di riferimento delle società del libero pensiero, molte delle quali lo elessero presidente onorario, e delle varie obbedienze massoniche, di cui fu gran maestro. Il progetto politico dei suoi ultimi anni di vita fu proprio quello di unire nella comune battaglia per la laicizzazione e la modernizzazione dello Stato tutte le associazioni della sinistra democratica, la massoneria e il composito universo del libero pensiero. Nel nome di un anticattolicesimo dalle tinte accese e di un mito del progresso intriso di razionalismo umanitario chiamò a raccolta democratici e socialisti per combattere le forze della conservazione, in primis la Chiesa cattolica e il clero, e sollecitare la sinistra di governo a una più incisiva azione riformatrice38.
Grazie anche al contributo di un testimonial d’eccezione come Garibaldi, che per esempio sposò in pieno la causa cremazionista39, le rivendicazioni anticlericali e un certo costume laico nella vita quotidiana non furono più espressione di circoli esclusivi ed elitari, bensì cominciarono a diffondersi in strati sociali più larghi, borghesi e popolari, dapprima nell’Italia centro-settentrionale e poi anche nelle città del Mezzogiorno. I giornali davano sempre più frequentemente notizia di battesimi, matrimoni e funerali civili, di testimoni che nei processi rifiutavano di giurare sulla Bibbia e in nome della divinità, di associazioni che si adoperavano perché fosse rispettata la volontà dei propri soci di non ricevere l’estrema unzione. Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento tra i libri più venduti figurarono saggi e romanzi di sapore anticlericale; a teatro si rappresentarono pièces, come il Cristo di Giovanni Bovio, di identica ispirazione; la satira più corrosiva fu quella che aveva come bersaglio la Chiesa e i preti; feste religiose e ricorrenze patriottiche furono più volte occasione di scontri tra fazioni contrapposte di laici e cattolici intransigenti.
Talora, da una parte e dall’altra, si passò abbondantemente il segno del buon gusto e della civile convivenza. Ciò accadde, per esempio, nel novembre 1876, quando gruppi anticlericali dettero l’assalto alla salma del cardinale Antonelli, e più ancora nel luglio 1881, quando la traslazione delle spoglie mortali di Pio IX dalla basilica vaticana alla chiesa di S. Lorenzo offrì il pretesto ad alcuni esagitati per aggredire il corteo funebre dei fedeli, nei pressi di ponte S. Angelo, al grido di: «A fiume il papa porco», «Viva l’Italia», «Viva Garibaldi», «Morte ai preti»40.
Fu questo un periodo in cui le idealità laiciste parvero improntare e dominare l’intera vita nazionale. E il momento culminante si ebbe il 9 giugno 1889, quando a Roma, a Campo de’ Fiori, venne inaugurato il monumento aGiordano Bruno, il filosofo eretico che la Chiesa aveva condannato al rogo e che era ormai stato eretto a simbolo vivente del libero pensiero. Una folla immensa e migliaia di delegati di municipi, università, logge massoniche, società operaie e circoli culturali parteciparono all’avvenimento, che molti vollero leggere come il definitivo trionfo dell’Italia laica su quella cattolica. Stava a dimostrarlo anche la presenza alla guida del governo di un alto dignitario della massoneria, un anticlericale della prima ora, quel Francesco Crispi che ancora pochi anni prima aveva fondato la Pentarchia al motto «il nemico principale d’Italia è il prete»41 e che l’anno seguente avrebbe varato la legge che sanciva la laicizzazione delle opere pie.
In realtà, di lì a poco si sarebbe aperta una fase nuova nella vita politica della nazione, segnata dall’avanzata del socialismo e del movimento operaio e contadino, e conseguentemente dalla necessità per i ceti dirigenti di creare un blocco conservatore che potesse arginare tale minaccia. Da qui il dialogo e le prime forme di collaborazione fra liberali e clericali, che cominciarono a sperimentare a livello di amministrazioni locali quelle alleanze, dette per l’appunto «clerico-moderate», che all’inizio del Novecento si sarebbero progressivamente consolidate fino a tradursi nella rottura del non expedit e nell’ingresso dei cattolici nella compagine governativa.
Per il fronte anticlericale ciò significò una battuta d’arresto, ma non certo, o almeno non ancora, la smobilitazione. Anzi, se una parte di esso si irrigidì su posizioni oltranziste e volgari, come quelle che troviamo in tante pagine de «L’asino» di Podrecca e Galantara, la parte maggiore seppe rilanciare e diversificare la propria proposta inserendola nel disegno riformatore dei vari partiti di opposizione: radicali, repubblicani e socialisti. E proprio la comune identità anticlericale sarebbe stata il collante di tante amministrazioni bloccarde d’inizio Novecento, che svolsero indiscutibilmente una feconda azione modernizzatrice sul versante della municipalizzazione dei servizi pubblici, della scuola e delle politiche sociali.
L’irriducibile avversione per la Chiesa cattolica e per la religione, la proclamazione dell’ateismo e la dissacrazione dei simboli religiosi furono uno degli elementi distintivi del programma del movimento internazionalista, che al riguardo subì l’influenza del pensiero di Bakunin. Giornali e sezioni della Prima internazionale assunsero titoli come l’«Anticristo», il «Satana», «L’Ateo», «Il Lucifero», e, pur avendo nella maggior parte dei casi vita breve e tormentata, contribuirono non poco all’irradiamento delle idee anticlericali nelle classi popolari e piccolo-borghesi delle città italiane di fine Ottocento.
Questo orientamento antireligioso e ateistico, permeato di suggestioni positivistiche e materialistiche, fu fatto proprio anche dai primi nuclei del socialismo evoluzionistico. La «Plebe» di Lodi, il giornale diretto da Ettore Bignami che fu il capofila di questa corrente, guardò con grande favore al movimento del libero pensiero di Stefanoni e dal dicembre 1872 assunse la denominazione di «Giornale repubblicano – razionalista – socialista». Le medesime istanze le avremmo ritrovate, nel 1881, nel programma del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, il cui leader e ispiratore, Andrea Costa, nel 1883 avrebbe aderito alla massoneria, imitando in ciò Bignami e rappresentando fino alla morte, avvenuta nel 1910, un importante elemento di raccordo fra i socialisti e gli esponenti della democrazia radicale e repubblicana.
Da questa tradizione si discostò invece il Partito operaio italiano che subordinò la polemica antireligiosa all’emancipazione economica dei lavoratori attraverso la lotta di classe. E tale posizione fu quella adottata, almeno a livello ufficiale, dal Partito socialista, in seno al quale, su questi argomenti, prevalse la formula della religione come Privatsache («affare privato»), che fu sostenuta in particolare da Leonida Bissolati e mutuata dal programma di Erfurt del 1891 della socialdemocrazia tedesca. La questione della fede, osservava Bissolati in un articolo apparso sulla «Critica sociale» nel marzo di quell’anno, è «estranea alla nostra propaganda per la organizzazione del lavoro, indifferente alla nostra lotta per la socializzazione dei mezzi di produzione». Una volta sostituita la religione dal socialismo, aggiungeva Bissolati, e «abolito Dio nella pratica della vita quotidiana, il proletariato troverà molto facile abolirlo nel campo del pensiero astratto»42.
La laicizzazione dello Stato restava comunque fra gli obiettivi del Partito socialista e specie nella base degli iscritti e dei militanti le rivendicazioni anticlericali e l’avversione per la Chiesa cattolica erano assai radicate, certo ben più che fra i dirigenti nazionali. All’inizio del Novecento queste tendenze presero nuovo vigore, in coincidenza con la formazione di giunte clerico-moderate in alcune città e con il diffondersi delle organizzazioni sociali cattoliche e dei primi gruppi democratico-cristiani, la cui azione venne percepita come specificamente rivolta contro il socialismo. Un anticlericalismo popolare, dalle tinte accese, dai toni spesso volgari e offensivi prese rapidamente campo nella stampa socialista. Non ci fu giornale socialista, dall’«Avanti!» fino all’ultimo foglio di provincia, che non mettesse alla berlina preti e suore, che non denunciasse ogni sorta di scandalo vero o presunto in cui fosse coinvolto un religioso. Il più famoso fu un settimanale satirico, «L’asino» di Podrecca e Galantara, che grazie anche alle sue pagine a colori, alle vignette irriverenti, all’ironia greve ma pungente dei suoi autori, conobbe un largo successo di pubblico43. Sebbene qualche esponente socialista storcesse il naso di fronte a tanta trivialità (Arturo Labriola definì Podrecca un commerciante di «pornografia anticlericale»), il partito finì con l’identificarsi con la polemica anticattolica. Di fatto socialismo, ha scritto Ernesto Ragionieri, «fu sinonimo di anticlericalisimo, come l’adesione al partito socialista fu per ciascuno un atto simultaneo o di poco precedente la rottura con la chiesa cattolica»44.
Al di là delle dichiarazioni di principio, l’anticlericalismo entrò nella sfera della vita quotidiana dei militanti socialisti e si espresse in modo particolare nel rifiuto della dimensione religiosa nei grandi riti di passaggio dell’esistenza: la nascita, il matrimonio e la morte. I socialisti che morivano pretendevano il funerale civile e rifiutavano per sé e per i familiari l’assistenza del prete, manifestando così anche in punto di morte la fedeltà ai propri convincimenti ideali. Le sezioni socialiste vedevano nei funerali civili un «atto politico cui attribuire rilievo e significato, ed alcuni assunsero l’aspetto di vere e proprie grandi manifestazioni di volontà popolare»45.
Assai diffusi in ambito socialista e repubblicano erano poi i battesimi civili, che mettevano in scena una ritualità laica e libertaria alternativa a quella religiosa. Il rituale prevedeva che la cerimonia fosse officiata da un dirigente del partito, il quale, dopo aver versato del vino sulla fronte del neonato, pronunciava un discorso inneggiante ai valori della sinistra e infine imponeva un nome che si richiamava esplicitamente a quella tradizione ideologica. Questo «ignobile e mostruoso baccanale» – così definiva quel genere di cerimonie un esponente cattolico d’inizio Novecento46 – si concludeva con ovazioni e brindisi, e al canto di inni repubblicani e socialisti. Il rituale «stava dunque a significare simbolicamente l’ingresso del neonato nella comunità dei credenti nelle nuove fedi laiche e secolarizzate»47.
In effetti, se in alcuni statuti di associazioni repubblicane si arrivava persino a porre l’obbligo agli aderenti di non celebrare battesimi col rito religioso, nel mondo socialista vi era una maggiore varietà di posizioni e non mancavano anche coloro, come Camillo Prampolini, che stigmatizzavano queste pratiche e suggerivano di avere un atteggiamento più duttile e rispettoso per il sentimento religioso delle classi popolari48. Ma vi era anche chi, come Benito Mussolini, nell’aprile del 1910 riuscì a far approvare al congresso della federazione socialista forlivese un ordine del giorno nel quale si definiva «incompatibile la pratica della fede cattolica colla coerenza socialista» e si faceva «obbligo preciso ai socialisti di evitare il matrimonio religioso, il battesimo dei figli e tutte le altre cerimonie cultuali», decretando «la espulsione dal partito dei soci che seguono pratiche religiose o le tollerino nei figli». Nel medesimo anno il Congresso nazionale della gioventù socialista deliberava l’espulsione di «tutti quei giovani che si alternano a pratiche religiose che sono in aperto contrasto con le idealità finali del socialismo»49.
Nel volgere di qualche tempo, cementate anche dalla condivisione, nella quotidianità della militanza, di queste ritualità laiche, si crearono così le condizioni per l’individuazione, da parte dei socialisti, di un terreno d’intesa con i partiti democratici, per i quali l’anticlericalismo di lontana ascendenza risorgimentale continuava ad essere il principale elemento identitario. Un momento catalizzatore importante si ebbe nel 1904, quando per iniziativa del repubblicano e massoneArcangelo Ghisleri si tenne a Roma il congresso internazionale del libero pensiero, che si inaugurò il 20 settembre e contribuì a ridare slancio anche alle associazioni italiane. Altrettanto funzionale al percorso di avvicinamento fra socialisti e democratici fu la nuova campagna per il divorzio, che si sviluppò fra il 1901 e il 1904 e vide il Psi accantonare le sue remore di fronte all’ipotesi di dare il proprio sostegno a quella che taluni militanti consideravano ancora una rivendicazione essenzialmente ‘borghese’.
Quanto all’anticlericalismo di repubblicani e radicali, come ha osservato Arturo Carlo Jemolo, nello scorcio iniziale del Novecento si poneva
«su un terreno diverso da quello del Risorgimento, che era stato dominato dalla fiducia nell’arma legislativa. Questi poco o nulla chiedevano al legislatore, ma speravano nel potere esecutivo, nei consigli comunali, nei magistrati […]. In fondo erano paghi della giurisprudenza sulle frodi pie, delle soddisfazioni e dei successi che potevano assicurare loro le schermaglie nei consigli comunali o le delibere delle giunte provinciali amministrative»50.
Quando arrivarono alla guida delle giunte comunali, spesso insieme ai socialisti, fu proprio l’impronta anticlericale a connotare larga parte della loro attività. E fu l’inizio di un’estenuante contesa con i cattolici
«per impedire che nelle scuole elementari i genitori si giovino della facoltà loro accordata di richiedere aule scolastiche per l’istruzione religiosa dei figli; per impedire che preti o monache occupino cattedre in tali scuole; per far chiudere asili affidati alle suore; per eliminare il crocefisso nelle aule scolastiche; per sostituire negli ospedali le suore con personale laico; per ottenere la trasformazione di confraternite e in genere di opere pie che abbiano conservato un carattere confessionale; per inserire nei regolamenti di polizia urbana norme che limitino al minimo il suono delle campane, impedendolo ad esempio nelle ore notturne; per assoggettare gli ecclesiastici alla tassa di esercizio delle professioni; per l’apertura di nuovi forni crematori nei cimiteri; perché con il monopolio dei trasporti funebri i comuni tolgano alle confraternite (specie a quelle della Sicilia e del Mezzogiorno, ove tale loro attività più fiorisce) di provvedere ai funerali di confratelli»51.
Certo è che nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento l’anticlericalismo, variamente declinato, divenne un tratto distintivo non solo di chi si collocava politicamente a sinistra, ma anche di quanti più genericamente, specie nel Mezzogiorno d’Italia, inseguivano la modernità, la rottura con la tradizione, la ribellione anticonformistica contro i vincoli soffocanti della famiglia e dell’ambiente di origine.Jemolo ha dato un giudizio impietoso di questo anticlericalismo bloccardo. La sua, sostiene,
«era sostanzialmente un’azione disorganica: esso si esauriva in manifestazioni quotidiane, in continue punture di spillo al clero ed ai credenti, senza alcun intento costruttivo, alcuno sceveramento di obiettivi, negando in blocco tutti i valori che si affermavano nel campo avversario, colpendo dove c’era possibilità di colpire […]. Questo anticlericalismo becero finì di riverbero per abbassare agli occhi delle nuove generazioni tutto l’edificio dottrinale del Risorgimento […]. Aprì la strada a partiti i quali nel loro intimo già disconoscevano pressoché tutti i valori del Risorgimento, seppure ancora non avrebbero osato proclamarsi anti-Risorgimento»52.
Alla fine dei conti – è ancora la tesi di Jemolo – nonostante il grande agitarsi e l’accreditamento ottenuto nei circuiti accademici e culturali, gli anticlericali di quei primi anni del secolo XX non seppero produrre alcuna opera di dottrina giuridica davvero degna di nota, né riuscirono a far approvare qualcuna delle varie riforme laiciste di cui si discusse a lungo in parlamento e fuori. E in effetti, per limitarsi ai due esempi più rilevanti, il disegno di legge sul divorzio e sul riconoscimento della paternità presentato alla Camera nel 1902 dal presidente del ConsiglioZanardelli e dal guardasigilli Cocco Ortu non arrivò nemmeno alla discussione in aula e decadde con la chiusura della XXI legislatura. E un esito altrettanto negativo, nel 1908, ebbe il voto sulla mozione Bissolati per l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari: un provvedimento col quale il fronte anticlericale cercò invano di fare chiarezza, una volta per tutte, su una materia che il legislatore aveva mal definito, eliminando l’obbligo d’impartire il catechismo su richiesta dei genitori che era stato imposto ai comuni da un regolamento del 189553.
Jemolo, nondimeno, invita a non liquidare troppo sbrigativamente l’esperienza dell’anticlericalismo d’inizio secolo, poiché, afferma,
«chi lo sottovaluta – considerandolo, quale fu, un movimento fallito, che a nulla approdò, e che a tale titolo la storia potrebbe omettere di registrare – non riesce poi ad avere una visione equanime della condotta del clero e dei cattolici durante il fascismo»54.
Egli, in sostanza, vede nel progressivo irrigidirsi su posizioni sempre più radicali della componente laicista della sinistra una delle cause della formazione, di lì a poco, «di un saldo blocco conservatore, non cementato soltanto dall’interesse, ma anche dal disgusto che in molti, pur non cattolici, pur non credenti, generava la platealità anticlericale, la volgare intolleranza»55. Ma si chiede anche se nell’impari confronto tra le forze morali e materiali della Chiesa cattolica e quelle dell’universo liberale, l’anticlericalismo non rappresentasse, in fondo, l’ultimo ridotto del liberalismo ottocentesco, in modo che il suo crollo sarebbe stato fatalmente «il prodromo del regno guelfo»56.
È un giudizio, quello di Jemolo sull’anticlericalismo italiano fra Otto e Novecento, che pur cogliendo alcuni indiscutibili elementi di fatto, appare fin troppo ingeneroso: attribuisce alle correnti laiciste responsabilità che probabilmente non ebbero e sottovaluta il contributo che, con le loro ‘punture di spillo’, esse dettero allo svecchiamento della morale e dei costumi. È indubbio infatti che esso ebbe talora espressioni blasfeme e di grande trivialità, che contribuì a scavare un fossato incolmabile tra le forze della sinistra postrisorgimentale e socialista e il mondo cattolico, anche in quelle sue componenti più aperte a istanze di rinnovamento e più impegnate sul versante dell’associazionismo e del sindacalismo. Ma se la rivendicazione di alcuni diritti civili e di alcuni alti principi della civiltà laica e liberale (la scuola aconfessionale, il divorzio, la precedenza obbligatoria del matrimonio civile sul religioso, la tutela reale nella vita quotidiana dei diritti delle minoranze religiose e di chi non aveva alcuna fede) cominciò ad avere una circolazione più ampia fino a penetrare anche negli strati sociali più bassi delle città e delle campagne, ciò fu merito da ascrivere al movimento anticlericale. E se gli obiettivi non furono raggiunti o lo furono solo in minima parte lo si deve certamente all’inadeguatezza e alla frammentarietà dello schieramento laicista, diviso fra radicali, repubblicani e socialisti, e alla sua incapacità di trovare punti sostanziali di convergenza. Ma si deve anche, oltre che alla forza della Chiesa e del fronte cattolico più conservatore, alla sostanziale arretratezza socio-culturale del paese, che soltanto a distanza di qualche decennio sarebbe stato in grado di accogliere nel proprio ordinamento giuridico alcune delle riforme invocate dai gruppi anticlericali d’inizio secolo.
Le celebrazioni del cinquantenario dell’Unità, il cosiddetto ‘giubileo della Patria’, rappresentarono una sorta di ‘canto del cigno’ del movimento anticlericale, che ancora una volta, presentando la costruzione dello Stato nazionale come una vittoria della civiltà laica, cercò di accreditarsi come il più genuino interprete della tradizione risorgimentale e come la migliore espressione del sentimento patriottico. Emblematico, in tal senso, fu il discorso tenuto a Porta Pia, il 20 settembre 1910, dal sindaco di Roma Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d’Italia, contro il quale il papa Pio X e i cattolici levarono vibranti proteste.
Ma i tempi della svolta, nel rapporto fra cattolici e Stato liberale, erano ormai maturi e gli oltre duecento accordi elettorali stretti nel 1913 nell’ambito del patto Gentiloni ne offrirono eloquente conferma. L’impresa libica e laPrima guerra mondiale poi, se contribuirono a diffondere un atteggiamento patriottico nelle masse cattoliche accelerandone il processo di nazionalizzazione, infersero un duro colpo alla residua coesione del fronte anticlericale e posero fine alla stagione bloccarda. Tra i più tenaci sostenitori della necessità dell’ingresso in guerra dell’Italia contro la cattolica Austria vi furono infatti repubblicani, radicali, socialisti riformisti e il nuovo Partito democratico costituzionale; il Partito socialista invece restò fedele alla linea della Seconda Internazionale, senza cedere alle sirene del patriottismo. D’altro canto, se per un certo periodo poterono stabilirsi inattesi punti di contatto fra il pacifismo dei cattolici e l’antimilitarismo dei socialisti, gli interventisti democratici trovarono nelle posizioni assunte daBenedetto XV una conferma alle ragioni del loro anticlericalismo. La linea neutralista del Vaticano, le indubbie simpatie della Chiesa per gli Imperi centrali, sui quali essa contava anche per provare a rilanciare la questione romana, il pacifismo delle masse cattoliche: fra il 1914 e il 1915 tutto ciò offrì più di un motivo ai partiti democratici di matrice risorgimentale per dare una tinta anticlericale al loro interventismo. E accenti analoghi echeggiarono in quel periodo e oltre, specie dopo la «Nota» papale dell’agosto 1917 sulla «inutile strage», nelle logge massoniche e nel «Popolo d’Italia» di Mussolini.
L’anticlericalismo conobbe una nuova fiammata nell’immediato dopoguerra, quando alle sue componenti tradizionali, quelle di matrice democratico-socialista, se ne aggiunsero di nuove, come i futuristi e i primi Fasci di combattimento. Nell’ottobre 1919 Marinetti invocava lo «svaticanamento d’Italia» e appena un anno prima, nel settembre 1918, nel programma del movimento futurista era stata indicata la rivendicazione del divorzio e della completa laicizzazione della scuola. Il primo programma dei fasci di combattimento, come ha osservato Francesco Margiotta Broglio, rimase nell’«ambito di un certo separatismo anticlericale e confiscatore»57, ed espliciti motivi anticlericali figurano anche nella pubblicistica degli Arditi all’inizio del 1920. Una folta rappresentanza di questo mondo, com’è noto, si ritrovò a Fiume, dove, nel quadro delle pratiche ribellistiche e trasgressive che caratterizzarono la città sotto il governo dannunziano, furono adottati provvedimenti di natura anticlericale come la liberalizzazione del divorzio. E di questa possibilità approfittarono, in tempi diversi, personaggi come Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Guglielmo Marconi e Vilfredo Pareto58.
Ancora una volta la massoneria fu una sorta di collante di questo variegato universo politico e culturale, buona parte del quale finì poi col confluire nel nascente fascismo. Basti pensare a figure come Roberto Farinacci, che era stato iniziato in una loggia di Cremona nel 1915 e che anche dopo l’avvento del regime avrebbe sempre incarnato l’ala più ostile alla Chiesa cattolica. Oppure ricordare che i quattro quadrumviri della marcia su Roma – Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo – appartenevano anch’essi a logge massoniche. Come è ben noto, ciò non impedì a Mussolini già dal 1920 di abbandonare bruscamente la propria militanza anticlericale per adottare una politica di avvicinamento alla Chiesa cattolica che lo avrebbe portato nel 1929 alla firma dei Patti Lateranensi.
D’altro canto, diversi altri elementi contribuirono al rapido esaurirsi di quel sussulto anticlericale. In primo luogo il fatto che alla fine della Prima guerra mondiale la Chiesa e il papato, proprio in virtù della linea di equilibrio tenuta durante il conflitto, godevano di un nuovo prestigio sul piano internazionale. Non a caso, in molti paesi europei furono adottate significative modifiche delle politiche ecclesiastiche in senso favorevole ai cattolici. Anche in Italia, quale diretta conseguenza degli sconvolgimenti bellici, emerse inoltre una ripresa del sentimento religioso e dell’interesse per il sacro, che si espresse sia sul piano individuale che nei comportamenti collettivi. Agli occhi di quanti assistevano inquieti ai cambiamenti prodotti dalla guerra, non ultimo il pericolo di una propagazione a occidente della rivoluzione comunista, la Chiesa cattolica tornò poi ad assumere il ruolo di rassicurante ancoraggio ai valori della tradizione e della conservazione sociale.
Ma i mutamenti più importanti riguardarono gli ambienti culturali, nei quali, tramontata l’egemonia delle correnti razionaliste e positiviste, declinata l’influenza di quel carduccianesimo a cui aveva attinto larga parte del mondo anticlericale, acquisirono crescente rilievo tendenze di segno completamente diverso, aperte alla dimensione spirituale e religiosa. Rispetto all’anteguerra, infine, il quadro politico fu radicalmente cambiato dalla fondazione nel 1919 del Partito popolare, un avvenimento che Federico Chabod un trentennio più tardi avrebbe definito come il «più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente»59.
Si crearono così le condizioni per quella svolta conciliatorista, che sortì l’effetto di ricompattare larga parte della sinistra laica e democratica, a cui si aggiunsero figure del mondo liberale che fino a quel momento avevano guardato con fastidio alle intemperanze anticlericali, giudicandole retaggio di un lontano passato di scontri fra Stato e Chiesa che doveva considerarsi superato. Emblematico è il caso di Benedetto Croce, che in uno scritto del 1945 avrebbe dichiarato:
«Quanto al mio anticlericalismo, chi conosce i miei libri e articoli scritti fino ai primi anni del fascismo, cioè fino ai miei sessanta e più anni, sa che non solo non mi affannavo a far l’anticlericale, ma combattevo e irridevo il fastidioso e vacuo anticlericalismo della massoneria. La corda anticlericale vibrò per la prima volta nei miei scritti quando la Chiesa entrò in caldi amori col fascismo e il «duce» fu da essa proclamato «l’uomo della provvidenza», «privo di pregiudizî liberali», ecc»60.
La Conciliazione dell’11 febbraio 1929, in altre parole, ridette fiato alla protesta anticlericale, che divenne il comun denominatore, variamente declinato, dell’opposizione antifascista. Le critiche più dure vennero ovviamente da quei settori della sinistra, che da sempre avevano avuto il laicismo nel proprio codice identitario e che dall’aprile 1927 si erano raccolti nella Concentrazione antifascista, formata dal Partito socialista, dal Partito socialista riformista, dal Partito repubblicano, dalla Lega italiana dei diritti dell’uomo e dalla Confederazione generale del lavoro61. Nelle file dell’antifascismo democratico, respinte le richieste più radicali di chi, come Alceste De Ambris, voleva «eliminare il permanente pericolo per l’integrità e lo sviluppo civile della nazione costituito dalla presenza in Roma del papato»62, la firma dei Patti Lateranensi segnò dunque il ritorno all’invocazione di un regime separatistico. Fra i più possibilisti si segnalò Gaetano Salvemini, il quale, mentre si mostrò inflessibile sulla necessità di abolire il Concordato, si dichiarò disponibile a conservare il Trattato, cui attribuiva il merito di aver risolto la questione romana in termini sostanzialmente accettabili. Assai più aspre furono le reazioni dei socialisti, nel cui ambito non soltanto riprese vigore la polemica antiecclesiastica, ma si arrivò anche a rimettere in discussione la formula di Erfurt sulla religione come Privatsache. Per entrambi i filoni dell’opposizione antifascista, quello radical-repubblicano e quello socialista, fu chiaro inoltre che la conciliazione poneva fine a ogni possibilità di collaborazione con il cattolicesimo democratico, nei confronti del quale la rottura fu nettissima.
Uno spiccato anticlericalismo caratterizzò le posizioni di Giustizia e Libertà, la nuova formazione politica fondata da Carlo Rosselli nell’autunno del 1929, pochi mesi dopo la sua fuga dal confino di Lipari. Anzi, pur con qualche distinguo fra i vari dirigenti, il movimento di Giustizia e Libertà fu proprio quello che nel corso degli anni Trenta si orientò in maniera più esplicita su posizioni laiciste. E, considerati il ruolo che Giustizia e Libertà avrebbe poi avuto nella nascita del Partito d’azione e il retaggio che questo avrebbe lasciato nella cultura italiana del secondo Novecento, si può ben convenire con Roberto Pertici quando afferma che in questi anni ebbero origine «dinamiche culturali di lungo periodo, destinate a segnare la storia successiva del paese Italia»63.
Qualcosa di simile, sebbene di segno completamente opposto, può dirsi per l’evoluzione dell’atteggiamento del Partito comunista, che fin dalla seconda metà degli anni Trenta si segnalò invece per una linea di minore intransigenza nei confronti della Chiesa e per una parziale accettazione dei Patti del Laterano. Anche in questo caso si trattò infatti dell’anticipazione di una tendenza che avrebbe trovato conferma negli anni a venire e che avrebbe avuto il momento più emblematico, nel 1947, nella decisione da parte del Pci di votare a favore dell’articolo 7 della Costituzione.
Resta da dire infine che la Conciliazione del 1929 sortì l’effetto di rinfocolare l’anticlericalismo di alcuni settori del fascismo, che temevano l’eccessiva ingerenza della Chiesa nella vita nazionale e, conseguentemente, un rallentamento nel processo di fascistizzazione della società italiana64. Si fecero interpreti di queste posizioni alcune frange dell’intransigentismo, quelle più legate all’ideologia modernizzante e rivoluzionaria del primo fascismo, oltre che alcune frazioni del fascismo di origine liberale – non rilevanti dal punto di vista numerico, ma dotate di grande prestigio nel mondo intellettuale (basti soltanto pensare a una figura come Giovanni Gentile) – per i quali la formula separatistica cavouriana «doveva essere non solo fatta propria dal fascismo ma concretamente attuata come uno dei cardini essenziali dello “Stato etico” che il fascismo doveva realizzare»65. L’anticlericalismo fascista dette poi luogo a forme di protesta piuttosto vistose nel 1931, durante la crisi nel rapporto con la Chiesa, che fu originata dalla necessità per il regime di arginare le mire espansive dell’Azione cattolica e che culminò nella decisione diMussolini, il 29 maggio, di sciogliere tutte le associazioni giovanili cattoliche e di perquisirne le sedi.
Era opinione diffusa che la caduta del regime mussoliniano avrebbe notevolmente indebolito la posizione della Chiesa cattolica e restituito vitalità all’anticlericalismo militante. E in effetti, fra il 1942 e il 1943, nello schieramento antifascista si erano levate numerose voci per invocare la resa dei conti con il Vaticano. Fra i più oltranzisti figuravano alcuni esponenti dell’area che si andava raccogliendo intorno al nascente Partito d’azione, come Lionello Venturi e Riccardo Bauer. Persino Salvemini si irrigidì su una linea più intransigente rispetto a quella che aveva espresso negli anni precedenti e, pur dichiarandosi ancora favorevole al mantenimento del Trattato, invocò un suo ridimensionamento e misure punitive nei confronti della Chiesa.
Accadde invece che, limitatamente almeno al periodo fra il 25 luglio 1943 e il 25 aprile 1945, l’attesa ondata di anticlericalismo non si verificò. Anzi, secondo un osservatore attento comeArturo Carlo Jemolo, i due anni circa trascorsi tra l’abbattimento del regime fascista e la liberazione dell’Alta Italia rappresentarono «il periodo della maggiore distensione tra clero e cattolici politici da un lato, estrema sinistra dall’altro»66. In quel periodo vi fu una forte sintonia fra gli uomini di governo italiani e la Santa Sede, la quale – giova ricordarlo – non riconobbe la Repubblica di Salò e, per l’intensa attività svolta in campo umanitario e assistenziale, vide la propria posizione alla fine della guerra notevolmente rafforzata sia a livello internazionale che nella considerazione dell’opinione pubblica italiana.
Il Partito comunista, nei confronti del Vaticano e dei cattolici, non ebbe difficoltà a proseguire nella politica della ‘mano tesa’, che era stata inaugurata da Togliatti a metà degli anni Trenta. Così, in una dichiarazione ufficiale del Pci datata 30 settembre 1944, si definiva la libertà di religione «una questione di principio» e si ribadiva che i comunisti erano «sempre stati avversari della lotta anticlericale che fu un tempo tradizionale in certi ambienti politici del nostro Paese»67. Persino l’«Avanti!» nel giugno 1945 parlava di «sepoltura dell’anticlericalismo» e, sul medesimo giornale, alcuni mesi prima Fausta Giani aveva scritto: «L’anticlericalismo che oggi ci si imputa è tramontato come è tramontato nel campo scientifico e filosofico, che ne erano imbevuti come quello politico quando il nostro movimento si formò»68.
Nondimeno, fin dalla vigilia del 25 aprile e soprattutto a partire dal 1946, quando si riaccese la competizione fra i partiti in vista delle varie scadenze elettorali e cominciò a profilarsi il ruolo centrale della Dc nel sistema politico italiano, si registrò una nuova fiammata anticattolica e antireligiosa, che in alcune località, come in Emilia-Romagna, assunse connotati estremi e dette luogo a vendette e violenze contro preti e vescovi. Già nel febbraio 1945 Igino Giordani, in un articolo apparso sul giornale dell’Azione cattolica, poté così parlare di «rigurgiti d’anticlericalismo», che si accentuarono dopo le istruzioni impartite ai vescovi dalla Concistoriale di Pio XII. Essa faceva obbligo ai cattolici di recarsi alle urne e di dare il loro voto soltanto a quei candidati e a quei partiti che si fossero impegnati a difendere «l’osservanza della legge divina e i diritti della Religione e della Chiesa nella vita privata e pubblica»69.
La massoneria, che avviò il proprio iter di rifondazione all’indomani del 25 luglio, cercò ancora una volta di farsi interprete degli umori laicisti che allignavano nel mondo liberal-democratico e socialista e di proporsi, come già era avvenuto per tutta l’età liberale, quale luogo d’incontro e di mediazione fra le varie forze politiche che in esso gravitavano. Anche il Grande Oriente d’Italia, peraltro, prese le distanze dalla tradizione anticlericale del periodo prefascista e il primo gran maestro eletto dopo la liberazione, Guido Laj, nel suo discorso d’insediamento del novembre 1945 si preoccupò anzitutto di smentire la «leggenda» di una massoneria «dipinta come un’accolta d’atei, di bestemmiatori, di senza-Dio, a null’altro intenti che a distruggere il sentimento religioso e la legge morale»70. Occorre dire, in ogni caso, che nel nuovo contesto sociale e politico del secondo dopoguerra la massoneria avrebbe giocato un ruolo tutto sommato marginale, e comunque non comparabile con quello che aveva svolto nell’età liberale. Il declino stesso della sua capacità di influenzare la sfera pubblica può essere interpretato come un indicatore del tramonto delle istanze anticlericali nella società e del venir meno del laicismo come tratto identitario di un ampio segmento del fronte politico, che andava dai liberali alla sinistra democratica e socialista. Come già in passato, inoltre, la massoneria del secondo dopoguerra non si identificò con un solo partito, né fu in grado di vincolare i propri affiliati al perseguimento di determinati obiettivi politici. A tal proposito, non pare irrilevante ricordare che tra coloro i quali votarono a favore dell’art. 7 della Costituzione, con cui nel marzo 1947 si sancì la «canonizzazione costituzionale» dei Patti Lateranensi, vi furono alcuni illustri costituenti che vantavano lunghi trascorsi massonici. Valgano per tutti i nomi del demolaburista Meuccio Ruini e del liberale Epicarmo Corbino71.
L’acme della mobilitazione anticlericale si raggiunse fra l’autunno del 1946 e la primavera del 1947, quando videro la luce anche alcuni fogli satirici che cercarono di rinverdire la tradizione de «L’asino». Il più noto di essi fu il «Don Basilio», che si stampò a Roma dal 12 settembre 1946 e nel volgere di un paio di mesi arrivò a tirare ben 130 mila copie, vendendone trentamila nella sola capitale72. Quali fossero i suoi bersagli polemici apparve chiaro fin dal primo numero, su cui campeggiava il titolo a caratteri cubitali De Gasperi è un fantoccio manovrato dalla Compagnia di Gesù, seguito da articoli in cui si attaccava il clero e si insisteva sulla sottomissione del governo agli interessi del Vaticano. A questo settimanale, che cessò le pubblicazioni nell’aprile 1950, si affiancò dal dicembre 1946 «Il Mercante», che si stampò nella stessa tipografia del «Don Basilio» e a distanza di tre mesi vantava una tiratura di quarantamila copie. Lo stesso gruppo di collaboratori del «Don Basilio» e de «Il Mercante» dette poi vita nel novembre 1946 a «Il Pollo», un periodico socialista diretto da Ruggero Maccari che già il mese seguente fu condannato a due anni di reclusione «per offesa alla religione e al clero e per pubblicazioni oscene». Il successo di queste testate indusse il fronte clericale a correre ai ripari e a pubblicare a sua volta un giornale satirico, «Il Rabarbaro», che nel maggio 1947 tirava cinquantamila copie ed ebbe come redattore responsabile Lamberto De Camillis, giornalista dell’«Osservatore romano» e del «Quotidiano», organo dell’Azione cattolica73.
L’importanza di questi fogli trascende la modestia dei loro contenuti e la trivialità delle argomentazioni. Tra il 1946 e il 1947 essi fecero infatti da volano alla diffusione di un movimento anticlericale, che assunse veste organizzata e si irradiò in quasi tutto il paese. In almeno 45 province e 55 località si costituirono in rapida successione circoli di «Amici di Don Basilio», intorno ai quali nacquero altre associazioni che svolsero un’intensa campagna anticlericale. Ad Acqui, per esempio, nell’autunno del 1947 si formò un’Unione proletaria sovversiva anticlericale; a Novara fu attivo un circolo dell’Associazione nazionale libero pensiero; a Carrara all’inizio del 1947 si costituì un Circolo Giordano Bruno che ammetteva come soci «gli anticlericali dai 15 anni compiuti»; a Firenze operò un sedicente Movimento d’azione anticlericale; a Livorno, fin dall’agosto 1945, ricomparve il Gruppo antireligioso Pietro Gori; a Volterra nell’ottobre 1947, per iniziativa del Gruppo libero pensiero «Amici di Don Basilio» si svolse una «settimana anticlericale». Uno dei nuclei più importanti fu il Movimento anticlericale per la laicità dello Stato, che sorse a Roma nel dicembre 1946 presso la sede del «Don Basilio». Ne raccolse l’eredità un sodalizio quasi omonimo, il Movimento italiano per la laicità dello Stato, che vide la luce a Milano, nel novembre 1947, nella sede dell’Associazione lombarda pro-divorzio74.
Il voto sull’art. 7 sancì la bruciante sconfitta di queste frange anticlericali e al tempo stesso rivelò quanto esse fossero ormai marginali in un quadro politico nazionale, che proprio in quell’occasione vide chiudersi definitivamente la questione romana e i cattolici assumere un ruolo chiave nelle istituzioni e nel sistema politico del nuovo Stato repubblicano. Per quanto minoritarie, le correnti laiche esprimevano comunque istanze assolutamente legittime, che esse avvertivano come signacolo di libertà e di democrazia, e nella cui negazione videro una forma di perpetuazione dell’autoritarismo fascista contro la quale occorreva riprendere la lotta. Quel voto, che pure divise anche i partiti laici di matrice liberal-democratica e socialista, lasciò dunque una ferita aperta e non riuscì certo a colmare la frattura fra laici e cattolici che aveva caratterizzato tutta la storia dell’Italia unita. Rispetto al 1870 le parti si erano invertite, e gli sconfitti di oggi, gli anticlericali, rispetto ai cattolici di allora rappresentavano una quota affatto marginale della società. Ma negli anni Cinquanta essi sarebbero stati capaci di levare alta la propria voce, trovando forme di comunicazione molto efficaci e alimentando un movimento culturale e politico che si pose come duraturo punto di riferimento dell’opinione pubblica laica e democratica del paese.
Dietro il rilancio delle battaglie anticlericali degli anni Cinquanta vi fu indubbiamente un moto d’insofferenza verso la cappa di conformismo clericale che soffocò la società italiana. Un liberale non certo sospettabile di eccessiva indulgenza verso l’anticlericalismo di vecchio stampo, come Arturo Carlo Jemolo, parlò a più riprese di «regime clericale», di «società confessionale», di «Stato guelfo». In effetti, si discusse molto in quegli anni se lo Stato italiano avesse acquisito una fisionomia compiutamente confessionale. Piero Calamandrei, per esempio, in un numero de «Il Ponte» apparso nel giugno 1950 e dedicato a Chiesa e democrazia, arrivò a parlare di «Repubblica pontificia», denunciando la formazione in Italia di una «dittatura sorda», di un «vero e proprio stato pontificio» nel quale i cittadini erano ridotti a sudditi del papa, che agiva come un «sovrano assoluto»75. E «Il Ponte», specie sotto la direzione di Calamandrei (scomparso nel settembre 1956) fu una delle riviste che tra la fine degli anni Quaranta e la metà del decennio successivo dette maggior spazio alla battaglia per la difesa della laicità76.
Nonostante la «scomunica dei comunisti» – il decreto del Santo Officio del 1° luglio 1949 che escluse dai sacramenti quanti facevano propaganda comunista o semplicemente leggevano libri e giornali comunisti, e dichiarò apostati dalla fede cattolica e scomunicati coloro che seguivano quella dottrina – il Pci non modificò il proprio atteggiamento di apertura verso la Chiesa cattolica e non si aggregò alle proteste anticlericali. Nel novembre 1949, si tenne invece un convegno del Partito socialista «per la laicità dello Stato e della scuola», che segnò il convinto rilancio da parte del Psi delle tematiche laiciste e la riaffermazione di una politica ecclesiastica d’impronta separatistica. La parola d’ordine adottata dal convegno fu «libertà della Chiesa e libertà dalla Chiesa», e furono posti come obiettivi da perseguire l’abolizione dell’insegnamento religioso nella scuola e la revisione del Concordato. Nell’immediato il convegno non produsse risultati concreti, ma confermò la diversa sensibilità dei socialisti per la questione laica e offrì loro la possibilità di smarcarsi dall’appiattimento sul programma comunista che la scelta frontista aveva provocato.
Tuttavia, nel decennio in cui fu più opprimente l’invadenza ecclesiastica in ogni ambito della vita civile, alla ripresa del movimento anticlericale concorsero non tanto i partiti, quanto alcuni cenacoli intellettuali e alcuni gruppi giornalistico-editoriali che con le loro iniziative vivacizzarono la cultura italiana e il dibattito politico. Il più celebre di questi cenacoli fu quello che si raccolse intorno a «Il Mondo», il settimanale fondato da Mario Pannunzio nel febbraio 1949, che divenne il portavoce di quella sinistra liberale che si riconobbe nella scelta atlantica e si batté per un’autentica modernizzazione in senso laico del paese, avversando contemporaneamente sia il potere clericale che il totalitarismo comunista77.
L’anticlericalismo del gruppo pannunziano da un lato si richiamò alla tradizione risorgimentale e tardo-ottocentesca, dall’altro si manifestò attraverso modalità organizzative e comunicative ben diverse. Dalle battaglie laiciste del secolo XIX ereditò la volontà propositiva, il fatto cioè di non limitarsi a un mero impegno contro il clero, la struttura ecclesiastica o la stessa religione cattolica; bensì di caratterizzarsi per la rivendicazione di riforme politiche e civili che dovevano produrre uno svecchiamento dei costumi, un rinnovamento della morale, un avvicinamento dell’Italia alla cultura e agli stili di vita delle democrazie europee più evolute. Il clericalismo da combattere era quello che si annidava nel familismo, nell’attitudine al malcostume e alla corruzione, in certe incrostazioni di tradizionalismo e di arretratezza che impedivano al paese di sposare l’etica dell’individualismo liberale.
Quanto alle modalità di comunicazione, esse trovarono il loro principale canale espressivo non nel linguaggio irriverente e blasfemo dei fogli satirici, ma in periodici come «Il Mondo» e «L’Espresso», che innovarono profondamente il giornalismo italiano e divennero la lettura obbligata di un vasto segmento dell’opinione pubblica che si riconosceva nei valori della cultura laica e liberale. Le tematiche laiciste furono difese anche attraverso alcune iniziative, come i convegni degli Amici de «Il Mondo», il sesto dei quali si tenne a Roma il 6 e 7 aprile 1957 ed ebbe vastissima risonanza. In tale occasione Gaetano Salvemini, che proprio alle pagine de «Il Mondo» affidò le sue ultime polemiche anticlericali78, inviò un messaggio nel quale sollecitava i presenti a far propria l’idea dell’«abolizione totale» del Concordato e a mantenere una vigile attenzione sull’operato della Dc, i cui «imbrogli», a suo avviso, rischiavano addirittura di trasformare quello italiano «da regime democratico a regime totalitario»79.
Nel convegno si udirono voci più moderate, come quella di Ugo La Malfa, che presiedette i lavori, e quella di Luigi Salvatorelli. Ma alla fine passò la linea oltranzista di Salvemini, che venne recepita sia nelle conlusioni diLeopoldo Piccardi che nella mozione finale presentata da Ernesto Rossi. Piccardi, in particolare, formulò un’orgogliosa rivendicazione dell’identità anticlericale che andava nel senso poc’anzi accennato: non solo opposizione intransigente al clericalismo, ma difesa senza alcuna remora dei valori della laicità, che dovevano essere considerati positivi in sé.
Queste istanze furono recepite nella mozione conclusiva stilata da Ernesto Rossi, nella quale si faceva appello «a tutte le persone oneste di ogni tendenza, pensose dei pericoli del clericalismo», affinché sollevassero una «energica protesta» e, mostrando qual era veramente «il comune sentimento liberale e risorgimentale del popolo italiano», creassero le condizioni per consentire «l’abrogazione del Concordato e la instaurazione di un ordinamento giuridico di netta separazione dello Stato dalla Chiesa»80.
I lavori del convegno, a cui seguì una sessione aggiuntiva svoltasi a Firenze il 14 giugno 1957, videro una larga partecipazione di pubblico ed ebbero vasta eco sia nel mondo intellettuale che in quello politico. Le reazioni, però, furono perlopiù negative, e non solo nel mondo cattolico, compresi gli ambienti più aperti al confronto con i laici, ma anche in quello democratico-liberale. Il convegno, quindi, ebbe un esito contraddittorio: da una parte si rivelò un successo sul terreno mediatico e pose la questione del pericolo clericale all’attenzione dell’opinione pubblica italiana; dall’altra evidenziò l’isolamento politico del gruppo de «Il Mondo» e l’impraticabilità dell’ipotesi di costruire un’alleanza delle forze laiche come alternativa al governo centrista democristiano.
L’impegno anticlericale restò così appannaggio di un solo partito, quello radicale, che era sorto nel dicembre 1955 da una scissione della sinistra riformista del Partito liberale, contraria alla linea politica del segretario Giovanni Malagodi. Uno degli esponenti di punta di quel partito fu Ernesto Rossi, l’antifascista che nel 1943, al confino di Ventotene, aveva scritto con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli il Manifesto per l’Europa unita e federale. Rossi legò la sua adesione al Partito radicale proprio all’impulso che la nuova formazione politica poteva dare alla lotta anticlericale, che assunse un ruolo centrale nella sua attività pubblica e di cui egli divenne nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta il maggiore fautore. Oltre ad affidare i suoi pungenti articoli a «Il Mondo», a «L’Espresso», a «Il Ponte» e ad altri giornali e periodici d’intonazione laica, Rossi promosse la pubblicazione, presso la casa editrice fiorentina Parenti, dell’importante collana «Stato e Chiesa», di cui uscirono quindici volumi fra il 1957 e il 196281.
La chiusura della collana coincise con una fase di crisi e di ripiegamento del movimento anticlericale. Si era allora alla vigilia della nascita del primo governo di centro-sinistra, in un quadro politico e sociale molto diverso da quello di pochi anni prima, segnato dalla flessione del potere clericale e dai fremiti di rinnovamento che percorrevano la Chiesa del concilio Vaticano II, oltre che dalla grande trasformazione prodotta dal miracolo economico. La società si andava rapidamente secolarizzando e nel mondo cattolico le correnti più aperte e progressiste avevano assunto un ruolo preminente. Agli anticlericali, per così dire, venne improvvisamente a mancare il nemico: «non trovandosi più contro un clericalismo aggressivo e prepotente»82 vennero meno anche le ragioni della loro esistenza. E persino quegli editori che fino a quel momento avevano prestato un certo interesse per le tematiche laiciste abbandonarono del tutto l’argomento.
Nel 1962 una crisi sconvolse pure il Partito radicale, dal quale Rossi si dimise nel giugno di quell’anno, definendo poi ciò che di esso sopravvisse «una barchetta sfasciata alla deriva», un gruppo di «giovani senza uomini, senza quattrini, senza idee chiare»83. In effetti, nel nuovo Partito radicale guidato da Marco Pannella confluirono alcune decine di giovani che si erano formati in organizzazioni universitarie come l’Unione goliardica italiana e l’Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana. Rispetto alla precedente esperienza, esso introdusse uno spiccato elemento di «discontinuità non solo e non tanto nelle tematiche politiche quanto piuttosto nell’ispirazione culturale e nello stile d’azione». La novità, ha osservato Massimo Teodori, «fu che il gruppo diPannella si alimentava di uno spirito antimilitarista, antiautoritario e nonviolento che travalicava di gran lunga i binari del liberalismo classico». Lasciatosi alle spalle lo stile elitario de «Il Mondo», i nuovi radicali «erano in grado di cogliere consensi anche nelle fasce giovanili sospinte dal ribellismo esistenziale dovuto più a motivi di “liberazione individuale” che non alle ideologie marxiste»84.
Il partito di Pannella ereditò però anche la tradizione pannunziana e salveminiana, e fece della battaglia per la laicità uno dei temi qualificanti del suo programma. Ma anche sotto questo profilo introdusse una novità sostanziale: puntò cioè su quelle riforme laiche che non erano state possibili né nell’Italia liberale né nel primo ventennio repubblicano, e su queste cercò di mobilitare sia gli strati sociali più aperti che i partiti laici e di sinistra. Anche Ernesto Rossi negli ultimi mesi della sua vita avrebbe perciò trovato motivo per riavvicinarsi ai radicali, aderendo alla campagna in favore del divorzio e sposando in pieno l’idea di proclamare il 1967 «anno anticlericale». Anzi, egli morì proprio tre giorni prima dell’evento inaugurale delle manifestazioni, un’assemblea pubblica al teatro Adriano di Roma che avrebbe dovuto presiedere il 12 febbraio 196785.
Nel dicembre 1965 i radicali, insieme ad alcuni socialisti, fondarono la Lega italiana per il divorzio. Il suo scopo era quello di sostenere, con un’efficace campagna d’opinione, il cammino parlamentare della proposta di legge Casi di scioglimento del matrimonio, che era stata presentata un paio di mesi prima, il 1° ottobre 1965, dal deputato socialista Loris Fortuna. Fu l’inizio di una lunga vicenda che avrebbe portato nel dicembre 1970 all’approvazione della legge Fortuna-Baslini, che introdusse il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano, e quattro anni dopo alla più importante affermazione dei laici nella storia dell’Italia repubblicana: il fallimento del referendum abrogativo voluto dalla Chiesa cattolica e dalla Dc, con l’ingombrante sostegno del partito neofascista, il Movimento sociale italiano (Msi)86.
Fu quello un periodo, fra gli anni Sessanta e Settanta, durante il quale, in virtù dei cambiamenti sociali, politici e culturali che avevano investito il paese, si crearono le condizioni favorevoli per un processo di profonda laicizzazione della società italiana. Esso si manifestò attraverso l’approvazione di un vasto corpus normativo, che riguardò alcuni dei tradizionali ambiti nei quali si era sviluppata la contesa fra laici e cattolici e introdusse significativi elementi di modernizzazione e di liberalizzazione nell’ambito pedagogico-educativo e nella sfera dei diritti civili. Basta richiamare alla mente la legge sulla scuola media obbligatoria del 1962, quella sull’istituzione della scuola materna statale del 1968 e nel medesimo anno la riforma ospedaliera, quella sull’obiezione di coscienza del 1972, la riforma del diritto di famiglia del 1975 con la correlata istituzione dei consultori familiari, e infine la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1978, poi confermata da un duplice referendum abrogativo nel 198187.
Su un altro ambito, emblematico dei mutamenti avvenuti nella sfera della morale e dei costumi privati, e anche questo oggetto di un’accesa contrapposizione fra laici e clericali, è poi da ricordare l’autorizzazione alla vendita delle pillole anticoncezionali Pincus, che fu concessa nel 1967 dal ministro della Sanità, il socialista Luigi Mariotti. Essa favorì la diffusione del nuovo metodo contraccettivo, che fino a quel momento era stata ostacolata da vecchie leggi fasciste che consentivano l’utilizzo della pillola soltanto come farmaco ginecologico.
In tale contesto ci fu spazio anche per una ripresa della campagna per l’abolizione del Concordato. A rilanciarla furono i radicali, che nel giugno 1969 proposero un referendum popolare abrogativo e nel febbraio 1971 costituirono la Lega italiana per l’abrogazione del Concordato. Ma l’idea di una revisione del Concordato tornò a trovare qualche spazio, già negli anni Sessanta, anche nell’agenda politica del Partito comunista. Ciò accadde dopo la clamorosa vicenda del processo al vescovo di Prato, querelato per aver definito «concubini» due cittadini che si erano sposati con rito civile. Dipanatasi fra il 1956 e il 1959 e conclusasi con l’assoluzione in appello di monsignor Pietro Fiordelli, essa ebbe vastissima risonanza mediatica e dette luogo a uno scontro durissimo fra laici e cattolici, a cui anche il Pci non poté sottrarsi, non foss’altro perché la questione riguardò un suo tesserato e si svolse in una delle città ‘rosse’ della Toscana.
Alla revisione del Concordato si arrivò soltanto nel 1984, dopo un percorso lungo e travagliato, con gli accordi di Villa Madama del 18 febbraio, che furono firmati dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal segretario di Stato vaticano, monsignor Agostino Casaroli. In parlamento l’ipotesi di accordo fu approvata con una maggioranza schiacciante e il voto positivo di quasi tutte le formazioni politiche, compresi i cosiddetti ‘partiti laici minori’ (liberali, repubblicani e socialdemocratici) e con l’opposizione soltanto dei radicali e di qualche isolato esponente della sinistra indipendente, erede della tradizione azionista e salveminiana. Ai loro occhi il nuovo Concordato, sebbene eliminasse alcuni degli aspetti più anacronistici dei Patti Lateranensi – come la definizione della religione cattolica quale religione di Stato o la dichiarazione del carattere sacro della città di Roma – sulle questioni sostanziali conservava l’impianto del 1929. E soprattutto rappresentava la sconfitta dell’ipotesi abrogazionista e il definitivo accantonamento dell’idea di impostare le relazioni fra Stato e Chiesa su basi separatistiche.
Il Concordato del 1984 rappresentò una sorta di spartiacque fra il periodo dei grandi movimenti collettivi per i diritti civili e la fase successiva, che di fatto non si è ancora chiusa, in cui la questione delle riforme laiche è stata progressivamente espunta dall’agenda politica. Si è prodotto l’apparente paradosso di una società che ha conosciuto una radicale laicizzazione dei costumi e dei comportamenti individuali, all’interno della quale, però, sono quasi del tutto scomparse non solo le istanze anticlericali, ma anche la rivendicazione di un approccio autenticamente laico ad alcune riforme che investono la sfera dei diritti dell’individuo. È sufficiente ricordare quanto è avvenuto, in tempi recenti, su tematiche come la procreazione medicalmente assistita, sulla quale il fronte laico subì una pesante sconfitta nei referendum del giugno 2005, e come il finanziamento pubblico alla scuola privata, il testamento biologico, il riconoscimento legale delle coppie di fatto e delle coppie omosessuali, l’utilizzo delle cellule staminali per la ricerca scientifica.
La crisi del sistema politico italiano seguita allo scandalo di Mani Pulite del 1992 ha portato alla scomparsa di quasi tutti i partiti della cosiddetta prima Repubblica. Tuttavia, mentre dei partiti laici e delle loro idealità si è persa ogni traccia, l’eredità culturale e programmatica della Dc, il ‘partito unico dei cattolici’, è passata a un vasto fronte di forze politiche che percorre trasversalmente lo schieramento della destra e della sinistra. Dopo la stagione delle riforme civili degli anni Sessanta e Settanta l’anticlericalismo è di fatto scomparso e, dopo la svolta del Partito radicale del 1979, che cominciò a relegare in secondo piano la questione laica per dedicarsi a battaglie transnazionali come quella contro la fame nel mondo, ha perso ogni riferimento nei partiti e nelle forze presenti in parlamento. Ha dato cenno di vita solo con qualche fiammata episodica, perlopiù legata a iniziative culturali e mediatiche, quali la programmazione televisiva del Mistero buffo di Dario Fo nel 1977 o l’uscita nelle sale cinematografiche di qualche film graffiante e irriverente come Il Pap’occhio di Renzo Arbore nel 1980. Anche la stampa satirica anticlericale, che un tempo era stata un genere fecondo, si è gradualmente estinta. Al settimanale «Il Male», che si pubblicò con grande successo fra il 1977 e il 1982 ed ebbe una serie infinita di sequestri e di processi, non sono subentrati di fatto altri periodici, ove si escluda, ma con minori ambizioni e su un livello assai più volgare, il «Vernacoliere» di Livorno, che si stampa ancora oggi.
L’anticlericalismo, sostanzialmente accantonato anche dalle principali organizzazioni massoniche, rimane perciò al centro dell’attività soltanto di alcune piccole associazioni, come quella del libero pensiero intitolata a Giordano Bruno, o di isolati gruppi atei e materialisti, che svolgono una funzione di mera testimonianza.
1 G. Verucci, Cattolicesimo e laicismo nell’Italia contemporanea, Milano 2001, p. 215. Il libro di Verucci a cui ci si riferisce è naturalmente L’Italia laica prima e dopo l’Unità. Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Roma-Bari 1981.
2 P. Scoppola, Laicismo e anticlericalismo, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di storia della Chiesa (La Mendola, 1971), Relazioni, II, Milano 1973, p. 225.
3 Cfr. R. Rémond, Anticlericalism: Some Reflections by Way of Introduction, in Anticlericalism, special issue della «European Studies Review», 13, 2, April 1983, pp. 121-126; Id., L’Anticléricalisme en France de 1815 à nos jours (1976), Paris 19993.
4 R. Rémond, L’Anticléricalisme en France, cit., p. 4.
5 J. Lalouette, La République anticléricale, XIXe-XXe siècles, Paris 2002, pp. 10-11.
6 M. Guasco, Clericalismo, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino 1983, p. 164.
7 G. Verucci, Anticlericalismo, in Dizionario di politica, cit., p. 22.
8 Cfr. P. Scoppola, Laicismo e anticlericalismo, cit., pp. 229 segg.; F. Traniello, Clericalismo e laicismo nell’età contemporanea, in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1998, pp. 20 segg.
9 G. Rigutini, P. Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata, Firenze, Tip. Cenniniana, 1875, ad vocem.
10 Cfr. S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, VIII, Torino 1973, pp. 697-698.
11 J.P. Viallet, L’anticléricalisme en Italie (1867-1915): historiographie et problématiques de recherche, «Mélanges de l’École Française de Rome», in corso di stampa. Ringrazio il prof. Jean-François Chauvard per avermi consentito di leggere in anteprima il dattiloscritto, che costituisce l’introduzione della tesi di dottorato di Viallet, rimasta inedita, realizzata sotto la direzione di René Rémond e discussa nel 1992 (cfr. J.P. Viallet, L’anticléricalisme en Italie (1867-1915), thèse pour le doctorat d’État, Paris X-Nanterre, 1992, 8 voll., pp. 2813). Di Viallet, su questi temi, si vedano inoltre: Anatomie d’une obédience maçonnique: le Grand-Orient d’Italie (1870-1890 circa), «Mélanges de l’École Française de Rome, Moyen Âge-Temps Modernes», 1978, 1, pp. 171-237 Anticléricalisme et laïcité. Bilan historiographique, ibidem, 1986, 2, pp. 837-862; L’anticléricalisme de Garibaldi, in Hommes, idées, journaux. Mélanges en l’honneur de Pierre Guiral, Paris 1988, pp. 457-476.
12 W. Maturi, Laicismo, in Dizionario di politica, Istituto della Enciclopedia Italiana, II, Roma 1940, p. 700.
13 Cfr. G. Spini, Risorgimento e protestanti, Napoli 1956; Id., L’Evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa cristiana libera in Italia, 1870-1904, Torino 1971.
14 Cfr. G. Galasso, Le Repubbliche italiane del Sismondi e il Risorgimento, in Le passioni dello storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, a cura di A. Coco, Catania 1999, pp. 221-242.
15 Cfr. R. Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia, Roma-Bari 2008; S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari 2010.
16 Cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino 2000.
17 L’anticlericalismo nel Risorgimento (1830-1870), a cura di G. Pepe, M. Themelly, Manduria 1966, pp. CII-CIII.
18 Ibidem, p. CIII.
19 G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità, cit., p. 8.
20 Cfr. L. Bulferetti, Socialismo risorgimentale, Torino 1949, pp. 359-363; G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità, cit., pp. 26-34.
21 Su questi aspetti rimando fin da ora a F. Conti, Cavour, il mondo cavouriano e la risorgente massoneria, in corso di stampa negli atti del LXIV Congresso di storia del Risorgimento (Alessandria 2009). Più in generale cfr. F. Conti, Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo, Bologna 2003.
22 Sul giornale lo studio più esaustivo resta quello di B. Gariglio, Stampa e opinione pubblica nel Risorgimento. «La Gazzetta del Popolo» 1848-1861, Milano 1987. Si vedano inoltre V. Castronovo, Giornalismo e giornalisti piemontesi nel decennio postunitario, in Il giornalismo italiano dal 1861 al 1870, Torino 1966; Atlante della stampa periodica del Piemonte e della Valle d’Aosta (1798-1989), a cura di R. Allio, Torino 1996; E. Bricchetto, La «Gazzetta del Popolo» nella capitale d’Italia (1861-1864), in La nascita dell’opinione pubblica in Italia. La stampa nella Torino del Risorgimento e capitale d’Italia (1848-1864), a cura di V. Castronovo, Roma-Bari 2004, pp. 147-203.
23 F. Conti, s.v. Govean, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LVIII, Roma 2002, pp. 166-168.
24 Cfr. F. Ruffini, La giovinezza del Conte di Cavour. Saggi storici secondo lettere e documenti inediti, I, Torino 1912.
25 C. Cavour, Epistolario, VII (1850), a cura di R. Roccia, Firenze 1982, p. 181.
26 Ibidem.
27 F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo (1924), Bologna 1992, p. 361.
28 Cfr. F. Conti, A.M. Isastia, F. Tarozzi, La morte laica, I, Storia della cremazione in Italia (1880-1920), Torino 1998.
29 Cfr. J.P. Viallet, Le 20 septembre dans l’histoire de l’Italie libérale, «Mélanges de l’École Française de Rome, Italie-Méditerranée», 1997, 1, pp. 115-177; G. Verucci, Il XX settembre, in I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 87-100.
30 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse, Bari 1951, p. 227.
31 R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Bologna 2009, p. 25.
32 Cfr. F. Conti, I volontari del soccorso. Un secolo di storia dell’Associazione nazionale pubbliche assistenze, Venezia 2004.
33 Cfr. F. Conti, Massoneria, scuola e questione educativa nell’Italia liberale, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», XI, 2004, pp. 11-27.
34 Cfr. F. Conti, A.M. Isastia, F. Tarozzi, La morte laica, cit.
35 Cfr. S. Montaldo, Il divorzio: famiglia e nation building nell’Italia liberale, «Il Risorgimento», LII, 2000, 1, pp. 5-57.
36 Cfr. G. Ricciardi, L’Anticoncilio di Napoli del 1869, promosso e descritto dal già deputato G. R., Napoli, Stab. Tip. S. Pietro a Majella, 1870. Sulle vicende massoniche di questi anni rimando al mio Storia della massoneria italiana, cit.
37 Una dettagliata ricostruzione della nascita e dello sviluppo del movimento del libero pensiero è in G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità, cit.
38 Cfr. F. Conti, Il Garibaldi dei massoni. La libera muratoria e il mito dell’eroe (1860-1926), «Contemporanea», XI, 2008, 3, pp. 359-395; Id., Garibaldi e il «sole dell’avvenire»: fratellanza massonica, pacifismo e internazionalismo, in Giuseppe Garibaldi. Il radicalismo democratico e il mondo del lavoro, a cura di M. Ridolfi, Roma 2008, pp. 73-84.
39 Al momento della morte, il 2 giugno 1882, le disposizioni testamentarie di Garibaldi non vennero però rispettate e la salma non fu cremata. Sulla vicenda si veda adesso D. Mengozzi, Garibaldi taumaturgo. Reliquie laiche e politica nell’Ottocento, Manduria-Bari-Roma 2008; Id., La morte e l’immortale. La morte laica da Garibaldi a Costa, Manduria-Bari-Roma 2000; Id., Riti funebri e laicizzazione nell’Italia del XIX secolo, «Studi tanatologici», I, 2005, pp. 57-74.
40 G. Spadolini, Per una storia dell’anticlericalismo, in Id., I repubblicani dopo l’Unità (1871-1980), 4a ed. accresciuta, Firenze 1980, pp. 162-163. Sugli incidenti del 1881 si vedano i documenti pubblicati in P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d’Italia. Storia documentaria dall’Unità alla Repubblica, Bari 1967, pp. 160-170.
41 G. Spadolini, Per una storia dell’anticlericalismo, p. 171.
42 Riprendo la citazione da E. Decleva, Anticlericalismo e lotta politica nell’Italia giolittiana, I, L’«esempio della Francia» e i partiti popolari (1901-1904), «Nuova rivista storica», LII, 1968, 3-4, pp. 301-302.
43 Se ne veda un’antologia in L’asino e il popolo: utile, paziente e bastonato, di Podrecca e Galantara (1892-1925), presentazione di G. Candeloro, Milano 1970. Per una più ampia raccolta antologica della stampa satirica in Italia cfr. Cento anni di satira anticlericale nei giornali dal 1860 al 1955, a cura di A.M. Mojetta, Milano 1975. Si veda inoltre A. Chiesa, La satira politica in Italia, Roma-Bari 1990.
44 E. Ragionieri, Un Comune socialista: Sesto Fiorentino, Roma 1953, p. 180.
45 Ibidem, p. 181.
46 Il brano è citato da S. Pivato, Il nome e la storia. Onomastica e religioni politiche nell’Italia contemporanea, Bologna 1999, p. 154.
47 Ibidem, p. 153.
48 Cfr. E. Decleva, Anticlericalismo e religiosità laica nel socialismo italiano, in Prampolini e il socialismo riformista, Roma 1979, pp. 259-279.
49 Riprendo entrambe le citazioni da S. Pivato, Il nome e la storia, cit., p. 156.
50 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1971, pp. 417-418.
51 Ibidem, p. 421.
52 Ibidem, pp. 419-420.
53 Cfr. A. Aquarone, Lo Stato catechista, Firenze 1961.
54 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 419.
55 Ibidem, p. 422.
56 Ibidem, p. 423.
57 F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla Conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Bari 1966, p. 79.
58 Cfr. C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, Bologna 2002, pp. 179-180.
59 F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino 197519, p. 43.
60 B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), II, Bari 19732, p. 232. Sull’antimassonismo di Croce rinvio a F. Conti, Storia della massoneria italiana, cit., p. 231.
61 Per uno sguardo d’insieme si veda P.G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939), Bologna 1975.
62 Il III congresso della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, «La Libertà», 9 giugno 1929, cit. in P.G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana, cit., p. 257.
63 R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 256.
64 Su di esso non offre molte notizie la voce di D. Veneruso, Anticlericalismo, in Dizionario del fascismo, I, a cura di V. De Grazia, S. Luzzatto, Torino 2002 pp. 69-70.
65 R. De Felice, Mussolini il fascista, II, L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Torino 1968, p. 386.
66 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 525.
67 Dichiarazione del Partito Comunista sui rapporti fra comunisti e cattolici, «La nostra lotta», 30 settembre 1944, citata in M. Casella, Anticlericali in Italia, 1944-1947, Bologna 2009, p. 21.
68 Ibidem.
69 Ibidem, p. 50.
70 G. Laj, Discorso pronunciato all’assemblea nazionale massonica nell’assumere l’ufficio di gran maestro dell’ordine, 19 novembre 1945, Roma, Tip. Quintily, [1945], pp. 13-14.
71 Corbino, peraltro, fu l’autore del famoso emendamento all’articolo della Costituzione che disciplinava la scuola privata, mettendo un fermo limite alla possibilità per essa di attingere a finanziamenti pubblici. Il testo proposto da Giuseppe Dossetti («Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di istruzione») venne infatti completato dall’aggiunta di Corbino «senza oneri per lo Stato». Sulla militanza massonica di Ruini e Corbino e, più in generale, sui rapporti che si instaurarono dopo la caduta del fascismo fra la rinata massoneria e il mondo liberal-democratico rimando a F. Conti, Massoneria e liberali nel secondo dopoguerra (1943-1958), in I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, II, a cura di G. Berti, E. Capozzi, P. Craveri, Soveria Mannelli 2010, pp. 543-575.
72 Cfr. Antologia del Don Basilio: settimanale contro le parrocchie di ogni colore, a cura di A. Chiesa, Roma 1972.
73 Traggo le notizie su questi periodici da M. Casella, Anticlericali in Italia, cit., pp. 91-98. Del medesimo autore si veda anche «O con Cristo o contro Cristo». Reazioni cattoliche alla campagna anticlericale del 1946-’47, «Itinerari di ricerca storica», V, 1991, pp. 69-123.
74 Le notizie su queste associazioni, ricavate da rapporti dei prefetti e dei carabinieri, si trovano in M. Casella, Anticlericali in Italia, cit., pp. 98-155.
75 P. Calamandrei, Repubblica pontificia, «Il Ponte», VI, 1950, p. 698.
76 Cfr. L. Polese Remaggi, «Il Ponte» di Calamandrei 1945-1956, Firenze 2001.
77 Su di esso cfr. A. Cardini, Tempi di ferro. «Il Mondo» e l’Italia del dopoguerra, Bologna 1992.
78 Gli articoli apparsi fra il 1952 e il 1954 furono raccolti in G. Salvemini, Clericali e cattolici, Firenze 1957.
79 Stato e Chiesa, a cura di V. Gorresio, Bari 1957, pp. 163-166.
80 La mozione conclusiva del convegno, ibidem, pp. 265-266.
81 Cfr. S. Michelotti, «Stato e Chiesa»: Ernesto Rossi contro il clericalismo. Una battaglia per la democrazia, Soveria Mannelli 2006, p. 156. Sull’impegno anticlericale di Ernesto Rossi si veda anche G. Armani, L’anticlericalismo di Ernesto Rossi, in Ernesto Rossi. Un’utopia concreta, a cura di P. Ignazi, Milano 1991.
82 E. Scalfari, La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» a «Repubblica», Milano 1986, p. 124.
83 Lettera a Liliano Faenza del 21 ottobre 1962, cit. ibidem, p. 161.
84 M. Teodori, Contro i clericali. Dal divorzio al testamento biologico la grande sfida dei laici, Milano 2009, pp. 19-20.
85 Cfr. S. Michelotti, «Stato e Chiesa», cit., p. 162.
86 Cfr. G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Milano 2007.
87 Cfr. G. Scirè, L’aborto in Italia. Storia di una legge, Milano 2008.