MARTELLI, Braccio
– Nacque a Firenze nel 1501 da Pietro, del ramo di Domenico di Niccolò, e da Lucrezia, figlia di Guglielmo Pazzi e Bianca de’ Medici; un fratello, Pandolfo, nacque nel 1504 e proseguì la linea familiare. Già nel 1512 il M. ebbe un posto di canonico della cattedrale cittadina, preludio di una carriera ecclesiastica intrapresa sulle orme dello zio Cosimo Pazzi, arcivescovo di Firenze dal 1508 al 1513, e del congiunto Nicolò Ridolfi, nipote ex sorore di Leone X e cardinale dal 1517.
Compiuti gli studi in diritto e conseguito il titolo dottorale, nel 1527 il M. ottenne un beneficio parrocchiale a Bertinoro. Nel 1529, dopo essersi trasferito a Roma presso Ridolfi, rivestì la carica di cameriere segreto di Clemente VII. Nello stesso anno assistette a Bologna all’incontro tra il papa e l’imperatore Carlo V e poi andò a Parma come commissario inviato dal papa per trattare con gli emissari imperiali dell’assedio di Firenze, intrapreso il 14 ottobre. Il 3 giugno 1530 (Doria, p. 114; secondo Hierarchia catholica il 20) fu nominato vescovo di Fiesole, diocesi che resse fino al 1551.
Scarsamente presente nella diocesi, promosse due visite, l’una prolungatasi dal 1532 al 1542, l’altra dal 1542 al 1549. È possibile che, nella diocesi, il M. avesse fama di essere tollerante verso le posizioni evangeliche: nel 1542 nel monastero di S. Bartolomeo risiedette temporaneamente Pietro Martire Vermigli, ma soprattutto Antonio Caracciolo avrebbe menzionato Fiesole «per il suo vescovo eretico» (cit. in McNair, p. 276 n. 4).
Il 22 febbr. 1531 il M. fu nominato nunzio nel Ducato di Savoia con l’incarico di raccogliere fondi per la lotta antiluterana e, dal 3 giugno 1532, anche per quella contro i Turchi. Soggiornò nel Ducato per la durata della missione, impegnato nella collettoria e forse anche in attività che, senza prefigurare una nunziatura permanente, ebbero tuttavia carattere latamente diplomatico. Nel dicembre 1532, proprio per le difficoltà connesse al reperimento dei finanziamenti e per l’inefficacia della sua azione, chiese e ottenne di essere sollevato dall’incarico, sebbene la successione fosse già stata avviata, probabilmente in ragione di sue precedenti richieste.
Dopo la notizia di un incarico alla Biblioteca Vaticana nel settembre del 1533, in virtù del quale doveva forse verificare la consistenza del patrimonio librario, mancano informazioni sul M. fino al 1545. Nel marzo di quell’anno ricevette il breve di convocazione al concilio mentre era a Vicenza. Vescovo della città era il cardinale Ridolfi, che vi soggiornò in particolare nel 1543-44, e si può ipotizzare che la presenza del M. non fosse casuale né episodica (sebbene non risulti che abbia espletato alcun incarico presso il prelato). Infatti, Giovanni Maria Memmo annoverò il M. tra i personaggi del suo De gli ragionamenti (1554), dedicato al tema del perfetto principe cristiano secondo modelli pedagogici e moduli linguistici erasmiani: ambientato durante una giornata trascorsa nella «villa» di Giovanni Corner, vi erano rappresentati in conversazione, oltre al M., Ridolfi, il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, il vescovo di Torcello Girolamo Foscari, il nobile vicentino Giangiorgio Trissino (che il M. frequentò a Roma), l’ambasciatore cesareo Diego Hurtado de Mendoza e altri vescovi, abati e cavalieri.
Convocato al concilio, il M. trascorse gli anni seguenti impegnato nei lavori dell’assise, prima a Trento, quindi a Bologna.
Il M. giunse a Trento il 19 maggio 1545, in quel momento unico esponente della gerarchia ecclesiastica toscana. Il 18 agosto prese l’iniziativa di rivolgersi per lettera al papa al fine di ottenere chiarimenti utili a dissipare il disagio proprio e degli altri partecipanti per il prolungarsi dello stato di attesa e per le incertezze sull’inizio e le modalità di svolgimento dei lavori conciliari. Lamentava, infatti, «che noi stessimo qua tanto tempo non solo senza far, ma anchora senza intender cosa alcuna di quelle massime che parea si appartenesse allo officio nostro d’intendere» (cit. in Doria, p. 122). La missiva non ottenne la sottoscrizione degli altri prelati presenti a Trento, anche perché fu interpretata – allora e in seguito (Jedin, 1949, p. 426) – come un testo di protesta, sebbene essa non presentasse contenuti irriverenti o eversivi (Alberigo, I vescovi). Il papa, comunque, nella sua risposta precisò che i ritardi nell’avvio dei lavori erano dovuti a motivi indipendenti dalla sua volontà. Intanto, il 28 agosto il M. fu scomunicato dal commissario apostolico responsabile dell’esazione delle decime nel Ducato di Firenze, Isidoro di Monte Acuto, per non avere pagato per intero l’importo dovuto. Si dolse, anche a causa delle ripercussioni economiche sul suo bilancio già gravato dal soggiorno a Trento, e i cardinali legati, G.M. Ciocchi Del Monte, M. Cervini e R. Pole, si rivolsero al cardinale A. Farnese, il quale provvide a sanare la posizione del Martelli.
Fin dall’inizio dei lavori, il M. non mancò di distinguersi. Nel gennaio 1546 intervenne sull’introduzione al primo dei decreti che l’assemblea avrebbe dovuto promulgare, relativo alla condotta dei partecipanti al concilio, disapprovando l’assenza della designazione dell’assise come rappresentante la Chiesa universale («universalem ecclesiam repraesentans»). La formula, che era stata adottata a Costanza e a Basilea, faceva discendere l’autorità del concilio direttamente da Cristo e comportava pertanto il dovere di obbedienza da parte di tutti, il papa incluso, alle sue decisioni. In tal modo, il concilio in corso si poneva sullo stesso piano dei due precedenti nonostante, in quel momento, il numero dei partecipanti fosse modesto al punto da rendere l’uso della formula proposta dal M. non opportuno, secondo G. Seripando e il cardinale C. Madruzzo, seppure legittimo. Comunque, oltre al M., otto vescovi tra cui quelli di Capaccio e di Badajoz, Enrico Loffredi e Francisco de Navarra, assunsero la medesima posizione ed ebbero il consenso della maggior parte dei vescovi presenti, sollevando nei legati il timore di derive conciliariste. Questi riuscirono in breve ad avere ragione della maggioranza, tuttavia il M. si mantenne fedele alla posizione adottata e, per tutta la durata dei lavori, rifiutò ogni espressione che indicasse i vescovi come delegati della S. Sede e insistette programmaticamente nel difendere e rafforzare l’autorità episcopale. Lo dimostrò nei mesi successivi, quando si esaminò la questione dell’attività omiletica dei regolari: convinto che fosse opportuno subordinare al vescovo quanti godevano di esenzioni, il M. sostenne che i regolari, per predicare foss’anche all’interno dei propri conventi, avrebbero dovuto avere la licenza dell’ordinario del luogo, essendo ufficio pastorale suo proprio quello di ammaestrare il «gregge» spirituale affidatogli. Il confronto con il presidente Ciocchi Del Monte fu aspro e condusse il M. a sostenere che i vescovi erano vicari di Cristo («episcopi immediate dependerunt a Christo», Concilium Tridentinum, X, p. 486, n. 3), titolo che invece era di pertinenza del papa fin dalla riforma gregoriana, e ad appellarsi al tribunale di Cristo qualora il concilio avesse deciso diversamente nella questione dei regolari. Egli si oppose anche alla forma definitiva del decreto, ritenendolo ancora insufficiente malgrado le limitazioni poste alle facoltà dei regolari e di riflesso ai diritti papali in vigore. Ansia di riforma e «il radicalismo caratteristico del savonarolismo fiorentino» (Alberigo, I vescovi, p. 246) condussero il M. a postulare l’opportunità di assicurare la residenza attraverso la rimozione di qualunque impedimento e la possibilità di comminare pene severe contro cui «ulla consuetudo, lex aut privilegia» non avrebbero potuto essere opposti (Doria, p. 127 n. 64).
Le posizioni assunte in modo fermo e le forme in cui egli interloquiva con i colleghi e i legati, abbandonandosi in modo intemperante a discussioni violente e verbose, che risultavano irriverenti e irritanti, indussero i partecipanti, e il presidente in particolare, a stigmatizzare severamente le opinioni espresse dal M. e i suoi comportamenti. Il M. si guadagnò aspre reprimende e, insieme, accuse di eresia. Il cardinale Ciocchi Del Monte gli disse apertamente che «la sua invettiva [a proposito dell’autorità dei vescovi] […] lo faceva heretico, scismatico et seditioso» (Concilium Tridentinum, X, p. 493 n. 5). Altri segnalavano negli stessi mesi al cardinale Farnese le «pazzie e bestemmie» affermate (ibid.). Il fanatico vescovo Dionigi Zanettini, detto il Grechetto, che era stato suffraganeo a Vicenza negli anni Trenta, lo denunciò al cardinale Farnese come criptoluterano insieme con i cardinali Pole, Morone e Ridolfi, il patriarca di Aquileia Grimani e altri prelati. Ma fin dal gennaio 1546 il M. aveva condannato «la pacia […] che tal consilio è supra il papa» commentando che questa e altre opinioni le «se impara nel oficina perversa del suo patrone», cioè Ridolfi (Buschbell, p. 249). Il vescovo G. Giacomelli, nella sua testimonianza al processo contro il cardinale Morone (settembre 1558), incluse il M. tra i prelati presenti al concilio che riteneva eretici o sospetti: «haereticus recidivans contra potestatem papae ex libello Martini Buceri sibi tradito ab episcopos Clugiensi [Giacomo Nacchianti], carcerandus sed ad praeces quorundam cardinalium et praelatorum dimissus», riassume il Compendium (Il processo inquisitoriale, I, p. 194). E, in effetti, secondo quanto scriveva durante il concilio il vescovo A. Paschalis al Farnese, Giacomelli era intervenuto più volte con il M. «de fargli cognoscere soi errori et redurlo in bona vita con promettergli mutando proposito la bona gratia [del papa e del Farnese stesso] de modo che mostra a tucti la displiacentia degli errori passati et proponimento perseverare in la bona strada» (Concilium Tridentinum, X, p. 501). La presa di posizione del M. è stata interpretata, tuttavia, come una forma blanda di «episcopalismo» con cui, in ogni caso, egli avrebbe voluto esprimere l’opportunità che, in vista della riforma della Chiesa, il concilio fosse strumento efficiente ed efficace. Le accuse di eresia, peraltro, non ebbero conseguenze giudiziarie, anche se servirono a intimidire lui e, soprattutto, i colleghi.
Il M. intervenne anche su questioni teologiche come il decreto sulla giustificazione, di cui stese un importante e ponderato voto al progetto iniziale, e la natura e il numero dei sacramenti, che pose in relazione alla struttura gerarchica della Chiesa; anche in seguito – una volta ripreso il concilio a Bologna – propose di indicare quali fossero i sacramenti riservati ai vescovi. Nel novembre 1547 fu incluso nella commissione che si occupava della penitenza e fu ispiratore, insieme con il collega J. Spitame, vescovo di Nevers, dei 14 canoni proposti in gennaio alla discussione comune con i quali «si attribuiva ai vescovi il diritto esclusivo di approvare tutti i confessori, anche quelli del clero degli ordini esenti» (Jedin, 1973, p. 194) e altre facoltà, con l’obbligo però di selezionare attentamente i ministri, esponendosi così all’accusa di essersi occupati più dei privilegi episcopali che della riforma necessaria all’amministrazione del sacramento. In aggiunta, il M. propose anche il divieto di accettare doni. L’interruzione dei lavori conciliari, tuttavia, non consentì che si giungesse all’approvazione definitiva del decreto.
Nel marzo 1547 il M. si era opposto alla sospensione o traslazione del concilio ed era rimasto a Trento fino ai primi di aprile, allorquando i legati imposero a lui e agli altri tredici vescovi di trasferirsi a Bologna, sebbene egli fosse il solo a non appartenere al partito imperiale. Nel settembre 1548 fu convocato a Roma insieme con altri quattro vescovi, su indicazione di Ciocchi Del Monte, per contribuire all’assemblea di riforma che, nelle intenzioni del papa, avrebbe dovuto sostituire il concilio.
Nell’ottobre 1547 il M. si era rivolto al cardinale Farnese per ottenere maggiori responsabilità; in seguito chiese a Ciocchi Del Monte, divenuto nel 1550 Giulio III, di commutargli la sede di Fiesole con una più popolosa «per poter far profitto nelle cose attinenti alla religione e alla gloria di Dio» (Ammirato, I, p. 607): era un’aspirazione autentica, assecondata dal papa forse con l’intento di marginalizzare un personaggio che, durante il concilio, si era dimostrato ostico. Pertanto il 12 febbr. 1552 il M. fu trasferito alla diocesi di Lecce in sostituzione del chierico G.B. Castromediano.
Il M. giunse nella nuova sede il 5 apr. 1553 per risiedervi stabilmente. Per nulla scoraggiato nelle sue ambizioni, anzi intenzionato a riscattarsi, si dedicò con energia e risolutezza alla diocesi dando forma concreta alle idee sostenute durante i lavori conciliari. Nel 1555 intraprese la «visita», di cui si conserva solo quanto attiene alla chiesa cattedrale cittadina. Secondo le cronache predicava sovente, amministrava la comunione ogni terza domenica del mese, leggeva le Sacre Scritture al popolo, faceva istruire nella dottrina cristiana i bambini e offrì agli adulti pubbliche letture dell’opera del filosofo salentino Marcantonio Zimarra (1460-1523). In linea con le posizioni già espresse al concilio, scoraggiò l’inserimento dei gesuiti in quanto Ordine esente dalla giurisdizione episcopale. Si distinse anche per la beneficenza a uso della Chiesa e dei poveri e l’impegno – poco apprezzato dall’aristocrazia locale – per la pacificazione delle fazioni nobiliari, le cui divisioni trovavano espressione anche in seno al capitolo. Lasciò, dunque, buona memoria di sé, tanto più che, con una rimarchevole differenza rispetto a quanto operato dai predecessori, il M. promosse la sede di cui era titolare e ne valorizzò il profilo istituzionale, adoperandosi per affermarne il primato e la precedenza sulle altre sedi salentine, sottraendosi così alla supremazia di Otranto. «Nel recupero delle ragioni religiose e culturali fondative della primazia ecclesiastica della sede affidata al suo governo» (Spedicato, 2006, p. 104), trovò spazio la celebrazione del culto di s. Oronzo, affidata a G.M. Ferrari, uno tra i letterati che il M. aiutò e promosse, come fece anche con Scipione Ammirato.
Secondo alcune testimonianze, in quegli anni Lecce ospitava una conventicola eterodossa, e il vescovo Annibale Saraceno, che nel 1570 sarebbe stato condannato dal S. Uffizio, dichiarò che al suo arrivo, nel 1564, «se stava in quella città come fusse stato in Ginevra» (Spedicato, 1996, p. 13). Ma vi sono tracce della circolazione di idee ereticali – forse ingiustamente sottovalutate – anche per gli anni Cinquanta. Nell’ottobre 1555 fu arrestato il carmelitano apostata ed eterodosso Scipione Lentolo, che risiedeva a Lecce da alcuni mesi per sfuggire all’Inquisizione e che lì aveva trascorso il tempo leggendo il commento di Lutero alla Lettera ai Galati. Non è noto come il M. abbia affrontato questo aspetto dell’esercizio pastorale. La corrispondenza che intrattenne con il S. Uffizio romano in veste anche di commissario si conserva, infatti, a partire dagli anni immediatamente successivi e concerne gli ultimi due anni del suo episcopato. La materia trattata riguarda, per lo più, gli attentati alla giurisdizione del vescovo, di cui erano responsabili ecclesiastici locali in virtù di privilegi, esenzioni, consuetudini radicate, che solo se risolte con fermezza erano garanzia di ordine. Egli, d’altronde, all’inizio del suo mandato avrebbe ottenuto una speciale licenza, tale per cui nessun frate mendicante poteva predicare in città senza il consenso del S. Uffizio o del papa o del vescovo stesso, ciò che aveva messo Lecce al riparo da «li inconvenienti delle eresie» (cit. in Nestola, p. 47). Se, per il cardinale M. Ghislieri, l’attività del S. Uffizio era garanzia di ordine e stabilità, per il M., in ogni caso, essa non avrebbe dovuto sovrastare quella pastorale.
La morte di Paolo IV (1559) privò il M. del cardinalato concessogli in pectore. Era una promozione che egli auspicava fin da quando, nell’estate 1554, aveva spinto Ammirato a chiedere al papa di concedergli la porpora cardinalizia quale condizione per poter aspirare al pontificato che riteneva «instromento [per] poter far molte cose utili alla Christianità» (Ammirato, I, p. 607).
Il M. morì a Lecce il 17 ag. 1560. Nel 1564 la cittadinanza lo onorò con una lapide commemorativa.
Fonti e Bibl.: G. Buschbell, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des 16. Jahrhunderts, Paderborn 1910, pp. 249, 251, 257 (lettere del Grechetto sul M.); Concilium Tridentinum, X, Epistularum pars prima, a cura di G. Buschbell, Friburgi Brisgoviae 1916, pp. 493, 500, 503, 539; Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, I, Roma 1981; II, 2, ibid. 1984; VI, ibid. 1995, ad indices; S. Ammirato, Opuscoli, I, Firenze 1640, ad ind.; II, ibid. 1637, ad ind.; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, I, Roma 1949, pp. 420, 426; II, Brescia 1962, s.v. Fiesole; III, ibid. 1973, ad ind.; G. Alberigo, I vescovi italiani al concilio di Trento (1545-1547), Firenze 1959, ad ind.; Id., Recensione a R. Di Simone, Tre anni decisivi di storia valdese: missioni, repressione e tolleranza nelle valli piemontesi dal 1559 al 1561, Roma 1958, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XIII (1959), pp. 437 s.; H. Jedin, Der «Episkopalist» B. M., Bischof von Fiesole. Nova et Vetera, in Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte, 1965, vol. 60, pp. 153-185; Ph. McNair, Peter Martyr in Italy: an anatomy of apostasy, Oxford 1967, p. 276; F. Ambrosini, Profilo ideologico di un patrizio veneziano del Cinquecento, in Studi veneziani, n.s., VIII (1984), p. 86; G. Capone, L’affermazione del culto oronziano a Lecce tra rivendicazioni primaziali e crisi epidemiche, in Società, congiunture demografiche e religiosità in Terra d’Otranto nel XVII secolo. Atti del Seminario…, Lecce… 1988, a cura di B. Pellegrino - M. Spedicato, Galatina 1990, pp. 376-384; G. Raspini, B. M. (1501-1563) nunzio apostolico, vescovo di Fiesole (1545-1552) e di Lecce (1552-1563) al concilio di Trento (1545-1552), Fiesole 1991; P. Doria, Un vescovo «ribelle» al concilio di Trento: B. M., in Ricerche di storia sociale e religiosa, n.s., XLVIII (1995), pp. 113-135; M. Spedicato, La lupa sotto il pallio. Religione e politica a Lecce in Antico Regime (secc. XVI-XIX), Roma-Bari 1996, ad ind.; Id., La città e la Chiesa, in Storia di Lecce. Dagli Spagnoli all’Unità, a cura di B. Pellegrino, Roma-Bari 2006, pp. 104-111; P. Nestola, Interazioni istituzionali ed affettive: le lettere di B. M. alla congregazione del Sant’Ufficio, in Ricerche storiche, XXXVII (2007), pp. 33-68; Hierarchia catholica, III, p. 196.