BORSO d'Este, duca di Modena, Reggio e Ferrara
Nacque a Ferrara il 24 ag. 1413 dal marchese Niccolò III d'Este e da Stella dei Tolomei dell'Assassino, madre, oltre che di B., di Lionello e di Ugo. Benché illegittimo, non fu trascurato dal padre, particolarmente affezionato a Stella e, di conseguenza, ai figli avuti da lei. Fosse o no vero quello che un cronista, fra' Giovanni ferrarese, gli fa alquanto retoricamente affermare, e cioè di desiderare solo la gloria dell'immolazione sul campo di battaglia, sta di fatto che Niccolò III pensava di destinarlo alla carriera militare. Giovanissimo fu perciò inviato al servizio di Venezia con un corpo di cento lance; ma le delusioni non tardarono, e la prima fu la sorte amara toccata al Carmagnola, suo istruttore nell'arte della guerra, la seconda, nel 1434, la sconfitta delle truppe veneziane nella battaglia di Imola, quando solo fuggendo riuscì ad evitare la prigionia. Rientrato a Ferrara dopo la pace del 18 ag. 1435, vi rimase alcuni anni mantenendo agli stipendi le proprie truppe. Nel 1438 lo troviamo al seguito del padre quando Eugenio IV giunse a Ferrara per presiedere il concilio. L'anno seguente tornò agli ordini di Venezia, la quale, affiancata da Firenze, si disponeva a sferrare un attacco decisivo contro Filippo Maria Visconti, messo in difficoltà dall'intraprendenza di Francesco Sforza. In tale frangente, peraltro, si inserì l'iniziativa del padre Niccolò III, politico abile e spregiudicato, intesa a frenare l'espansione di Venezia nel Polesine - e forse oltre il Po - pericolosa per le sorti del suo Stato. Il marchese estense ordinò segretamente al figlio di abbandonare il campo veneziano - il che B. puntualmente fece, passando l'Enza ed unendosi alle truppe milanesi - e poi cercò di salvare le apparenze, attribuendo al figlio il disonore dell'accaduto ed inviando un proprio cancelliere a Venezia per presentare le scuse. L'anno successivo ancora una volta toccò a B. salvarsi a stento dalla cattura, quando l'esercito del Visconti venne sgominato a Soncino dai soldati di Francesco Sforza. Avendo perduto tutto il proprio bagaglio, ne chiese la restituzione all'avversario, ma lo Sforza rispose con un diniego. Tuttavia il passaggio all'esercito milanese gli ottenne un certo risultato: nella pace di Cremona del 1441 il Visconti si impegnò ad assegnargli il dominio di Crema.
Morto Niccolò III nel dicembre del 1441, gli successe Lionello, fratello di Borso. Quali che fossero le ambizioni di B., non sarebbe stato possibile in ogni caso imporle alla corte e al popolo ferrarese: Lionello era stato legittimato dal padre nel 1429 e da lui esplicitamente designato suo successore nel testamento del 1441 e d'altra parte B., per tanti anni impegnato fuori Ferrara, non era in grado di far leva su di un proprio "partito". L'appoggio, offerto in quella occasione e, in seguito, al nuovo marchese non fu senza compensi, poiché gli vennero assegnati il Polesine e Rovigo con la città di Adria, il palazzo di Portamaggiore, le terre di Rubiera, San Martino in Rio ed altre in territorio di Reggio. Lionello, poi, lo inviò al duca di Milano: questi lo accolse con estrema cordialità e giunse addirittura a nominarlo figlio adottivo e a promettergli la successione nel dominio di Novara (così risulta da un documento del 14 genn. 1442; al riguardo cfr. Pardi, 1906, p. 18). Ben presto i rapporti col Visconti si guastarono: nell'agosto del 1443 B. rientrava a Ferrara, disgustato dal comportamento del duca milanese, il quale non solo gli aveva fatto intendere chiaramente di non sentirsi vincolato dalle promesse relative a Novara, ma lo aveva costretto anche a cedere Crema e ad accontentarsi delle minori rendite di Castelnuovo di Tortona.
Il ritorno di B. a Ferrara era, questa volta, definitivo. Destinato dal padre alla carriera militare, non era riuscito né ad affermarsi come condottiero, né ad acquisire un proprio dominio. Decideva allora di stabilirsi in patria e di dedicarsi al governo dello Stato ferrarese: in breve tempo diveniva il principale consigliere di Lionello.
Nel marzo del 1444 era inviato a Napoli a prendere la sposa promessa di Lionello, Maria figlia del re Alfonso. E a Napoli ritornò, sempre per incarico del fratello, pochi mesi più tardi con un incarico segreto: prospettare ad Alfonso l'idea di una successione dello stesso re nel ducato di Milano alla morte del Visconti e quindi indurlo ad approntare tutti i mezzi necessari alla realizzazione del progetto. Rientrò a Ferrara nell'aprile del 1445 e da allora non sembra essersi più mosso dalla città. L'autorità sempre crescente che gli derivava dalla stretta collaborazione con il fratello al governo dello Stato dovette procurargli quel "partito" che non era riuscito a formare intorno a lui sotto Niccolò III. Si può così spiegare la tranquilla successione di B. a Lionello quando questi morì improvvisamente il 1º ott. 1450.
Il testamento di Niccolò III designava alla successione Niccolò, figlio di Lionello. Ma questi era minorenne ed Ercole, figlio legittimo di Niccolò III e della sua terza moglie Rizzarda di Saluzzo, si trovava alla corte di Napoli, colà inviato nel 1446 insieme con l'altro fratello, pure legittimo, Sigismondo. Il Consiglio del Comune, convocato dal giudice dei Savi, si espresse all'unanimità per l'elezione di B. (cui, d'altra parte, il testamento di Niccolò III neppure accennava); elezione che va valutata tenendo comunque conto che B. aspettava intanto il verdetto nel palazzo di campagna di Belriguardo, circondato da gentiluomini come il fratello Meliaduse, Alberto Pio da Carpi, Corrado da Fogliano, Manfredo da Correggio, convenuti senza dubbio per appoggiare la sua causa. Poche settimane dopo, una bolla di papa Niccolò V ratificava l'accaduto, annullando le precedenti disposizioni e sancendo la successione ai figli di B. e, in mancanza di questi, ai fratelli legittimi o legittimati: la strada, almeno sul piano legale, era quindi definitivamente chiusa a Niccolò di Lionello, che il pontefice raccomandava alla carità paterna del nuovo signore.
Insediato stabilmente al governo dello Stato (anche se non mancarono opposizioni), B. si apprestò decisamente ad ampliare i confini del suo dominio e ad accrescere prestigio ed onori della propria famiglia, evitando guerre aperte e ricorrendo a fittissime trame diplomatiche.
Ebbe subito un primo successo quando nel 1452 ottenne dall'imperatore Federico III - grazie soprattutto all'intervento del segretario di questo, Enea Silvio Piccolomini, imparentato con B. e suo amico - il titolo ducale per Modena e Reggio dietro pagamento di un censo annuo di 4.000 fiorini d'oro (in seguito il censo venne diminuito). Federico III gli concedeva, inoltre, il titolo di conte di Rovigo e Comacchio e lo riconosceva signore di quella parte della Garfagnana che Niccolò III aveva conquistato nel 1430. Ma la nuova dignità non gli dette modo, peraltro, di inserirsi nel gioco delle grandi potenze italiane. B. resta in questi primi anni un isolato e le sue mire espansionistiche su Parma, in mano milanese, non trovano alcun sostegno. Per uscire dall'isolamento, decise di entrare a far parte della lega che il 30 agosto del 1454 - all'indomani, cioè, della pace di Lodi -Milano, Firenze e Venezia avevano concluso al fine di garantirsi reciprocamente l'integrità territoriale. Ma nemmeno questa mossa (B. aderì alla lega il 3 settembre) gli riuscì utile: Francesco Sforza rioccupò Castelnuovo parmense e Cuvriago, che Lionello aveva sottratto al ducato milanese alla morte di Filippo Maria Visconti, e a nulla valse il tentativo di B. di allacciare l'antica amicizia con Milano mediante il matrimonio della sorellastra Beatrice con il figlio dello Sforza, Tristano (28 sett. 1454). Soltanto dopo lunghe e difficili trattative, nell'ottobre del 1455, B. riuscì a riavere Cuvriago.
Intanto la situazione politica italiana si stava evolvendo verso un'alleanza di fatto tra Napoli, Milano e Firenze, con il conseguente isolamento di Venezia. B., che non aveva come Lionello legami di parentela con la casa regnante napoletana e che nutriva una profonda ostilità verso Milano a motivo sia dei suoi passati contrasti con il Visconti, sia ora della questione di Castelnuovo parmense, cominciò ad avvicinarsi in maniera sempre più sensibile a Venezia a partire dal 1456. Le conseguenze della sua scelta politica si videro subito nello sviluppo dei suoi rapporti con il pontefice e nella questione della successione nel Regno napoletano.
L'ascesa al soglio pontificio del Piccolomini aveva fatto nascere in B. forti speranze di ottenere nuovi onori e un valido appoggio per le sue aspirazioni d'ingrandimento territoriale. Perciò quando il pontefice, in viaggio verso Mantova - ove aveva convocato i principi della cristianità per preparare la crociata contro i Turchi -, giunse a Ferrara il 17 maggio 1459, B. lo accolse con grandissimi onori. Ma i colloqui con Pio II non dettero i risultati sperati. B. chiese il titolo ducale per Ferrara e l'abolizione del censo annuo che gli Estensi versavano alla Camera apostolica per il vicariato sulla città. Di fronte al diniego del papa, assunse un atteggiamento ostile verso la politica di questo, in particolare nella questione della crociata, e, pur senza arrivare ad una rottura aperta, si rifiutò di raggiungerlo a Mantova adducendo le scuse più varie.
In sostanza B., avendo visto che l'amicizia con il pontefice non riusciva a procurargli vantaggi concreti, non volle correre il rischio, assecondando la crociata, di guastare i buoni rapporti con Venezia- l'unica potenza sul cui appoggio poteva ancora sperare - che alla crociata era decisamente contraria per l'attivissimo commercio che svolgeva con Costantinopoli. B. continuò, perciò, a fare promesse al pontefice, senza poi curarsi di mantenerle: così, per esempio, si impegnò a consegnargli 300.000 fiorini, sempre per la crociata; ma quando nel 1460 giunsero a Ferrara gli agenti pontifici per dar luogo all'esazione, impedì loro di agire e li rinviò a Roma ("Borsum... inter subtitos voces applauserunt populi: in aliena terra nomen eius infame fuit" scriveva Pio II nei Commentarii;cfr. G. Cugnoni, p. 512).
Frattanto il 27 giugno 1458 a Napoli era morto Alfonso d'Aragona. Callisto III aveva rifiutato l'investitura al figlio di questo, Ferdinando, con il pretesto della sua nascita illegittima, e probabilmente perché progettava di dare la corona al proprio nipote Pier Luigi Borgia. Alla morte di Callisto III, nell'agosto dello stesso anno, mentre svaniva ogni possibilità per il Borgia, si presentava un nuovo pretendente, Giovanni d'Angiò, figlio di Renato, che approfittava della crisi per riprendere la politica paterna e contendere alla casa aragonese i diritti sulla corona napoletana. Ben presto, però, gli Stati italiani si schierarono a favore di Ferdinando e il nuovo pontefice Pio II risolveva la contesa concedendogli l'investitura. Non per questo, tuttavia, Giovanni d'Angiò rinunciò alle proprie speranze: Venezia gli dava il suo appoggio e B. ne seguiva l'esempio non tanto perché mosso dai vincoli di sangue che gli Estensi vantavano con la casa francese, quanto perché indotto dalla prospettiva dei vantaggi politici e territoriali che gli avrebbe aperto una sconfitta dell'alleanza sforzesco-aragonese.
La possibilità di un suo intervento a favore dell'Angioino era però ostacolata dal fatto che Ercole era stato allogato alla corte aragonese ed aveva addirittura ricevuto l'incarico di difendere la regione pugliese contro gli invasori francesi: B., forse memore della condotta del padre quando egli militava con Venezia, non esitò ad indurre Ercole al tradimento, a riversare sul fratello tutto il disonore di quel gesto e ad inviare a Napoli l'altro fratello Sigismondo per esprimere a quella corte i propri sentimenti di indignazione per tanto "fallimento". La guerra, però, volse a favore degli Aragonesi e il pretendente francese fu duramente battuto presso Troia, quando Ercole si salvò facendosi issare con le funi sulle mura della città.
Nel medesimo quadro della politica antimilanese e antinapoletana deve essere vista l'intromissione di B. nelle vicende interne di Firenze, che era alleata a Napoli e a Milano. Se alla morte di Cosimo il Vecchio (1º ag. 1464) la successione del figlio Piero era stata accettata dai Fiorentini senza rilevanti contrasti, perdurava tuttavia non sopita l'opposizione antimedicea. Alcuni - Luca Pitti, Angelo Acciaiuoli, Diotisalvi Neroni e Niccolò Soderini - si rivolsero a B. per ottenere un aiuto esterno alla loro azione. I contatti ebbero inizio nei primi mesi del 1455: la risposta fu immediata e positiva, accompagnata per di più dal consiglio di uccidere Piero de' Medici o almeno di allontanarlo dalla città. B. stava al giuoco, mettendosi a disposizione come intermediario fra il gruppo fiorentino e Venezia da un lato ed il condottiero Bartolomeo Colleoni dall'altro, mentre si assicurava un ingaggio per il proprio fratello Ercole. Alla morte improvvisa di Francesco Sforza (1466), si decise di passare subito all'azione, ma Piero de' Medici, informato per tempo da Giovanni Bentivoglio, preparò a Firenze un'adeguata difesa e, fallita la sorpresa, cadde la possibilità stessa del tentativo (2 sett. 1466). B. non volle però desistere; anzi moltiplicò gli approcci con Venezia per portare l'attacco decisivo a Firenze e Milano. L'accordo raggiunto con la Serenissima poneva precisi obiettivi all'impresa: la caduta dei Medici a Firenze, la conquista di Napoli da parte di Giovanni d'Angiò e la divisione del bottino sforzesco fra B. e Venezia. Ma l'esperienza del vecchio condottiero Colleoni, affrontato peraltro da un avversario come Federico da Montefeltro, non fu sufficiente ad assicurare la vittoria: nella battaglia della Molinella (25 luglio 1467), se le sorti non sembrarono favorire decisamente né l'uno né l'altro dei contendenti, di fatto il Colleoni venne respinto, mentre Ercole d'Este fu trasportato a Ferrara ferito seriamente al piede destro. La successiva pace, proclamata dal pontefice Paolo II il 25 apr. 1468, non soddisfece B., che venne incluso non tra le potenze ma tra gli Stati secondari (alla pari dei Senesi, ripeteva B., con sconforto).
Gli insuccessi della sua politica estera, se non lo convinsero ad abbandonare la ostilità verso Milano e Napoli, lo indussero, tuttavia, a ricercare, dopo la pace del 1468, l'amicizia del papa in modo da poter contare su un appoggio più ampio di quello che gli poteva derivare dall'alleanza della sola Venezia. L'occasione gli fu offerta dalla guerra di Rimini. Qui, nell'ottobre del 1468, era morto Sigismondo Malatesta. Il pontefice Paolo II pretendeva il ritorno della città alle dirette dipendenze di Roma, allo stesso modo di quanto era successo quattro anni prima a Cesena e Bertinoro. Ma la vedova di Sigismondo, Isotta, resisteva e l'inviato del papa, Roberto Malatesta, figlio naturale del defunto signore, dopo aver allontanato la matrigna e il presidio veneziano dalla città, se ne proclamò signore tradendo il proprio mandato. Paolo II cercò, allora, di costituire una lega contro Roberto e, dopo essersi assicurato l'appoggio di Napoli, sollecitò i Veneziani ad intervenire. L'accordo con la Serenissima non era, però, facile poiché anch'essa aspirava al dominio sulla città. B. si offrì come intermediario e riuscì, con costante e abile opera, a convincere i Veneziani all'alleanza con il papa.
Era per B. un grosso successo, che gli consentiva di ristabilire in termini più amichevoli i rapporti con Roma. E proprio contando sul consenso - o almeno sulla neutralità - del pontefice, B. elaborò un ulteriore piano per combattere l'alleanza sforzesco-aragonese: l'invasione del Regno da parte di Giovanni d'Angiò, con l'aiuto di Venezia, e attraverso lo Stato della Chiesa. Paolo II, dopo alcune esitazioni iniziali., finì per acconsentire. Ma la morte di Giovanni, avvenuta improvvisamente in Spagna il 16 dic. 1470, poneva fine ad ogni speranza di B. di sovvertire la situazione politica italiana.
In quest'ultimo periodo, dunque, la politica del duca estense è caratterizzata da due elementi, la persistente ostilità a Milano e a Napoli - nella non spenta speranza di ottenere ampliamenti territoriali a scapito del ducato sforzesco - e la stretta amicizia con il pontefice.
Nella lotta con Milano B. si trovava di fronte il giovane duca Galeazzo Maria, il quale non si limitò, come il padre, ad impedire la realizzazione dei vari progetti dell'Estense, ma si intromise nelle faccende della Romagna nell'intento di colpire B. proprio nella regione ove questi cercava di imporre Ferrara come centro di attrazione per i vari signorotti locali. Galeazzo Maria riuscì nell'estate del 1469 ad impedire che Imola passasse a B., intervenendo proprio nel momento in cui quest'ultimo stava per raggiungere al riguardo l'accordo con Taddeo Manfredi. Non solo, ma, insieme con Piero de' Medici, giunse anche a promuovere una congiura contro Borso. È questo, della congiura dei Pio di Carpi, uno degli avvenimenti più drammatici dell'ultimo periodo del duca estense.
I tre fratelli Pio, Galasso, Alberto e Giberto governavano insieme Carpi e gravi erano le ostilità fra i loro figli, e più propriamente fra i sette figli di Galasso, decisamente allineati con Milano e Firenze contro B., da un lato, ed il figlio di Alberto e quello di Giberto, favorevoli a B., dall'altro. Negli ambienti delle corti di Galeazzo Maria Sforza di Piero de' Medici si tentò di far leva sulle inquietudini di Carpi per colpire direttamente B., che doveva essere ucciso dopo avergli contrapposto il fratello Ercole, il quale si sarebbe trasferito ai servizi di Milano e Firenze dietro lauti compensi. Tramite degli accordi era stato designato Giovanni Ludovico Pio, figlio di Galasso. Ercole d'Este, accostato il Pio, seppe abilmente dissimulare, mostrandosi disposto alla cosa, ma provvide subito ad informare il fratello B., il quale ordì con lui un piano. Quando il 17 luglio 1469 i congiurati si presentarono ad Ercole per un accordo definitivo, vennero arrestati e Giovanni Ludovico Pio poco dopo fu decapitato in piazza. Ma non ci si limitò a queste misure: non solo si ordinò l'esproprio dei beni della moglie e dei figli di Giovanni, ma si dispose l'arresto degli altri fratelli ignari della congiura, i quali dovettero trascorrere molti anni in orribili carceri. Che B. li giudicasse tutti colpevoli è da escludere, anche perché essi furono tenaci nel rifiutare qualsiasi confessione di colpa pur quando veniva loro promessa, a questa condizione, la libertà.
L'amicizia con Paolo II consentì comunque a B. di realizzare una delle sue maggiori ambizioni, il conferimento della dignità ducale per la città di Ferrara per sé e per i suoi successori. La preoccupazione di Paolo II era quella di creare a Ferrara un vero e proprio antemurale contro le ambizioni espansionistiche di Venezia, consolidandovi un principato ligio a Roma. Aderendo alla richiesta di B. ed accordandogli un privilegio fino allora concesso solo ad Oddo Antonio da Montefeltro nel 1433, egli riteneva per un verso di rendersi ancor più fedeli gli Estensi e per un altro di rafforzare lo Stato della Chiesa. L'investitura ebbe luogo a Roma il 14 apr. 1471, giorno di Pasqua: i cronisti si soffermano a lungo sui particolari delle cerimonie, sullo sfarzo degli apparati, sulla ricchezza delle vesti e sulla distaccata munificenza di B., pronto in ogni occasione a gettare monete d'argento al popolo acclamante. Non regge l'accusa mossa a B. di scarsa prudenza e di ancor più colpevole imprevidenza per aver cercato e poi conseguito un titolo ducale, destinato inevitabilmente a ribadire i vincoli con la S. Sede e quindi a sortire, in prosieguo di tempo, risultati sfavorevoli agli Estensi. In realtà il titolo ducale accrebbe in qualche modo il prestigio di casa d'Este e non aggiunse altre difficoltà a quelle già esistenti; furono invece i mutati rapporti dello Stato ferrarese con le potenze italiane nonché il rafforzamento politico e militare del Papato a determinare, alla fine del Cinquecento, il tramonto dell'egemonia estense a Ferrara. Pranzi, feste, spettacoli rallegrarono il soggiorno romano di B., protrattosi per circa un mese. Il popolo, fra l'altro, gli offrì una giostra, cui presero parte due squadre di cavalieri ferraresi, fregiate rispettivamente delle insegne del "diamante" in onore di Ercole d'Este, e della "vela", in onore di Niccolò di Lionello.
Tornato a Ferrara dai trionfi romani il 18 maggio, B. si ritirò nella villa di Belfiore, stremato dalle febbri, né più si riprese dal male. Alla successione aveva pensato da tempo, segnalando fin dal 1461, benché in tutto segreto, il nome di Ercole all'imperatore Federico III per il ducato di Modena e Reggio e chiamando il fratello stesso a presiedere il suo Consiglio segreto nel 1470, vale a dire dopo la congiura dei Pio. Quando le condizioni di B. si rivelarono gravi, Ferrara assistette a tafferugli e risse fra i partigiani di Ercole e quelli di Niccolò di Lionello: il primo, sostenuto da Venezia, si era rinchiuso in Castelnuovo, appoggiato anche dall'altro fratello Alberto (figlio di Niccolò III e di Filippa della Tavola), passato decisamente dalla sua parte dopo aver recitato in un primo tempo il ruolo del candidato di Milano, mentre il secondo, appoggiato da Mantova, aveva intanto introdotto in città un gruppo di armati. B., nel tentativo di metter pace fra le fazioni, aveva ordinato a Niccolò di ritirarsi a Mantova e ad Ercole di lasciare Ferrara per Modena; ma quest'ultimo si era ben guardato dall'obbedire.
B. morì a Ferrara, in Castelvecchio, il 19 ag. 1471. Il giorno dopo il fratello Ercole veniva proclamato signore di Ferrara e rivestito delle insegne ducali; lontano Niccolò, egli aveva raggiunto un accordo con il fratello Alberto, concedendogli Rovigo con il suo territorio, le valli di Fratta, Casaglia, Corbola e Papozzo, Sassuolo, Castelnuovo di Tortona e, a Ferrara, il palazzo Schifanoia per una rendita complessiva di circa 25.000 ducati. Di fatto si realizzavano così le intenzioni di Borso.
La sua politica estera aveva seguito - come si è visto - due indirizzi fondamentali: da un lato l'amicizia con Venezia (dopo il voltafaccia giovanile, suggerito del resto dal padre Niccolò III), per cui egli rappresentò una parentesi del tutto eccezionale nel contesto dei tradizionali, duri rapporti fra la Serenissima e Ferrara; dall'altro lato, l'allineamento con la Francia, dimostrato mediante la sollecitazione e l'appoggio a Giovanni d'Angiò e la conseguente presa di posizione contro gli Aragonesi. Altri motivi connessi strettamente ai due primi erano la rivalità con Milano, colpevole di non aver concesso agli Estensi quanto promesso od almeno fatto balenare al tempo di Filippo Maria Visconti, e la conseguente ruggine con i Medici, strettamente uniti a Milano. Nelle varie situazioni, che lo videro talvolta comprimario o addirittura protagonista, egli dimostrò una notevole capacità diplomatica, anche se la sua azione fu di rado coronata da successo.
In fatto di ordinamenti interni, di notevole importanza sono glì Statuta Civitatis Ferrariae, editi a stampa nel 1476 ma promulgati nel 1456 e compilati con la collaborazione di cinque esperti di legge, due notai, due rappresentanti delle arti e due giureconsulti incaricati di una sorta di supervisione; in questi statuti, se non si venne meno ad una linea ormai tradizionale di limitazione dell'autonomia comunale a vantaggio del potere del principe, si nota una attenuazione di quelle disposizioni dure e repressive che avevano caratterizzato gli Statuti ferraresi del 1287. B., comunque, continuò la politica, che era stata prima del padre e poi di Lionello, intesa a creare una struttura statale alle dirette dipendenze del principe al di sopra delle amministrazioni autonome dei Comuni compresi nei domini estensi, al fine di limitare e di controllare queste ultime. Si preoccupò da un lato di perfezionare il sistema tributario, e dall'altro di istituire alcune magistrature supreme dello Stato. A lui sembra doversi far risalire la nascita - o quanto meno il miglior funzionamento - del Consiglio di giustizia (il Pardi lo ritiene in vita prima del 1450), composto di cittadini da lui nominati e competente a giudicare, oltre che sugli appelli dalle magistrature cittadine e i giudici inferiori, anche su tutte le cause che richiedessero indagini complesse - con potere, quindi, di avocare a sé le cause da ogni altro tribunale - e sui reati politici. B. istituì anche il Consiglio segreto, organo consultivo che doveva coadiuvare stabilmente il duca nel governo dello Stato, e titolare di uno specifico compito di controllo sugli altri organi statali e sulle autonomie interne del ducato.
L'impulso dato agli studi umanistici in Ferrara, sotto Lionello, soprattutto dalla presenza di Guarino Veronese, non si estingue sotto il ducato di B., anche se meno direttamente attivo appare il ruolo personale del duca nel circolo del Guarino. Nella letteratura storica - in Venturi, Pardi, anche, in certa misura, nel Bertoni - compare un giudizio pesantemente negativo sulla cultura di B., valutato col metro di paragone di Lionello da un lato, e in nome di un ideale "classico" di cultura dall'altro; e a nota qualificante di B. si adotta il gusto per il lusso, per il facile sfarzo. Di fatto, il fervore di studi non viene a spegnersi sotto Borso. Lo Studio - cui appunto la presenza del Guarino (che continuò a risiedere in Ferrara fino alla sua morte, nel 1460: e dopo di lui il figlio Battista troverà in B. appoggio e protezione) aveva conferito prestigio - è oggetto di precisi provvedimenti da parte sua (Pardi, p. 44). Innumerevoli sono le opere, poetiche o erudite, dedicate al duca da una folla di umanisti che venivano così a fruire del suo generoso mecenatismo (una lunga lista è ricostruita dal Venturi, poi dal Pardi e dal Bertoni [1903, p. 25] sulla base soprattutto delle registrazioni di compensi annotati nei libri di conti, e dei manoscritti conservati nella Biblioteca Estense: ma la mole e la varietà delle opere è ben più ingente: basta ricorrere ai volumi dell'Iter italicum, del Kristeller per rendersene conto): se nessuna grande personalità prevale, molte figure notevoli emergono però in questo mondo di fitti rapporti letterari (così un Tito Vespasiano Strozzi, un Michele Savonarola, un Bartolomeo della Fonte, un Francesco Ariosto).
Per quanto riguarda l'educazione ricevuta da B., sappiamo che ebbe per precettori Giacomo Bisi, figura pressoché sconosciuta, e il dotto Guglielmo Capello; Giovanni Toscanella gli fu poi accanto in qualità di segretario e cancelliere. Sembra comunque che B. non fosse in grado di leggere il latino, come appare dalla nota dedica che Carlo di San Giorgio gl'indirizza nella traduzione italiana dell'operetta sulla congiura dei Pio, deprecando il fatto che "la fortuna inimica de ogni virtuoso huomo non ha voluto a li altri tuoi singulari ornamenti adiungere l'ornamento delle littere..." (p. 377): "...Havendo io deliberato ad defensione del tuo glorioso nome... in latino scrivere il tradimento contra di te a' dì passati tractato... quando il mio libretto ad te presentare feci, furiosamente et aspramente da... Messer Teophilo [è T. Calcagnini] represo et quasi calonniato fui, come quasi uno grandissimo errore commesso havesse a scrivere cotale faccenda in latino et non nel nostro vulgare parlare..." (ibid.). Pertanto il contributo e l'impulso personale di B. vanno più nel senso di un'affermazione del volgare, di una creazione di quel tipo di cultura cortigiana che costituirà la caratteristica di Ferrara e che genererà in seguito le opere di un Boiardo e di un Ariosto (e con B. fu in rapporto il giovane Boiardo, che gli dedicava i Carmina de laudibus Estensium e che lo accompagnava a Roma nel 1471). Ché se non leggeva il latino, B. leggeva e, sembra, con fervore traduzioni volgari e, soprattutto, opere francesi: così nel 1461 si faceva portare in villa "una Bibbia in gallico" e un "Lanzaloto in vulgare" insieme a un altro "Lanzaloto in franzese" (Bertoni, 1918-19, p. 119); nel 1466 aveva presso di sé un "Theseo... in volgare" (Bertoni, 1926, p. 706). E nel 1470 scriveva al conte Ludovico di Cunio: "... Nuj habiamo horamaj forniti et compiti di legere tutj li nostri libri franzisi che nui se ritroviamo havere presso de Nuj. Et... vi mandiamo questo nostro cavalaro a posta pregandovi et incaricandovi ne le vogliatj mandare carico di quanti più libri francisi vuj poteti, cioè de quelli de la tavola vecchia, recordandovi che ne receveremo magiore piacere et contento che di una citade che nui guadagnassemo" (Bertoni, 1926, pp. 707 s. n. 1).
Ed è questa situazione culturale che si riflette pienamente anche nelle cure dedicate alla biblioteca: l'impianto dato da Niccolò III e da Lionello si accresce, l'organizzazione si precisa (Bertoni, 1903, p. 22), si redige (1467) un nuovo inventario diviso per settori corrispondenti alle diverse lingue: ma, soprattutto, si afferma una nuova funzione della biblioteca: una funzione cioè non puramente di conservazione gelosa, ma di larga circolazione del libro, messo facilmente a disposizione di professori dello Studio, di amici, di cortigiani. E tale circolazione è vivace e continua nell'ambiente di corte soprattutto per quanto riguarda le opere volgari e francesi (Bertoni, 1903, pp. 53 ss.).
A questa liberalità nel mettere a disposizione la sua biblioteca, si univa in B. ciò che è stato definito un suo amore "da bibliofilo" (Fava, p. 46) per il libro, che lo induceva a estendere largamente la sua cura alla rilegatura ed alla miniatura.
Per la rilegatura, pochi esempi purtroppo ci rimangono, ma sufficienti a confermare un alto grado di raffinatezza (cfr. De Marinis). E quanto alla straordinaria fioritura della miniatura sotto B., essa segna l'ultimo e massimo splendore di tale arte in Ferrara: basti ricordare la Bibbia latina in due volumi detta appunto la "Bibbia di Borso d'Este" (Modena, Bibl. Estense, V. G. 12, lat. 429) eseguita dal 1455 al 1461, o i libri di culto della Certosa di Ferrara che furono appunto commessi da B. stesso (v., per un elenco parziale dei libri miniati da lui ordinati, Fava-Salmi, 1950).
Anche altre arti minori conoscono sotto B. una fioritura di eccezione: così per la tessitura, di cui si promuove lo sviluppo in Ferrara anche mediante divieti di importazione dall'esterno; così per la ricca produzione degli arazzi (cfr. G. Campori, L'arazzeria estense, Modena 1876) che comportava l'impiego di disegnatori provenienti anche dalla Francia (grave la perdita di gran parte di tale produzione, che avrebbe fornito, accanto agli affreschi, un vivace, e dettagliato quadro della vita di corte sotto B.); così per l'arte della medaglia, e per l'arte della scenografia, che in occasione delle feste grandiose non doveva mancare di impiegare l'estro, la fantasia e il gusto degli artisti, ferraresi e non (soprattutto in occasione dei vari passaggi per Ferrara dell'imperatore, e di quello del pontefice Pio II, e in occasione del soggiorno dello stesso B. a Roma, con i suoi tornei e cerimonie descritti da Francesco Ariosto), per l'arte dell'intaglio, e dell'intarsio in legno, ecc.
Non è qui la sede per elencare le principali opere di pittura, scultura e architettura prodotte in Ferrara sotto il dominio di B., facilmente reperibile nella letteratura (cfr., per es., la buona esposizione di Gruyer). È invece il caso di sottolineare come, per quanto riguarda il rapporto con le arti, dopo lo spoglio dei documenti estensi compiuto dal Campori e dal Venturi (del quale ultimo ricordiamo solo L'arte a Ferrara nel periodo di B...., in Riv. stor. ital.,I [1885], in quanto i suoi studi sono ampiamente citati nella letteratura successiva), la figura di B. mecenate sia rimasta essenzialmente, nella letteratura, quella delineata dal Venturi nei suoi numerosi studi sui vari aspetti delle arti figurative alla corte estense. Ancora nel 1937 il Venturi, pur notando nel carattere di B. generosità, bonomia, raffinatezza di gusto, rileva come, mentre sotto Lionello l'impulso alla vita artistica veniva dato dal "principe", con B. tale impulso proverrebbe piuttosto dai Savi del Comune e da quel mondo di eruditi che si era formato sotto il fratello. B. in sostanza si sarebbe lasciato assorbire dall'amore per le cacce e per le feste, solo inteso ad aumentare il suo prestigio attraverso la ricchezza dei suoi gioielli e dell'abbigliamento. Ma già il Gruyer accenna a un punto di vista più positivo nella caratterizzazione di questo duca (I, pp. 47-69), che sembra invero non aver nulla da invidiare, come mecenate, al fratello. Proprio il suo amore per il fasto, intanto, produsse l'eccezionale incremento delle arti minori già menzionato, in misura tale da far supporre una raffinatezza qualitativa del gusto oltre e al di là della predilezione per facili effetti esteriori. E circa l'influsso che la politica di B. pare aver avuto nello sviluppo delle arti, ricerche puntuali sono ancora da fare: importanza in tal senso potrebbe rivelare la corrispondenza degli "oratori" (B. è stato il primo Estense ad avere ambasciatori residenti nelle principali città d'Italia); e si potrebbe indicare l'apporto di influssi prodotto sull'ambiente ferrarese dai ricchi corteggi imperiali e papali (nei passaggi già menzionati) e dagli scambi di doni di grande pregio compiuti in tali occasioni (basti vedere negli inventari: Campori, 1870). Sempre all'influsso della politica sullo sviluppo artistico si dovrebbe collegare il discorso relativo agli influssi più specificamente gotici (specie di gotico internazionale) e fiamminghi: non si dimentichi il soggiorno a Ferrara di Roger van der Weyden, in viaggio verso Roma, e la presenza di nomi di artisti fiamminghi o francesi che si rileva nei pagamenti. Questo incontro di correnti artistiche a Ferrara, tra Nord (l'Oltralpe, Milano, Venezia) e il Centro (Toscana), diede luogo appunto sotto il dominio di B. a una scuola pittorica "ferrarese" che proprio dalla simultaneità delle influenze contraddittorie acquista il suo fascino: il tipo di decorazione, l'importanza data al paesaggio rinviano al gotico internazionale, mentre il rapporto del paesaggio stesso con i personaggi che vi si inseriscono costantemente ha un che di classico che ricorda non solo - in generale - la presenza in Ferrara di numerosi artisti fiorentini, ma in maniera singolare Piero della Francesca, che proprio da B. fu chiamato a Ferrara (G. Vasari, Le vite..., a cura di G. Milanesi, II, Firenze 1878, pp. 491 s.).
Tra scultori fiorentini, del resto, aveva già avuto luogo il concorso per il monumento a Niccolò III, e molto probabilmente nel 1443, recandosi a Padova, Donatello passò da Ferrara e vide il modello vincitore del fiorentino N. Baroncelli. E Donatello fu anche a Ferrara (e forse vi lavorò; cfr. Colasanti, 1917) oltre che a Modena per il monumento a B., che doveva essere compiuto entro il 1452, ma che - non sappiamo perché - non venne poi mai eseguito. Certo è che, eretta la statua a Niccolò (1451), B. venne rappresentato sempre dal Baroncelli in una statua bronzea che lo raffigura seduto e fu il primo sovrano italiano che vide la propria immagine su una pubblica piazza (Müntz, Hist. de l'art pendant la Renaissance, p. 146).
Di Piero della Francesca nulla resta in Ferrara, ma gli echi del suo soggiorno sono riscontrabili, oltre che nella pittura, anche nella miniatura (Salmi, 1958 e 1961).
Proprio il carattere, comune ai due cicli più monumentali dell'arte ferrarese - la Bibbia miniata e gli affreschi di Schifanoia -, opere di collaborazione di vari artisti, fa supporre un ruolo di B. più importante di quanto comunemente si valuti: lo spirito comune che le informa (per la Bibbia si è parlato di "tono cortigiano unitario", Salmi, 1943, p. 370), oltre a una vera e propria organizzazione dello spazio (per Schifanoia, cfr. Mercier), presuppongono un intervento attivo da parte del committente.
È certo che B. diede anche un grande impulso allo sviluppo dell'architettura, commissionando l'erezione di ville e palazzi, nonché completando opere già precedentemente iniziate, come la torre campanaria della cattedrale, o la sopraelevazione di quel palazzo di Schifanoia che rappresenta uno dei massimi monumenti della pittura a fresco ferrarese e del Rinascimento in generale; né si dovrebbe tralasciare l'impulso alle opere di bonifica per le quali intervenivano ingegneri di grande fama e abilità.
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Fonti eBibl.: Il vastissimo materiale su B. conservato inedito nel fondo Estense dell'Archivio di Stato di Modena è rimasto finora quasi del tutto inesplorato con le eccezioni del Pardi e del Lazzari che lo hanno utilizzato, però, soltanto parzialmente. Una accurata biografia di B. - è evidente - non può prescindere da un preciso esame di detto materiale. Tra le fonti edite sono di una certa utilità - almeno per tratteggiare nelle grandi linee la sua vita - i Pii secundi pontificis maximi commentarii, Francofurti 1614 (integrati da G. Cugnoni, in Atti della R. Accad. dei Lincei, s. 3, classe scienze mor. stor. e filol., VIII [1883], pp. 319 ss., 510 ss.); G. Sardi, Libro delle historie ferraresi, Ferrara 1646, pp. 161-171 e varie cronache edite dal Muratori. Tra queste ricordiamo: Diaria Neapolitana, in L. A. Muratori, Rerum Italic. Scriptores, XXI, Mediolani 1732, col. 1129; Gasparis Veronensis De gestis tempore pontificis maximi Pauli secundi, ibid., 2 ediz., III, 16, a cura di G. Zippel, p. 45; Michele Canensi, De vita et pontificatu Pauli secundi,ibid., pp. 170 ss.; Iohannis Ferrariensis Ex annalium libris marchionum estensium excerpta,ibid., XX, 2, a cura di L. Simeoni, ad Indicem;Iohannis Simonetae Rerum gestarum Francisci Sfortiae...,ibid., XXI, 2, a cura di G. Soranzo, ad Indicem; Cronaca di ser Guerriero da Gubbio,ibid., XXI, 4, a cura di G. Mazzatinti, ad Indicem; Annales forolivienses,ibid., XXII, 2, a cura di G. Mazzatinti, pp. 99 s.; Cronica gestorum in partibus Lombardiae,ibid., XXII, 3, a cura di G. Bonazzi, pp. 12, 39, 84; Diario ferrarese dall'anno1409 sino al 1502,ibid., XXIV, 7, a cura di G. Pardi, ad Indicem. Documenti di un certo interesse in: C. Cavedoni, Tre lettere greco-latine..., in Atti e mem. delle Dep. di st. patria per le prov. moden. e parm., III (1865), p. 281; A. Cappelli, Consolatoria di B. d'E, ibid., p. 355; Lettera di B. d'E. ... al suo referendario L. Casella, Rovigo 1865, B. d'E. Lettera inedita al suo segretario G. Compagno..., Ferrara 1869. Per la congiura dei Pio, si veda Carlo di San Giorgio, Congiura contro il duca B. d'E., a cura di A. Cappelli, in Atti e mem. delle RR. Deput. di st. patria per le prov. modenesi e parmensi, II (1864), pp. 367-416.
Le uniche monografie su B. sono quelle di G. Pardi, B. d'E. duca di Ferrara, in Studi storici, XV (1906), pp. 3-58, 133-203, 241-288, 377-415; XVI (1907), pp. 113-167; e di A. Lazzari, Il primo duca di Ferrara,B. d'E., Ferrara 1945. Sul dominio di B. in Garfagnana si veda C. De Stefani, Storia dei Comuni della Garfagnana, in Atti e mem. delle RR. Deput. di st. patria per le prov. mod., s. 7, III (1923), pp. 202-204. Si vedano, infine, A. Lazzari, Un dialogo di L. Carbone in lode del duca B., in Atti e mem. della Deput. ferrar. di st. patria, XXVII (1928), pp. 127 ss.; Id., Come parlava il duca B. d'E., in Attraverso la storia di Ferrara,ibid., n.s., X (1954), pp. 97 ss. Per i molteplici rapporti di letterati e umanisti con l'ambiente ferrarese, offrono materiale G. Carducci, La gioventù di L. Ariosto e la poesia latina in Ferrara, in Opere (ediz. naz.), XIII, pp. 115-374, passim; G.Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara, Ginevra 1921, passim;Id., L'"Orlando furioso" e la Rinascenza a Ferrara, Modena 1919, passim. Sui motivi di fondo della cultura ferrarese e sul suo rapporto con la corte, v. E. Garin, Motivi della cultura filosofica ferrarese nel Rinascimento, in La cultura filosofica del Rinasc. ital., Firenze 1961, pp. 402-431. Circa l'apertura della corte estense verso una cultura "volgare", v. P. V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze 1963, pp. 2 ss., passim. Sullo studio delle scienze, in particolare astrologiche, v. A. Warburg, Italienische Kunst und internationale Astrologie im Palazzo Schifanoia zu Ferrara, in Atti del X Congresso di st. dell'arte in Roma, Roma 1922, pp. 179-193; e v. anche A. Rotondò, Pellegrino Prisciani (1435 c.-1518), in Rinascimento, XI (1960), pp. 69-110; S. Samek Ludovici, Il De Sphaera estense e l'iconografia astrologica, Milano 1958. Sulla biblioteca: G. Bertoni, La Biblioteca Estense e la cultura ferrarese al tempo del duca Ercole I, Torino 1903; Id., Lettori di romanzi francesi nel '400 alla corte estense, in Romania, XLV (1918-19), pp. 117-122; Id., La Biblioteca di B. d'E., in Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, LXI (1926), pp. 705-728; D. Fava, La Biblioteca Estense e il suo sviluppo storico, Modena 1925. Gran parte dei libri miniati sotto B. sono descritti in D. Fava-M. Salmi, Imss. miniati della Biblioteca Estense di Modena, I, Firenze 1950, passim;ma si veda anche: Tesori delle Biblioteche d'Italia,Emilia e Romagna, G. Agnelli, Prov. di Ferrara, Milano 1932, pp. 41 ss.; La Bibbia di B. d'E. riprodotta integralmente per mandato di G. Treccani con documenti e studio storico artistico di A. Venturi, 2 voll., Milano 1937 (si tenga presente che le riproduzioni sono ben lungi dall'avvicinarsi all'originale; una descrizione sommaria è anche in Fava-Salmi 1950, pp. 90-133, come pure - con bibl. - in G. Muzzioli, Mostra storica nazionale della miniatura, catal., Firenze 1953, pp. 346-348; catal., nel quale sono descritti numerosi altri mss. miniati del tempo di B.): in questa ediz. una esatta storia dell'acquisto e donazione alle pp. 61-68; per la storia della rilegatura della Bibbia si veda T. De Marinis, La legatura artistica in Italia nei secc. XV e XVI, II, Firenze 1960, pp. 35-50, passim (pp. 47-49 un elenco dei libri di B.; alle pp. 35-41 inventario incompleto dei libri di B. del 1467 già pubbl. da L. N. Cittadella, 1875; Bertoni, 1903 e 1926). Dei numerosi scritti di M. Salmi sulla miniatura ferrarese si vedano: La Bibbia di B.... e Piero della Francesca, in La Rinascita, VI (1943), pp. 365-382; Aspetti della cultura figurativa di Padova e di Ferrara nella miniatura del primo Rinasc., in Arte veneta, VIII (1954), pp. 131-141; Echi della pittura nella miniat. ferrarese del Rinasc., in Commentari, IX (1958), pp. 88-98; Schifanoia e la miniat.ferrarese,ibid., XII (1961), pp. 38-51 Estratti degli inventari del guardaroba estense in G. Campori, Racc. di catal. ed inventari inediti..., Modena 1870, passim. Documenti sugli artisti in G. Campori, Gli artisti ital. e stranieri negli Stati estensi, Modena 1855. Per la pittura ferrarese oltre a G. Gruyer, L'art ferrarais à l'époque des princes d'Este, I-II, Paris 1897, si veda R. Longhi, Officina ferrarese, Firenze 1956 con ampia bibl. In particolare, per Schifanoia, si veda P. D'Ancona, I mesi di Schifanoia, Milano 1954, oltre a G. Mercier, L'organisation de l'éspace dans les fresques du palais..., in Information d'histoire de l'art, XIII (1968), pp. 82-84 e, per il portale, E. Ruhmer, in Pantheon, XXVI (1968), pp. 197-207. Per Donatello nel dominio estense si veda, oltre a W. Haftmann, Das italienische Säulenmonument, Leipzig 1939, pp. 145 ss., G. Bertoni-E. P. Vicini, Donatello a Modena, in Rass. d'arte, V (1905), pp. 69 ss.; e A. Colasanti, in Boll. d'arte, XI (1917), pp. 93 s.
L. Chiappini