BORROMEO ARESE, Giovanni Benedetto
Primogenito di Carlo, poi viceré di Napoli, e della contessa Giovanna Odescalchi nipote di papa Innocenzo XI, nacque il 1º luglio 1679, ereditando i titoli di conte d'Arona e marchese d'Angera. Divenuto giovanissimo prefetto delle milizie nei territori del Verbano, si interessò anche a opere di mecenatismo culturale e religioso, promuovendo presso il collegio di Arona un corso di studi di filosofia, affidato ai gesuiti. Inviato nel 1701 come rappresentante dello Stato di Milano in missioni diplomatiche di scarsa importanza a Roma e a Napoli, estese le relazioni di prestigio del suo casato, sposando nel 1707 Clelia, figlia del patrizio genovese duca del Grillo, uno tra gli esponenti dell'aristocrazia ligure più devoti alla monarchia spagnola, da cui aveva ricevuto il riconoscimento del feudo di Mondragone nel Regno di Napoli. Grande di Spagna, il B. si dedicò più da vicino, dopo il passaggio di Milano al domimo degli Asburgo, alle fortune economiche della famiglia, guardando ora alle nuove possibilità di lucro offerte dall'attività manifatturiera e commerciale.
Già proprietario di mulini e di battitori di carta nel circondario di Intra, fu promotore, con Giuseppe Ronzio, nel 1720, di una "Casa di negozio" a Milano, intesa a rilanciare la produzione tessile lombarda e ad attenuare nello stesso tempo gli oneri delle importazioni di manufatti dall'estero, specialmente dalla Francia, e i tradizionali gravami imposti dai privilegi e dagli interessi settoriali delle vecchie corporazioni mercantili.
L'iniziativa, che si rifaceva per tanti versi a un progetto similare presentato al Senato bolognese, nel 1714, da Domenico Maria Gherlini, avrebbe dovuto sovrintendere a "tutte le sorti di manifatture" in "connessione di traffico con tutti li bottegari e fabbricatori di qualsiasi sorta di manifatture e mercanzie, tanto di questa metropoli, quanto delle altre città dello Stato". La nuova impresa - fondata con capitali di azionisti, amministrata e diretta da alcuni delegati della Congregazione del patrimonio e da quattro persone esperte nell'attività manifatturiera - avrebbe dovuto provvedere alla istituzione e alla gestione di nuove fabbriche, non escludendo dal godimento di "proporzionati" interessi "quei fabbricatori e introduttori di manifatture", che, pur non disponendo di capitale liquido, avessero voluto dedicarsi personalmente all'amministrazione di questa o quella fabbrica dipendente dalla casa madre. Quest'ultima avrebbe dovuto a sua volta occuparsi, attraverso una propria rete di agenti, dello smercio della produzione locale sui mercati tedeschi e in genere degli Stati ereditari della monarchia; erigere filatoi per le sete con annessi reparti di tintoria, provvedendo nel minor tempo possibile gli opifici di tessitura di sete gregge, "mentre in oggi gli mercanti professori non ponno averle, se non in lungo tempo, dalle monache d'alcuni monisteri"; fissare la quantità di materia greggia superflua che potesse essere esportata senza danno, e così via.
Il progetto, steso dal Ronzio, fu accolto in via preliminare dall'amministrazione austriaca, mentre nel gennaio 1720 - ammesso ormai di fatto, anche se non ancora formalmente, l'esercizio dell'industria da parte dei nobili - il governatore conte di Colloredo affidava al B. l'incarico di realizzare l'iniziativa con l'aiuto di due assistenti, il conte Guido Stampa e il conte Guido Pietrasanta.
Sorta con il nome di "Casa di San Giuseppe", per azioni da 500 lire, all'interesse fisso del 4 per cento, oltre gli utili eventuali, la società comportava una concorrenza di 4 milioni di capitale; varcato tale limite, le azioni successive non avrebbero avuto diritto se non al puro interesse; l'intero fondo sociale avrebbe dovuto comunque essere impiegato esclusivamente nel finanziamento delle manifatture. Nella direzione della "Casa" il B. assumeva l'incarico di "gran conservatore", mentre il consiglio d'amministrazione dell'istituto veniva composto di patrizi e di negozianti con netta divisione di competenze e di responsabilità. I risultati della nuova impresa furono inizialmente positivi. Venne avviata la fabbricazione di calze, coperte e altre "drapperie sottili di lanificio" sia ad ago che a telaio e "della maggior perfezione": manifattura del tutto nuova per il mercato di Milano, che si provvedeva in precedenza in Francia e in Svizzera; e anche quella, da lungo tempo abbandonata, dei saponi. Si sperimentò pure la coltivazione della soda per l'innanzi importata dalla Spagna, nell'intento di procurarsi sul posto uno dei principali ingredienti per la produzione dei saponi e insieme un elemento accessorio, di alto costo, per quella dei panni di lana e delle vetrerie. Il programma della "Casa" prevedeva del resto anche la fabbrica delle saglie d'ogni qualità, l'istituzione di grandi setifici, e l'annessione di un "ridotto" per dar lavoro ai vagabondi e mendicanti, venendo incontro in questo senso agli intendimenti di lotta contro il pauperismo manifestati dal governo austriaco.
Grandi difficoltà insorsero tuttavia successivamente, al momento dell'approvazione degli statuti definitivi e delle proposte della "Casa" per la concessione di alcuni privilegi di lavorazione e commerciali. Nell'estate del 1721 il B. sottoponeva a una giunta di ministri regi appositamente istituita una relazione sull'attività e sulla gestione dell'impresa; ma, dopo la richiesta da parte di tale commissione del parere al fisco e la delega a un suo membro di raccogliere anche l'opinione dei negozianti e degli esperti, non si rinviene più alcuna traccia dell'iniziativa.
Essa venne probabilmente a cadere per la reazione, coalizzata, degli ambienti mercantili e delle corporazioni. L'ordinamento dell'azienda contemplava, infatti, che gli operai e i maestri destinati alle sue manifatture "non abbino da essere approvati da veruna badia, università, camera o collegio o qualsiasivoglia corpo, fuori che dalla Congregazione generale della Casa", mentre pretendeva, per altra parte, che nessun negoziante potesse "erigere fabbriche già introdotte dalla Casa, nello Stato, ma solo interessarsi in essa con azioni", e inoltre, la privativa per nuovi edifici, strumenti ed utensili introdotti o fatti introdurre, con facoltà d'imporre sequestri e contravvenzioni e il divieto di esportare, senza suo speciale consenso, le materie gregge necessarie alle manifatture. Anche se non è da escludere l'ipotesi che alla sua cessazione contribuì, piuttosto, il rifiuto dell'amministrazione di accordare le speciali prerogative richieste tanto per la "Casa" che per "li bisogni dei capitalisti" e i gratuiti "assegni camerali" reclamati dal consiglio dell'istituto.
Nel breve periodo dell'occupazione sabauda del Milanese il B. venne chiamato, il 12 luilio 1734, fra i Sessanta Decurioni del Consiglio generale di Milano al posto del padre Carlo e fu riconfermato, poi al ritorno degli Asburgo, il 26 dic. 1736. Sotto Carlo VI, il B. fu confermato, anche nel feudo di Maccagno Inferiore, il cui possesso era già stato riconosciuto al padre da un diploma imperiale del 17 nov. 1718, con il diritto di batter moneta e il titolo di vicario del Sacro Romano Impero.
Morì il 18 marzo 1744: al posto di decurione gli succedeva, il 7 aprile, il figlio Renato (1710-1778).
Fonti eBibl.: Archivio di Stato di Milano, Commercio, p.a. cart. 2; F. Calvi, Ilpatriziato milanese, in Arch. stor. lombardo, I (1874), pp. 430-431; L. Vischi, La società palatina di Milano,ibid., VII (1880), p. 412; E. Verga, Le leggi suntuarie e la decadenza dell'industria in Milano 1565-1750, ibid., XXVII (1900), pp. 96 ss.; F. Arese, Elenco dei magistrati patrizi di Milano…, ibid., LXXXIV (1957), pp. 178-179; A. Annoni, Gli inizi della domin. austriaca, in Storia di Milano, XII, Milano 1959, pp. 147-148; M. Roani, L'economia milanese nel Settecento,ibid., p. 501; B. Caizzi, Industria,commercio e banca in Lombardia nel XVIII secolo, Milano 1968, p. 36; F. Calvi, Fam. notabili milanesi, II, tav. XIII; V. Spreti, Encicl. storico-nob. italiana, II, p. 145.