BRAHMAN
Vocabolo sanscrito, la cui storia si fonde con gran parte della storia religiosa e filosofica dell'India a cominciare dai Veda. Esso ricorre in due forme: bráhman, neutro, e brahmán, maschile, indicando il secondo la persona che è fornita del primo. Che cosa sia precisamente il bráhman, non è facile esprimere con un'unica parola di lingua occidentale: il suo contenuto fondamentale originario può ridursi a quello di una forza magica, di una potenza misteriosa e occulta. In questo senso, il vocabolo ci riporta a uno stadio religioso antichissimo, anteriore ai testi oggi posseduti, quando le grandi divinità vediche non erano ancora formate: in esso il bráhman, forza indefinibile quanto il mana dei primitivi, dovette formare il punto centrale del sistema sacrale. Nel periodo vedico, in cui il sacrificio costituisce l'elemento preminente non ostante lo sviluppo di un ricco politeismo, il bráhman è la forza intima e misteriosa del sacrificio e della formula, con cui si vincono gli stessi dei. A poco a poco, il bráhman si scioglie dalle esteriorità rituali, e dalla concezione magico-religiosa si passa a quella di una entità pura immutabile ed eterna, inizio e fine di tutto ciò che esiste. Nelle Upaniṣad, ove bráhman finisce con l'essere equipollente con ātman, sono da riconoscere a tale proposito tre tendenze speculative, non sempre ben distinte né contrapposte: l'una, la più forte, considera il Bráhman-Ātman come l'unica realtà, all'infuori della quale tutto è irreale; la seconda, panteistica, identifica l'universo con Bráhman-Ātman; la terza, teistica, considera il Bráhman come il signore che regola l'universo. Gli sviluppi ulteriori rientrano nella storia delle singole filosofie e religioni dell'India.
Bibl.: N. Söderblom, Das Werden des Gottesglaubens, Lipsia 1916, pp. 270-79; P. Oltramare, L'hist. des idées théos. dans l'Inde, I, Parigi 1907, passim; S. Dasgupta, A history of indian philosophy, I, Cambridge 1922, p. 45 segg.