BRAMANTE
. La grandiosa figura del massimo architetto della Rinascenza, di colui che fu giustamente chiamato il rinnovatore dell'architettura italiana e "il più grande inventore di nuove idee architettoniche che dai tempi antichi fosse apparso", è ancora in parte avvolta nella nebbia delle attribuzioni incerte e dei dati biografici scarsi e mal sicuri. Certo egli nacque nel 1444 in Monte Asdrualdo (l'attuale Fermignano) nel ducato d'Urbino, e si chiamò Donato Bramante, figlio di Angelo, nipote di Pascuccio.
Le più tipiche e autentiche testimonianze relative al nome di famiglia e al luogo di nascita - oggetto di aspre discussioni tra i paesi dell'Urbinate - consistono: in un documento del catasto di Urbino, pubblicato dal Perugi, in cui è menzionato il detto Pascuccio pater Angeli cognomento Bramantis; in un documento che si conserva nell'archivio del castello Sforzesco in Milano (cfr. Archivio St. lombardo, sez. IV, vol. 14, p. 104), in cui è scritto testes Magister Donatus de Barbantis de Urbino filius Domini AngPli; in talune perizie in Roma, pubblicate dal Rossi (cfr. Archivio storico dell'arte, I, 134) e dal Geymüller, in cui egli stesso si firma Bramante Asdruvaldinus. Cadono quindi le asserzioni del Vasari e del Serlio, che lo dicono nato in Castel Durante (l'attuale Urbania), o quelle di più recenti biografi che gli attribuiscono il cognome di Lazzari, il quale non risulta da veruna documentazione.
Molte altre notizie occorre rettificare sul Bramante, oltre quelle del nome, del luogo di nascita, delle attribuzioni cervellotiche. La data della morte, per molto tempo ritenuta del 14 marzo 1514, va invece rettificata come ha dimostrato lo Gnoli, in quella del 14 aprile del 1514; la sepoltura fu fatta nelle grotte vaticane, ma successivamente non è stata più ritrovata.
Dei numerosissimi disegni che il Geymüller e altri assegnano al Bramante (e alcuni sono indicati con il suo nome nella collezione architettonica della galleria degli Uffizî) nessuno è dimostrato che sia suo; e la mancanza quindi di un riferimento non consente raffronti che rechino nuove determinazioni. Ancora, nonostante i lavori del Geymüller stesso, del Frey, del Hofmann pei disegni concernenti S. Pietro, una vera classificazione di tempo e di collaborazioni manca. L'unico disegno autentico del B. è quello di una nota stampa a carattere architettonico che porta in un basamento la scritta Bramantu fecit in Mediolano.
Del periodo della giovinezza del B. nulla sappiamo se non che egli ebbe povere origini, come testimonia il Cesariano, suo allievo, e conferma il Vasari. Molto probabilmente egli ebbe molto presto a recarsi a lavorare in Urbino, dove intanto sorgeva, per opera di Luciano di Laurana, la mirabile reggia di Federico da Montefeltro. Ma se dell'impronta urbinate rimangono le tracce in tutta la produzione del maestro, nelle eleganze raffinate degli ornati e degli ordini architettonici, nel senso di perfetta proporzione, nei motivi stessi di taluni elementi (come il portico del palazzo di Urbino che rivive nelle corti di S. Ambrogio di Milano e della Cancelleria in Roma), mancano di fondamento le tante attribuzioni che vorrebbero riferire a una diretta opera bramantesca nelle Marche, in Umbria, in Romagna in tale primo periodo edifici come il palazzo Passionei di Urbino, la cattedrale di Faenza, l'edicola di Imola e la chiesa di Santa Maria del Monte di Cesena. Solo la chiesa di S. Bernardino, in Urbino, ha così stretti rapporti stilistici specie con Santa Maria delle Grazie di Milano, da poter essere assegnata con sicurezza al B.; ma l'incertezza della data non permette di affermare se appartenga al tempo giovanile o ad un ritorno nella più matura età dell'attività lombarda.
Questa comincia nel 1476, secondo il Geymüller, o nel 1480, secondo il Malaguzzi-Valeri. In Milano il B. venne a cercare fortuna, forse unendosi alle maestranze lombarde che avevano lavorato a Urbino, e ivi trovò il campo alla sua attività magnifica e audace nella corte di Ludovico il Moro, di cui seguì la fortuna.
In un primo tempo il B. appare dedicato quasi esclusivamente alla pittura, nella quale, secondo quanto riferisce il Vasari, si era esercitato nella sua adolescenza sotto la guida di fra Carnovale di Urbino. Sono opere sue, attribuitegli quasi concordemente dalla critica, le grandiose figure a fresco di uomini d'arme per il palazzo Panigarola in Milano (ora alla pinacoteca di Brera), il Cristo legato dell'abbazia di Chiaravalle e l'Argo nella sala del Tesoro del castello Sforzesco - ora anche assegnati al Bramantino -, il fregio delle case Fontana-Silvestri e lavori minori. E in tutte una precisione di linea e una larghezza di composizione che rivelano il sentimento prevalentemente architettonico, fors'anche una certa durezza di fattura, solo temperata dalle influenze melozziane e mantegnesche.
Dell'attività nel campo architettonico la prima notizia si ha nel 1482 dai documenti che lo dicono architetto della ricostruzione della chiesa di S. Satiro in Milano. Tale complesso lavoro comprendente l'adattamento di edifici medievali e la nuova costruzione di elementi varî che tra loro si addossano, quali il battistero, la chiesa di S. Maria, la sacrestia, la facciata, occupò per lunghi anni il maestro, talvolta direttore dei lavori, talvolta ispiratore di essi. I documenti pubblicati dal Beltrami e dal Malaguzzi-Valeri mostrano che nel settembre 1486 vi era preposto l'Amadeo, che, per la fronte verso S. Maria Beltrade, doveva seguire le prescrizioni di "magistro Donato de Urbino dicto Bramante"; questi altrove è detto "inzignero deputato"; nei riguardi dell'ornamento plastico la collaborazione di Agostino dei Fonduti appare ben documentata per la sacrestia e per la cappelletta della Pietà; ma codeste discontinuità e interferenze non hanno nulla di anormale.
La sacrestia ottagona con otto nicchie e con la sua loggia aperta al secondo ordine ci richiama le sale centrali delle terme romane e i battisteri medievali, rivestiti di una nuova gentilezza di forme. Il finto coro interno ci mostra una mirabilmente ingegnosa applicazione prospettica immaginata da un pittore interamente padrone delle finzioni del disegno e da un architetto che, mentre anela a rievocare le linee solide, armoniche, grandiose delle fabbriche antiche, s'ispira ai più recenti esempî di Leon Battista Alberti.
Dal 1488 in poi il B., coadiuvato dall'Amadeo, ha parte nei lavori del duomo di Pavia; ma tra le numerose collaborazioni e le alterazioni successive non è agevole sceverare l'opera sua. Probabilmente egli ispirò il modello eseguito in legno da Cristoforo Rocchi, che ancora si conserva nella cattedrale e che pur nell'esuberanza decorativa mostra una linea ampia e forte. Nell'interno la solenne disposizione dello spazio centrale, preparato per ricevere la cupola (che solo più tardi vi fu costruita), le disposizioni degli ordini architettonici nei grandi pilastri, la soluzione planimetrica, che ha singolari concordanze con quella della chiesa di Loreto per il raccordo delle navi laterali con l'ambiente centrale, mostrano i tentativi di un architetto che si prepara ai più vasti temi e che fonda nuove concezioni sugli esempî antichi. L'orma diretta del B. si ritrova in taluni mirabili particolari nella cripta e nelle absidi.
Del 1490 è il concorso del B. alla costruzione del tiburio del duomo di Milano, poi eseguito dall'Amadeo; del 1492 è l'inizio di una più regolare attività al servizio della corte ducale, nella ponticella" di Ludovico il Moro e nella pusterla del castello Sforzesco di Milano, nei lavori del castello di Vigevano, negli "apparati" per le sontuose feste di corte, nell'interessante chiesa di S. Maria Nascente in Abbiategrasso, eretta nel 1497, il cui portale col suo arcone retto da un duplice ordine e coronato da un timpano, se ci mostra qualche reminiscenza della loggia nel prospetto posteriore del palazzo ducale di Urbino, ci rivela la tendenza del maestro verso la composizione grandiosa pur in un piccolo tema.
Ma i due maggiori lavori di quest'ultimo tempo del periodo milanese - altre opere sono attribuite al B. senza sicuro fondamento come il completamento dell'Ospedale Maggiore di Milano, il duomo di Como, S. Maria di Canepanova e il palazzo Carminati a Pavia - sono sicuramente la costruzione della canonica di S. Ambrogio e la parte centrale, col tiburio e le absidi, di S. Maria delle Grazie.
La prima, voluta dal cardinale Ascanio Sforza fratello del Moro, e iniziata dal B. nel 1492, ebbe come principale elemento il porticato esterno a colonne, di cui quattro sono laboratae ad tronconos, cioè a somiglianza di tronchi d'albero; e nel mezzo si apre il grande arco trionfale, simile agli esempî dei Cosmati a Civitacastellana, o del Brunelleschi nella cappella dei Pazzi a Firenze, o dell'Alberti in S. Andrea di Mantova.
Di ben più vasta composizione spaziale è la parte nuova della chiesa domenicana di S. Maria delle Grazie, sorta tra il 1492 e il 1497, vasta sala absidata coperta da una cupola racchiusa da un tiburio; e se questo ancora si riannoda alla tradizione medievale lombarda, se i particolari sono, specialmente nei riquadri e nelle candeliere decoranti le absidi, di una finezza tutta quattrocentesca, il vivace movimento all'esterno e la solenne conformazione delle masse all'interno rivelano la nuova vasta concezione classica.
Nel 1499, poco prima della catastrofe di Ludovico il Moro, il B. lascia Milano e viene a Roma. Ci dice il Vasari, la cui narrazione è piena e precisa nel periodo romano dell'artista quanto invece è manchevole per tutto il tempo precedente, che egli giunse "desideroso di poter vivere del suo ed insieme senza avere a lavorare poter agevolmente misurare tutte le fabbriche antiche di Roma. E messovi mano, solitario e cogitativo se ne andava, e fra non molto spazio di tempo misurò quanti edifizî erano in quella città e fuori per la campagna e parimenti fece fino a Napoli ed ovunque e' sapeva che fossero cose antiche". Presto l'attività professionale lo riprende e ne deriva una serie di lavori dei primi anni del sec. XVI. Ed è invero interessante rilevare, a dimostrazione della continuità nella opera del B. e della sua assidua formazione sperimentale, come, mentre la produzione lombarda è animata da un nascosto fermento di armonia spaziale romana, la produzione nei primi lavori in Roma invece segue nella superficie e nell'ornato ancora l'impronta trita ed elegante del Quattrocento lombardo.
Così nel campanile dell'Anima che, sulla base dell'informazione vasariana, gli si può attribuire con grande attendibilità, e che mostra il motivo ancor medievale delle bifore, inquadrato saldamente dai sovrapposti ordini architettonici classici; così la fonte marmorea eseguita ancora al tempo di Alessandro VI nella platea di S. Pietro, della quale i disegni di Aristotile da Sangallo ci forniscono testimonianza; e il chiostro della Pace fatto eseguire nel 1504 dal napoletano cardinal Carafa, arcivescovo ostiense, e condotto, come dicono i documenti, "secondo el disegno de mastro Bramante" chiostro che nel doppio intercolumnio del secondo ordine corrispondente all'arcata della zona inferiore ci dà ancora lo schema di transizione dei cortili di S. Ambrogio di Milano.
Interviene a questo punto il grave quesito, ancora insoluto, relativo a due altre grandi opere che anche esse segnerebbero lo stesso stadio di arte; cioè il palazzo Riario, divenuto poi la Cancelleria, e il palazzo del cardinal di Corneto (noto col nome di palazzo Giraud), quest'ultimo attribuito dal Vasari al B., l'altro attribuitogli in parte, poiché il maestro avrebbe partecipato alla "sua definizione insieme con altri architettori".
Nulla ci aiutano i documenti in questa ricerca di paternità; poiché se gli archivi ci rivelano numerosissimi nomi di appaltatori e di artefici delle fabbriche di Roma papale verso il 1500, raramente menzionano architetti e artisti. Questi vivevano nella corte pontificia oppure avevano posto tra i famigliari di primo e di secondo rango, nelle case cardinalizie, compensati raramente con stipendî regolari, quasi sempre con donativi, o con benefici che nulla avevano a vedere coi lavori e che quindi non apparivano nei registri: il B., p. es., fu fatto da Giulio II frate del piombo, cioè impiegato ad uffici di bollo.
Noi sappiamo soltanto, nei riguardi della Cancelleria, che il sontuoso palazzo, che il cardinale Raffaele Riario cominciò a costruire con denari vinti al giuoco a Franceschetto Cybo, ebbe un primo periodo di edificazione tra il 1489 e il 1495, cioè prima della venuta del B. a Roma; poi un'interruzione, poi una ripresa nel 1503 all'assunzione di Giulio II al pontificato; ma molti lavori, come quelli della fronte verso l'odierno corso Vittorio Emanuele, furono eseguiti dopo il 1511, dopo cioè che il Riario ebbe il titolo di arcivescovo ostiense.
Se la prima fase può (secondo l'ingegnosa ipotesi del Lavagnino) attribuirsi in parte ad Andrea Bregno di Osteno, alle due ultime fasi può invece riannodarsi l'opera del B.; cioè al completamento con più vivace e complesso ritmo architettonico della facciata già avviata dal lato meridionale, e all'esecuzione del cortile, in cui le linee lauranesche del palazzo ducale d'Urbino sono animate da quel sentimento indefinibile di equilibrio e di armonia, che è in tutta l'architettura del B.
Mentre questa nuova attività si svolge, e forse altri lavori vi si uniscono, come quelli della casa Turci in via Papale e del palazzo Pucci presso il Vaticano, mentre artefici lombardi, chiamati forse dal maestro a Roma, sviluppano ancora le sue idee in opere minori, nel 1503 un minuscolo edificio, il tempietto rotondo di S. Pietro in Montorio, segna nella produzione bramantesca e nell'architettura del Rinascimento una pietra miliare. Il pensiero classico, lo schema del tempio circolare antico racchiuso da ordini architettonici, il tipo dell'edificio sacro chiuso e raccolto entro un peribolo rivivono in nuova forma e con nuovi elementi, ma ormai il senso della massa e della proporzione, messo da parte ogni ornamento, prevale su tutto nella composizione architettonica.
Nello stesso anno 1503 sale alla cattedra pontificia Giulio II; e quasi subito le due grandi energie s'incontrano. Dopo un breve periodo di lotte e di discussioni, al B. vengono affidati i lavori della nuova fabbrica di S. Pietro e del palazzo Vaticano e i tanti altri, di tracciati edilizî (come la via Giulia), di costruzione di pubblici edifici (come la Zecca e il palazzo dei Tribunali), di bonifiche e di forniture d'acqua (alla Magliana e a Monte Mario), che la iniziativa megalomane del pontefice intendeva promuovere.
Il progetto del B. per S. Pietro ci è noto da un disegno planimetrico lasciatoci da Antonio da Sangallo (Coll. Arch., Uffizî, n.1), da una medaglia incisa dal Caradosso, che ci mostra l'edificio poliabsidato, sormontato dalla cupola e fiancheggiato da quattro torri, dai disegni della cupola trasmessici dal Serlio, dalla costruzione dell'odierno S. Pietro nel suo spazio centrale, che è ancora superstite della concezione bramantesca. È anche probabile che, come asserisce il Geymüller, la pianta che va sotto il nome del Peruzzi, e che reca i grandi deambulatorî intorno alle absidi a guisa del S. Lorenzo di Milano, fosse il progetto definitivo bramantesco, in cui già si era modificato il primo concetto. Rappresentava questo lo sviluppo dello schema d'edificio a pianta centrale, simmetrico cioè rispetto a due assi, con alta cupola retta da un tamburo traforato da un portico, con un movimento esterno di masse e con un organico sistema costruttivo in cui vive la tradizione degli edifici termali romani o degli edifici cristiani, ravennati e bizantini, che da quelli derivano, ma in cui continua insieme la serie di esperimenti dell'opera bramantesca del periodo lombardo. La frase, che abitualmente si ripete, dell'aver voluto il B. sovrapporre il Pantheon alla basilica di Massenzio, non solo è contraria alla realtà dello schema così immaginato, ma è ancor più lontana dal rispecchiare il processo di maturazione avvenuto nello studio e nell'esperienza.
I lavori di fondazione dei pilastri destinati a sorreggere la cupola cominciarono nell'aprile del 1506; ma prima si procedette febbrilmente alla demolizione della parte occidentale della vecchia basilica vaticana costruita sul circo neroniano e questa furia distruggitrice meritò al B. nelle satire romane il nome di "maestro Ruinante". Nel 1° marzo 1508 il B. ordina agli scalpellini Francesco di Domenico da Milano, Antonio di Iacopo del Pontassieve, Benedetto di G. Albini romano, i capitelli di travertino del grande ordine corinzio: ed è interessante notare come egli, che pure aveva trattato il dettaglio architettonico con una finezza da orafo, ora, un po' per la fretta, un po' per la concezione spaziale che ormai su tutto prevaleva, si sbrigasse di questa ordinazione col richiedere di copiare il capitello del Pantheon "riportato in proportione da 5 a 12 con quella maggior diligentia che sopporta il tevertino".
Il 16 gennaio 1510 si è giunti già a costruire in getto i quattro arconi, e il Pellegrini e il Sangallo ne eseguiscono le forme; nel 1512 è terminato il coro provvisorio poligonale, entro al quale l'abside dell'antica basilica costituiva come una cappella centrale. E i lavori prosegono intensi fino a che nel 1513 la morte di Giulio II viene bruscamente a interromperli. Il B. muore nell'anno seguente, il 1 aprile del 1514, e s'inizia subito di poi tutta la non lieta vicenda delle opere stanche e lente, dei progetti contraddittorî che alternano lo schema longitudinale a quello centrale, dapprima sotto la direzione di fra Giocondo, di Giuliano da Sangallo e di Raffaello Sanzio, poi sotto quella di Antonio da Sangallo coadiuvato dal Peruzzi; fino a che, a partire dal 1546, Michelangelo ritorna in parte al concetto bramantesco "chiaro, schietto e luminoso" affermando che "chi si allontana da B. si allontana dalla verità". Così purtroppo non pensarono più tardi il Maderno e la consulta di cardinali sotto Paolo V.
I lavori del Palazzo vaticano seguivano intanto analogo cammino. Vi iniziò il B. i due grandi cortili del Belvedere e di S. Damaso, il primo con la scalea e il nicchione, di cui forse trasse ispirazione dal tempio adrianeo della Fortuna Prenestina, il secondo coi loggiati sovrapposti come negli antichi anfiteatri: l'uno e l'altro finiti solo in un periodo posteriore alla morte del maestro. E nelle grandi sale e nella loro decorazione la collaborazione tra il B. e Raffaello, suo nipote, è certa; e la scala a chiocciola verso il Belvedere è opera di grande originalità, prototipo delle scale a pianta circolare o elittica che il Sangallo svilupperà ad Orvieto, il Vignola, il Bernini, il Borromini nei grandi palazzi romani.
Il palazzo dei Tribunali, che il B. cominciò a erigere sulla via Giulia e di cui ci restano le possenti bozze dell'imponente zona basamentale, avrebbe dovuto rappresentare il modello del più grande edificio pubblico che esistesse, così come S. Pietro doveva essere la maggior chiesa del mondo. La pianta (che noi conosciamo attraverso i disegni del Peruzzi e di Battista da Sangallo) era caratterizzata da un grande cortile porticato, dalla chiesa di S. Biagio collocata nel fondo, dalle quattro torri angolari.
Accanto a questa attività direttamente attinente al regime, il B. ne ha svolta un'altra egualmente intensa in una serie di lavori secondarî, di pareri, di consulti, di disegni di massima a guida dell'opera dei suoi discepoli; e in ciascuna di queste manifestazioni è sempre una nota personale che definisce un tipo, o che tenta nuove vie o che apre il cammino a nuove conquiste.
Così la casa da lui eretta per il nipote Raffaello nei pressi del Vaticano (distrutta poi nei lavori del portico berniniano) afferma lo schema architettonico dell'edificio privato che sostituisce il classico ordinamento dell'ordine elevato sulla zona basamentale bugnata alla quattrocentesca distribuzione di porte e finestre elegantemente ornate, ma prive di legame; tale prototipo avrà, dapprima nell'architettura civile di Raffaello, del Sanmicheli, del Palladio, poi in quella di tanti edifici pubblici e privati fino ai giorni d'oggi, applicazioni innumerevoli.
Così a Loreto, ove il B. fu inviato nel 1807 "per disegnare molte opere et resarcire quello che bisogna", il porticato anteriore alla chiesa, costruito poi dal Sansovino e dal Sangallo in un braccio solo dei tre previsti nel modello allora eseguito, ci riporta al tipo dell'atrio racchiuso che completa l'opera maggiore e ne costituisce l'ambiente. Così a Civitavecchia, se al B. può, secondo la congettura del Guglielmotti, assegnarsi il forte, appare il modello del castello dei tempi nuovi, fatto per le artiglierie, ma ispirato insieme a un solenne e austero sentimento di bellezza. E nelle chiese di S. Celso e di S. Biagio in Roma, forse in quelle di S. Sebastiano in Siena e della Consolazione in Todi possono vedersi altrettanti esperimenti, quasi modelli concreti assunti dalla concezione immensa che occupava la mente del B., cioè quella di S. Pietro in Vaticano; senza parlare di altri lavori minori che gli si attribuiscono con attendibilità, come il coro della chiesa di S. Maria del Popolo in Roma e lo scalone nel palazzo d'Accursio in Bologna.
Tra il periodo lombardo e il romano si suole fare, nel ritratto di maniera che si traccia del B., una divisione nettissima, come se il primo appartenesse tutto al Quattrocento, il secondo al Cinquecento, ma il distacco è solo in parte vero; ché a veder nel suo insieme tutta la produzione bramantesca vi appare la continuità di una evoluzione, che prosegue pur attraverso incertezze e tentativi e attraverso le tante condizioni esterne in cui si svolge l'attività d'un architetto.
Quando il B. intorno al 1480 giunge a Milano, la Lombardia, ove si escluda qualche apporto individuale del Filarete o di Michelozzo, è ancora sotto l'influsso gotico; ancora sul pensiero architettonico prevale l'opera dello scalpellino, la ricerca dell'ornato elegante e sottile. Il B. non può sottrarvisi; ma, pur mascherando la propria preparazione sperimentale sotto il manto, che poi getterà via, della ricca decorazione interna ed esterna, a S. Satiro, al duomo di Pavia, a S. Maria delle Grazie, egli ha una costante ricerca di grandezza, segue un sentimento classico di masse e di proporzioni, si avvia a un'architettura di ordine superiore a quella della superficie, cioè la plastica conformazione dei grandi spazî. Anche in questo il Brunelleschi, l'Alberti, Francesco di Giorgio e gli altri "eroi" dell'architettura quattrocentesca l'avevano preceduto, ma in forma meno certa e con una minor forza dominatrice.
A Roma siffatta tendenza, pur dopo il periodo di transizione che abbiamo rilevato, trova le migliori condizioni di sviluppo sia nell'ambiente, in cui i ricordi dell'antichità ancora illuminavano l'orizzonte, sia nella mancanza di una contingente linea stilistica, ché a Roma il Quattrocento si era perduto in manifestazioni secondarie o sporadiche, sia infine nel prevalere di un nuovo concetto politico che intendeva consacrare il regime in opere monumentali; e il ciclo si è svolto per chiudersi, non certo nella vita del B., ma in quella dei suoi continuatori prossimi o tardi.
Nelle lodi che i contemporanei hanno tributato al B. si fa spesso strada una critica alla scarsa competenza costruttiva di lui. Dice Simone Del Pozzo, a proposito del palazzo delle Dame nel castello di Vigevano, che era "nel magno architetto un vizio nelle sue fabbriche, che quelle male fondava" e il Vasari nota "che le sue fabbriche sono tutte crepate e stanno a pericolo di ruinare". E questi giudizî rispondono in gran parte al vero e investono talvolta la concezione stessa bramantesca, anche se altre volte invece i danni hanno avuto per causa la fretta tumultuaria tipica delle opere maggiori del maestro. Prima di essere statica tale concezione è ispirata ad armonia di linee e a senso di scenografia; essa non nasce dal cantiere ma dal quadro, segue la bella linea, anche se questa trascina al paradosso costruttivo, come nel tiburio di S. Maria delle Grazie o nella cupola ideata per S. Pietro, ove il fragile giro della galleria è posto all'esterno, proprio dove il tamburo deve resistere alla spinta della vòlta. Talora, come nell'organismo di S. Pietro, la salda e logica ossatura costruttiva, pur troppo sottile nelle dimensioni, non manca, ma giunge, forse per via riflessa, non dalla diretta cognizione del giuoco delle azioni e delle resistenze, ma dalla derivazione dai monumenti antichi, in cui l'esperienza di secoli aveva fatto un'unica cosa dell'armonia spaziale e della stabile disposizione costruttiva.
L'architettura per il B. è stata essenzialmente arte astratta, musicalità nelle proporzioni e nelle forme, dapprima espressione analitica e sintetica insieme, poi soltanto sintetica; e in questa negazione del materialismo è stato prettamente italiano, ché in Italia il senso della pura bellezza ha sempre prevalso sulla formula arida, e la tecnica è rimasta sempre alla sua funzione di mezzo realizzatore, senza giungere a quella di espressione diretta.
Se nel B. noi consideriamo non tanto l'artista quanto l'uomo, ci appare una figura possente e straordinaria "quant'altre mai". "Paziente figlio di paupertate", come lo dice il Cesariano, ma elevatosi dalla povertà alla ricchezza e alla gloria, di vivace ingegno e di "profondissima memoria", splendido nello spendere, "facondo nei rimati versi" (e talune sue poesie ci sono conservate), egli fu insieme, come si è visto, di una austerità e di una tenacia insuperabili nello studio e nel lavoro, di una capacità organizzatrice che gli ha permesso di guidare contemporaneamente tante opere grandiose. Vecchio e paralitico tanto che, come narra il Vasari, "era impedito alle mani sì che non potea come prima operare", persegue fino all'ultimo giorno la sua visione d'arte e studia e prova, come se la sua opera dovesse continuare indefinitamente.
Quasi nessuno dei suoi lavori è stato condotto a termine, e di taluni quasi non rimane più pietra. Ma la traccia da lui segnata nell'architettura italiana è stata invece profonda e durevole come quella di nessun altro. Lo stile della Rinascenza, che prima del B. aveva soltanto carattere regionale, con lui diviene architettonico e italiano, e la formula del portare le espressioni classiche a vita nuova acquista salda unità d'applicazioni. Tutta una schiera di apostoli diffonde ovunque il nuovo verbo: sono i giovani architetti formatisi quali aiutanti nel suo studio, come i Sangallo, il Peruzzi, il Sanmicheli, il Sansovino, Raffaello, Giulio Romano, Cola dell'Amatrice, o gli allievi indiretti che in qualche modo ne derivano, tra cui si possono annoverare il Palladio e i francesi Pierre Lescot e Philibert Delorme; sono trattatisti come il Serlio o disegnatori come il Coner, il Hemskerk, il Lafreri, che insieme con gli antichi monumenti hanno rilevato le costruzioni bramantesche, quali esempî della buona architettura risorta". E lo stile da nazionale diviene mondiale, sbaragliando le sopravvivenze del gotico nordico, e si estende in tutte le città europee a dar forma alle case, ai palazzi, ai castelli, alle chiese, alle piazze. Ivi, pur attraverso all'evoluzione compiuta nei secoli successivi, agli adattamenti e agl'ibridismi che talvolta vogliono assumere il carattere di stile a sé (come avviene a gran parte dell'architettura francese), ancora vive il Bramante.
Ricercare se questo risultato immenso sia effetto d'una prodigiosa energia di "eroe", o derivi da cause più generali secondate da un grande artista che ha saputo interpretare il suo tempo e il suo ambiente, è indagine teorica e forse vana. Certo per gl'Italiani la figura a cui in qualche modo il B. può approssimarsi è quella di Dante. Questi nel nome della latinità e sotto le insegne dell'Impero ha rinnovato il linguaggio e ha plasmato il pensiero italiano: il B., partendo dalla modesta formula del "risuscitare la buona architettura antica" e guardando verso l'avvenire ha dato alla nostra tradizione una così possente dinamica da rielevarla a dominare il mondo (come era avvenuto nel periodo romano) nelle più durevoli espressioni della civiltà, quali sono quelle architettoniche.
Se, come ora si è detto, l'impronta del B. nell'architettura è estesa e profonda come forse nessun'altra, la particolare denominazione di stile bramantesco è ordinariamente attribuita alle immediate derivazioni dell'opera del maestro, che in qualche modo proseguono i due periodi della sua vita architettonica nella produzione dei suoi discepoli e collaboratori ed imitatori, di taluni dei quali già incidentalmente si sono fatti i nomi nella trattazione che precede.
Così nelle opere lombarde possiamo segnalare come tipicamente appartenenti a questo stile: per le soluzioni della chiesa a pianta centrale, la Incoronata di Lodi, la chiesa, già menzionata, di Canepanova a Pavia, quella di S. Croce presso Riva, la cascina Pozzo-Conella presso Milano; per la generale disposizione o per la proporzione e il tipo dei motivi architettonici, la parte principale della cattedrale di Como e le chiese di S. Maria della Passione e del Monastero Maggiore in Milano, per la forma del tiburio le chiese di S. Maria della Croce in Crema e il duomo di Saronno; per la disposizione infine degli ordini architettonici, ispirati a sicuri rapporti, la loggia eretta dal Formentone a Brescia, o l'atrio di S. Maria presso S. Celso del Dolcebuono in Milano.
Del periodo romano le derivazioni sono più sistematiche e concrete, sia per il formarsi intorno al B. di una nuova scuola, non influenzata da una arte precedente, sia per l'importanza e la notorietà dei modelli creati nelle fabbriche di Roma, primo tra tutti S. Pietro.
Le chiese a schema planimetrico centrale (in cui al concetto liturgico si sovrappone quello di pura bellezza basato sull'euritmia) si moltiplicano infatti in questo tempo ovunque sotto l'influsso del grande monumento tipo, specialmente nell'ltalia centrale, ove s'incontrano con gli esempî lasciati dalla scuola del Brunelleschi e da quella di Francesco di Giorgio. Ed ecco infatti la chiesa di S. Biagio di Montepulciano, quella della Consolazione di Todi, S. Maria della Steccata in Parma, e in Roma S. Maria di Loreto e forse l'inizio di S. Maria dell'Orto, ecc.
Se nelle forme esterne il B. aveva risolto in modo definitivo l'applicazione delle linee classiche ai nuovi temi del suo tempo, ai suoi discepoli è spettato il compito di sviluppare tali soluzioni nella pratica professionale. Se Antonio da Sangallo il Giovane a questo è riuscito più degli altri per la sua enorme produzione diffusa per tutta Italia, se il Peruzzi e il Sansovino hanno forse meglio di ogni altro interpretato il sentimento di perfetta proporzione e di raffinata eleganza bramantesca, nell'architettura civile forse Raffaello e il Sanmicheli sono stati quelli che hanno più direttamente interpretato i rapidi accenni dati dal maestro nei riguardi delle applicazioni degli ordini architettonici: il primo nei palazzi Caffarelli-Vidoni, di Giacomo da Brescia (Costa), di Branconio dell'Aquila in Roma (nei quali si è perfino studiato di imitare il sistema escogitato dal Bramante per eseguire in getto di calcestruzzo le bozze della zona basamentale), il secondo, più completamente e potentemente, nei palazzi Pompei, Canossa, Della Torre e nelle porte di Verona.
V. tavv. CXXXIX a CXLIV.
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