UBERTINI, Boso
UBERTINI, Boso (Buoso). – Figlio di Biordo di Gualtieri e nipote del celebre vescovo Guglielmino, nacque probabilmente tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del Duecento. Ebbe quattro fratelli: Ranieri (poi vescovo di Cortona), Guido, Bustaccio e Franceschino.
Entrò giovanissimo tra i canonici della cattedrale di Arezzo e nel dicembre del 1302 fu nominato preposto della canonica. Alla morte del vescovo Ildebrandino dei conti Guidi prestò giuramento di obbedienza al successore, Guido Tarlati , nominato il 7 luglio 1312, ma negli anni seguenti entrò in conflitto con lui, anzitutto per motivi economici.
Per ripagare le spese del suo viaggio di consacrazione ad Avignone il vescovo pretese dai canonici un contributo di 201 fiorini, costringendo Boso a vendere alcuni beni della canonica, gravemente indebitata (17 novembre 1313). Il 1° marzo 1324 papa Giovanni XXII concesse al preposto, che aveva difficoltà a sostentarsi, un beneficio a sua scelta nel Chianti o nel Senese. In seguito Tarlati scomunicò Boso perché questi non voleva cedergli le rendite della pieve di S. Pietro ad Mensulas, presso Sinalunga, ma il preposto si appellò al papa e il 14 gennaio 1325 Giovanni XXII annullò la scomunica.
Ai motivi economici si aggiungeva il diverso atteggiamento dei due nei confronti del Papato: infatti, pur essendo entrambi di famiglia ghibellina, Tarlati sosteneva e coordinava le forze ostili alla Chiesa in Italia centrale, mentre Boso si manteneva fedele al pontefice.
Al culmine dello scontro tra Tarlati e papa Giovanni XXII, con la scomunica e la deposizione del vescovo aretino e con il distacco da Arezzo della diocesi di Cortona (ove fu insediato il fratello di Boso, Ranieri: 19 giugno 1325), la reazione di Tarlati portò all’esilio degli Ubertini e alla confisca dei loro beni. Il 20 luglio 1325 il pontefice nominò Boso amministratore della Chiesa aretina e scrisse al rettore del Patrimonium in Tuscia perché sostenesse i fratelli Ubertini e i signori di Cortona, Ranieri e Uguccione Casali, minacciati da Tarlati. Il 5 dicembre 1326 Boso fu nominato vescovo di Arezzo, ma non poté mettere piede in città e fino al 1334 non fu consacrato, usando il titolo provvisorio di electus. L’esilio non cessò con la morte di Guido Tarlati (21 ottobre 1327), perché il potere in città fu preso dal fratello di lui, Pier Saccone, che ostacolò in tutti i modi il vescovo eletto.
Nel 1328 l’imperatore Ludovico il Bavaro, d’intesa con i Tarlati, nominò un nuovo vescovo aretino, un frate minore di nome Mansueto, che resse la diocesi fino al 1330. Questi fu fedele al Bavaro e all’antipapa Niccolò V (Pietro da Corvara), che il 26 novembre 1328 depose Ubertini dalla carica di preposto della canonica aretina, in quanto ribelle.
In questi anni Boso visse lontano da Arezzo. Il 22 febbraio 1327 a Firenze partecipò al sinodo convocato dal cardinale legato in Toscana, Giovanni Caetani Orsini, per la riforma delle chiese della regione; il 16 settembre fu presente, insieme a Orsini e al vescovo di Firenze, Francesco Silvestri, al processo dell’Inquisizione contro il filosofo e astrologo Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli), che si concluse con la sua condanna al rogo.
Ubertini versava in difficili condizioni economiche: non potendo godere dei proventi della diocesi aretina, trattenuti dai Tarlati, era sostenuto economicamente dal papa, che gli assegnò dei benefici del valore di 500 fiorini (22 giugno 1327) e le rendite del monastero di S. Eugenio presso Siena (8 agosto 1329).
Almeno dal 1330 risedette ad Asciano, nella diocesi di Arezzo ma sotto il controllo di Siena, dove riuscì a costituire una curia vescovile alternativa a quella aretina: ci sono rimasti alcuni registri degli atti di curia, in cui si vede come egli esercitasse la sua autorità sul territorio diocesano non controllato dai Tarlati. Questa curia si mantenne attiva fino al 1344, quando Ubertini fece ritorno stabilmente ad Arezzo. La posizione di Boso, già debole, ricevette un duro colpo nel 1333, quando papa Benedetto XII nominò un vicario speciale per la diocesi di Arezzo nella persona di fra Matteo da Cortona vescovo di Caffa; questi rimase in carica almeno fino al 13 aprile 1335, quando minacciò di scomunica i Tarlati e gli Ubertini se non avessero cessato le ostilità, ma fu osteggiato da tutti e risultò di fatto inefficace.
Fu la crisi politica del regime dei Tarlati a sbloccare la situazione dell’episcopato aretino. Pier Saccone Tarlati iniziò una rovinosa guerra contro Firenze e Perugia, che portò i perugini a un passo dalla conquista di Arezzo: Boso seguì l’esercito perugino e nel 1335, quando esso si accampò al duomo vecchio di Pionta, cantò messa davanti alla città assediata. Ma in occasione della pace, conclusa dopo estenuanti trattative (7 marzo 1337), si stabilì che il vescovo e tutti gli Ubertini rimanessero confinati fuori da Arezzo per dieci anni, che le loro fortezze andassero al Comune di Firenze o fossero smantellate, che il vescovado fosse tolto a Boso e assegnato a Bartolomeo da Pietramala. Anche negli accordi con Perugia (29 aprile 1337) si confermò l’esilio decennale, ma Boso, rimasto vescovo, ottenne infine nel 1338 (26 febbraio, 26 maggio) dal Comune di Firenze (nuovo signore di Arezzo) i due castelli di Civitella e Bibbiena, già occupati dai Tarlati. Per incarico papale, il 7 ottobre 1339 Boso revocò allora l’interdetto su Arezzo (durato dodici anni, quasi senza interruzione).
Pur restando fuori dalla città, per qualche anno Boso poté esercitare pienamente la sua autorità episcopale, come attesta un certo numero di atti ordinari (nomine di rettori di chiese, imposizioni di decime). Nel 1340 autorizzò la venerazione di un cospicuo numero di reliquie rinvenute nel corso di lavori al duomo vecchio di Pionta e nel 1341-42 cercò anche, inutilmente, di imporre la sua autorità su alcune chiese dei camaldolesi, che però si fecero forti della loro esenzione. Nel 1344 promulgò delle importanti costituzioni sinodali, volte a rimettere ordine nella condotta del clero aretino.
Le costituzioni si aprono con un prologo, seguito da 153 rubriche. Le prime cinque rubriche riguardano l’ordinamento dei Nove ufficiali del clero (un collegio elettivo annuale, con mansioni amministrative); per il resto si tratta di norme canonico-disciplinari abbastanza usuali rivolte al clero, contro il gioco d’azzardo, i banchetti e le feste in chiesa, la frequentazione di taverne e altri comportamenti irregolari, nonché contro l’accumulo di benefici, la commenda e l’alienazione dei beni ecclesiastici. Dei laici si condannano la simonia, l’usura, lo scioglimento del vincolo matrimoniale, l’astrologia e la falsificazione e si richiama al dovere di pagare le decime. Alcune norme sono dedicate alle confraternite e alla promozione delle festività di s. Donato, del beato Gregorio X e del Corpus Christi.
Boso non rinunciò comunque a occuparsi di politica. Nel 1342-43 fu tra i consiglieri di Gualtieri di Brienne, il duca d’Atene signore di Firenze; il 29 gennaio 1343 fu presente all’assoluzione dei Tarlati dalla condanna al carcere loro inflitta nel 1341 dal capitano fiorentino. Il ritorno dei Tarlati sulla scena politica cittadina suscitò nuovi scontri e un successivo bando per ambedue le famiglie, Tarlati e Ubertini (luglio 1343, alla caduta della signoria del duca d’Atene). Boso fu protagonista della successiva guerra contro la sua città e con il sostegno dei perugini nel 1344 occupò il forte castello di Cennina in Valdambra. Si arrivò infine alla pace quinquennale del 3 giugno 1345; il vescovo affidò ai fiorentini i suoi castelli, tra cui Civitella, Cennina e Castiglione Ubertini.
Non mancarono peraltro tensioni in Valdambra, zona rivendicata dagli Ubertini ma di notevole interesse strategico per Firenze, cui si era sottomessa nel 1337. Nel 1349, nonostante i patti, Boso occupava ancora Cennina, e cercò anche di impossessarsi di Badia Agnano, ma l’abate Basilio preferì accomandarsi ai fiorentini (16 gennaio 1349) e più tardi, tra il 1351 e il 1352, per evitare l’ira del vescovo dovette rifugiarsi in curia.
Nel biennio successivo Boso si schierò, per certi versi inaspettatamente, contro Firenze (che pur lo aveva sostenuto all’inizio dell’esilio) ed entrò con la sua casata (e con gli altri signori dell’Appennino tosco-romagnolo: Ubaldini e Tarlati) nella coalizione promossa da Giovanni Visconti contro Firenze (estate 1351).
Nel luglio del 1351 gli Ubertini furono presenti all’assedio di Scarperia, baluardo fiorentino nel Mugello, e nel 1352 portarono il guasto in Valdambra e in Valdarno, incendiando Figline. Inutilmente gli ambasciatori fiorentini in Curia chiesero al papa la scomunica del vescovo aretino.
Nella Pace di Sarzana (31 marzo 1353), che ripristinò lo status quo e delimitò le reciproche aree di influenza tra Milano e Firenze, ponendo un freno alle mire dei Visconti sulla Toscana, Boso mantenne solo formalmente il possesso dei suoi castelli, controllati di fatto dal Comune di Arezzo e dai Tarlati; e l’aspro contrasto con l’anziano Pier Saccone Tarlati, suo acerrimo rivale, si manifestò clamorosamente al cospetto dell’imperatore Carlo IV alla dieta tenuta a Mantova con i signori ghibellini italiani (29 gennaio 1354).
I castelli erano ancora occupati nel 1358, quando il pontefice ne chiese di nuovo la restituzione. A non volerli cedere era anche la signoria fiorentina, che preferiva che restassero nelle mani dei Tarlati e del Comune di Arezzo per la sicurezza e la pace dei cittadini. Boso preferì infine cederli a Firenze: il 7 settembre 1359, per sei anni, rinunciò ai suoi diritti su Bibbiena, allora occupata da Marco di Pier Saccone Tarlati, contro un censo annuo di 150 fiorini. Fu inviato un esercito a occupare il castello, che si arrese agli inizi del 1360.
Gli ultimi anni di vita furono passati dal vescovo lontano dalla politica. Il 16 agosto 1359 celebrò in S. Croce a Firenze i solenni funerali del giovane cavaliere Biordo di Franceschino Ubertini, suo nipote, morto in combattimento al fianco dei fiorentini. Nel 1361 dovette affrontare la spinosa questione delle reliquie di s. Donato, contese tra la cattedrale e la pieve aretina, e nominò una commissione di giudici per risolverla.
I giudici furono Buccio vescovo di Città di Castello, Gregorio vescovo di Cortona, Giovanni priore generale di Camaldoli e Salvi abate di Monte Oliveto. La loro sentenza (24 ottobre 1361) fu che, per la lontananza del tempo e per la mancanza di documenti antichi e autorevoli, si mantenesse la situazione vigente, cioè che la testa fosse conservata e venerata in pieve, dove dal 1346 era incastonata in un busto-reliquario di argento dorato (opera degli orafi Paolo Ghiselli e Pietro di Arezzo), mentre il resto del corpo rimanesse in cattedrale, nell’altare maggiore. Sopra l’altare si cominciò a costruire una sontuosa arca marmorea, che fu completata intorno al 1375.
Boso, che aveva fatto testamento già il 26 luglio 1352, morì alla fine del 1365; il 17 dicembre di quell’anno è documentato il suo successore sulla cattedra vescovile aretina.
Una lettera del Comune di Firenze (20 agosto 1364) ne dà l’efficace definizione di uomo bellicosus et inquietus (G. Canestrini, Di alcuni documenti..., 1849, p. 423). La sua figura è soprattutto quella di un uomo politico, animato dal costante proposito di favorire il potere temporale del suo episcopato e gli interessi della sua famiglia. Ma gli atti di curia e le costituzioni sinodali del 1344 testimoniano anche la sua capacità di amministratore ecclesiastico e un certo zelo pastorale.
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