Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante gli anni Venti, la Russia vive un autentico rinascimento culturale, qualcosa di diverso da ciò che accadeva sulla scena artistica degli altri Paesi. Gli scambi tra romanzieri, poeti, artisti, critici, storici, scienziati, danno luogo a una sorta di fecondazione trasversale, dalla quale deriva una cultura di insolita vitalità e capacità, una straordinaria curva ascendente nella civiltà europea. Fra i protagonisti di questa “magnifica fioritura”, Boris Pasternak occupa un posto di grande rilievo. Il suo nome è conosciuto in tutto il mondo per il romanzo Il dottor Zivago ma in realtà egli è uno dei principali poeti lirici russi di metà Novecento, al pari di Anna Achmatova, Marina Cvetaeva e Osip Mandel’štam, con i quali per altro egli stringe un profondo sodalizio spirituale. La pubblicazione del romanzo Il dottor Zivago, uscito in Italia in prima edizione mondiale nel 1957, gli vale il premio Nobel, che però provoca nei suoi confronti l’ostilità e la persecuzione da parte del Partito Comunista.
Lo spazio della poesia
Boris Pasternak
Il dottor Živago
Un giorno, in ottobre, Jurij Andrèevič disse a Larisa Fëdorovna: “Sai, pare che dovrò lasciare il posto. È sempre la solita storia. Comincia nel migliore dei modi: ’Noi siamo sempre contenti del lavoro onesto. E se avete delle idee, specie se nuove, eccetera, eccetera, figuratevi! Siate il benvenuto. Lavorate, lottate, sperimentate.’ Alla prova dei fatti, per idee s’intende soltanto la loro esteriorità, il contorno verbale destinato a esaltare la rivoluzione e le autorità costituite. È deprimente. Io non ne sono capace. Forse, nella realtà, hanno ragione. Io non sono con loro. Ma mi è difficile conciliarmi con l’idea che siano eroi, anime eccelse e io un’animuccia meschina che sta per l’oscurantismo e l’asservimento dell’uomo. [...] Chiederò io stesso di essere licenziato dal Gubzdràv e dall’istituto, mentre cercherò di restare all’ospedale finché non mi cacceranno. Non ti voglio spaventare, ma a volte ho la sensazione che un giorno o l’altro sarò arrestato”.
B. Pasternak, Il dottor Živago, Milano, Feltrinelli, 2005
Boris Pasternak è uno dei maggiori eredi novecenteschi del simbolismo russo. Poeta e romanziere, oltre che eccellente traduttore di Shakespeare e saggista letterario di raffinato gusto sapienziale, insieme con altri tre poeti, Marina Cvetaeva, Osip Mandel’štam e Anna Achmatova, suoi amici fraterni negli anni oscuri delle persecuzioni staliniste, egli dà alla Russia una poesia lirica in cui il gusto sperimentale dei moderni si contempera con una fiducia sincera nei valori dell’esistenza e nei motivi immutabili della tradizione. Anzi, a partire dagli anni Trenta, con la reclusione di Mandel’štam nei campi di lavoro e dopo il dolente suicidio della Cvetaeva, Pasternak e la Achmatova (punita con la deportazione del figlio) sono per lungo tempo i primi poeti sovietici, i più letti e i più amati, senza eguali. Il lettore occidentale, infatti, deve tenere presente che nella Russia di quel tempo la poesia viene ascoltata con un’intensità straordinaria da un pubblico vastissimo. Poeti come Pasternak e l’Achmatova ricevono un numero incredibile di lettere e di richieste da parte di ammiratori che conoscono i loro testi a memoria e che arrivano addirittura a riprodurli in copie manoscritte per scambiarseli privatamente in cerchie di appassionati. Il culto russo dello scrittore come eroe, di cui Pasternak è un singolare rappresentante, va visto sullo sfondo di questo orizzonte popolare.
Dopo un esordio poetico vicino all’esperienza dei futuristi più moderati, Pasternak approda intorno agli anni Venti a una lirica molto personale. Il suo ardito immaginismo metaforico e musicale incentrato sul montaggio apparentemente caotico di impulsi fonetici e metafore vertiginose deve suggerire al lettore una serie di connessioni quasi metafisiche fra l’io poetico e le cose percepite. Affascinato dalla concretezza percettiva, acustica e olfattiva degli oggetti, il poeta si mostra tutto intento alla loro riproduzione come dati interni alla coscienza, impegnandosi con sinuoso calcolo ingegneresco a stiparne il maggior numero possibile nel ritmo irrefrenabile dei versi. La natura, la vita, la musica e un’inquietudine emozionale di stampo contemplativo sono gli ingredienti principali delle sue raccolte principali come Oltre le barriere (Povérch barerov, 1917); Mia sorella la vita (Sestrà moja zizn’, 1922) e Temi e variazioni (Temy i variacii, 1923), dove anche le forme metriche tradizionali vengono rinnovate nel tono di un idillio vorticoso. Forte di quest’orfismo percettivo, ispirato a Rainer Maria Rilke, Fëdor Tjutčev e Algernon Swinburne, la poesia di Pasternak entra subito nel giro delle traduzioni e delle riviste europee, dove rimane a lungo nascosta nelle ristrette cerchie internazionali della poesia, spazio d’elezione per un personaggio come lui, raffinato, sfuggente e dotato di un carisma impenetrabile.
Poi, d’improvviso, nel 1957, Pasternak, diviene un “caso letterario” internazionale e la sua vita è travolta da un successo che segna anche l’inizio di un incubo. Il suo unico romanzo, Il dottor Zivago, opera della maturità, frutto di un decennio di lavoro, attrae l’attenzione del mondo intero non appena viene pubblicata, nel 1957 in prima edizione mondiale, dall’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli. Pasternak ha inviato il dattiloscritto, come ad altri editori europei, dopo la censura patita in Russia a opera degli intellettuali sovietici incaricati di valutare la conformità delle opere letterarie rispetto alle linee culturali del Partito. Il conseguente premio Nobel attribuito allo scrittore appena un anno dopo, il 23 ottobre 1958, non fa altro che accelerare le tappe del “caso Pasternak”, che rimane probabilmente il più grande scandalo politico-letterario del XX secolo, e comunque il primo a essere stato celebrato davanti agli occhi stupefatti dell’opinione pubblica globale.
Il “caso” Dottor Zivago
I principali elementi che scatenano l’aggressività e la scomunica del regime sono tre: l’interpretazione ambivalente della rivoluzione che compare nel romanzo, l’avvicinamento di alcuni personaggi a uno spirito religioso non ortodosso e infine la figura del protagonista, un poeta debole e innamorato, cioè un tipo umano del tutto sgradito ai canoni virili idealizzati dal Partito. In Russia e negli ambienti filosovietici, Pasternak e il suo romanzo subiscono immediatamente una propaganda ideologica di discredito artistico e morale. La “Pravda” e la gazzetta del sindacato-scrittori pubblicano articoli di netta condanna: lo Zivago è una “pasquinata politica”, il premio attribuito a un’opera tanto mediocre significa un “attacco” alla civiltà sovietica, Pasternak ha “scelto la via dell’onta e del disonore”. Espulso dall’Unione degli Scrittori, Pasternak sceglie “volontariamente” di non recarsi a ritirare il Nobel e decide senza indugio di rimanere a vivere in Russia. Così, mentre in Occidente un pubblico sbigottito lo sostiene cavalcando campagne anticomuniste, egli si ritira nella sua dacia, costruita nella colonia letteraria di Peredelkino, senza neppure prendere in considerazione la via dell’esilio (concessa e caldeggiata dal governo) e rinnovando a ogni occasione il suo attaccamento profondo allo spirito del popolo russo. Significative dello stato d’animo di Pasternak – che in tutta la vita non lascia mai Mosca per più di qualche mese – sono le parole di una lettera inviata in quei giorni drammatici al presidente russo successore di Stalin, Nikita Chruscev: “L’uscita dai confini della mia Patria” – scrive Pasternak – “equivale per me alla morte e per ciò prego il governo di non prendere nei miei riguardi questa misura estrema”. Pochi mesi dopo, una morte repentina per attacco cardiaco, simile a quella imposta dall’autore a Jurij Živago, segna la sua brusca uscita di scena nel maggio 1960.
Nel breve volgere di un triennio, dopo essere stato un testimone appartato della gloria rivoluzionaria e del dolore popolare, dopo aver interpretato la parte del poeta inquieto che “non si getta nella mischia”, come afferma durante un convegno di scrittori comunisti, Pasternak è ridotto a simbolo politico, una voce eroica per i lettori occidentali, un compagno colpevole di tradimento per i comunisti russi, che in seguito si vendicano sui suoi eredi con condanne e misure restrittive.
In un saggio di straordinaria sensibilità umana, Marina Cvetaeva definisce Pasternak “un poeta senza storia”, un “genio lirico puro” rivelatosi “di colpo, tutto insieme” e poi rimasto fedele alla sua “essenza intatta e immutabile”. Ad ascoltare la grande poetessa moscovita, che nonostante l’esilio parigino intrattiene stretti rapporti personali con il poeta (intessendo fra l’altro, intorno al 1926, una singolare amicizia esoterica a tre fra lei, l’amico e il poeta Rilke), anche nel periodo cruciale della sua creatività, il ventennio “delle falci e dei martelli”, fra 1912 e 1932, Pasternak compone i suoi versi senza stabilire un vero contatto con le esperienze della vita collettiva, “condannato a se stesso nel cerchio magico del sogno” e quasi “immerso in un sonno infantile”.
Nella prima dichiarazione letteraria a noi nota, conservata solo a stralci, una relazione su Simbolismo e immortalità, letta nel 1913 presso lo studio di un amico scultore, Pasternak descrive la poesia come una “soggettività senza il soggetto”, una coscienza sovrapersonale caratteristica del mondo fenomenologico che si rivela quando l’artista riesce a unificare il mondo inanimato con l’io lirico puro. A partire da quell’anno, dopo un importante semestre di studi filosofici, fra Husserl e i neokantiani, all’università di Marburgo, Pasternak comincia a scrivere poesie regolarmente. Si avvicina ai futuristi del gruppo Centrifuga, decisi a superare la lezione del simbolismo ma senza drastiche rotture rispetto alla misura armonica della tradizione. Esordisce nel 1914, pubblicando la raccolta Il gemello tra le nuvole, seguita nel 1917 dalla più matura Al di sopra delle barriere, tramite la quale si misura con il cubofuturismo rivoluzionario di Velimir Chlebnikov e soprattutto di Vladimir Majakovskij, con il quale il rapporto sfocia presto in un aperto dualismo stilistico e umano.
Nell’occhio del ciclone rivoluzionario, ma sempre tenendosi nella “vicina lontananza del socialismo”, nascono di getto le poesie che in seguito costituiranno la raccolta Mia sorella la vita (1922). Il nuovo libro segna l’apogeo della lirica pasternakiana. La sintassi sovvertita e straniata e l’arduo tessuto di metafore descrivono sentimenti aurorali, di meravigliata intimità fra l’uomo e l’universo tangibile delle cose. I componimenti esercitano un potere quasi ipnotico sui contemporanei e destano l’entusiasmo immediato e sincero dell’altro grande poeta dell’epoca, Osip Mandel’štam, in seguito arrestato e disperso nei gulag stalinisti di Voronez, nonostante una famosa e controversa telefonata di Pasternak a Stalin per scongiurare la rovina dell’amico.
Il romanzo di un poeta
Per il Pasternak di questo periodo, dunque, il poeta è una creatura misteriosa, “un dio profugo”, uno sciamano a cui la fantasia rivela il nucleo assurdo e magico della realtà attraverso l’incantesimo delle parole. Tuttavia, avanzando nel periodo postrivoluzionario egli comincia a interrogarsi sul senso e sulle possibilità della lirica in un tempo che pare esigere solo i compiti del canto epico, ma non riesce mai ad andare oltre i poveri schemi narrativi di un epos volontaristico, risolto in un recupero dell’infanzia in chiave leggendaria, come mostrano i poemi L’anno 1905 e Il luogotenente Schmidt risalenti al 1927. Il libro Seconda nascita (Vtoroe rozdenie, 1932) segna l’ispirata ripresa del modulo lirico. Ma questa raccolta rappresenta per certi versi il canto del cigno della lirica pasternakiana, l’ultima in cui lo slancio poetico riesce a trasformarsi in una spontanea adulazione della vita. In seguito, nel torbido clima di ambiguità, di denunce e di sospetti che dura fino alla seconda guerra mondiale, Pasternak sceglie di nascondersi dietro a un intenso lavoro di traduzioni da Goethe e Shakespeare, prima di trasferire la propria sensibilità irruente e bisognosa di sincerità nella nuova forma del romanzo, compiendo così quello che è stato definito il suo vero gesto amletico: raccontare il destino di un eroe debole e sconfitto. Il grande poeta polacco Czselaw Milosz, lettore critico di Pasternak, ha definito la storia del Dottor Zivago “una partita a nascondino con il fato” in cui i due protagonisti, Jurij e Lara, sembrano incontrarsi sempre senza incontrarsi mai, quasi seguendo il tracciato ironico di uno schema probabilistico. La tecnica di Pasternak è molto libera, a tratti volutamente amorfa, al modo di un resoconto parallelo composto incastrando brevi paragrafi narrativi condotti da una voce narrante che ha accesso alle carte e ai documenti postumi lasciati dal protagonista. I due si incontrano in un primo momento a Mosca, dove Zivago è medico mentre Larisa Fëdorovna, Lara, una ragazza povera e affascinante, appartenente a un’altra cerchia sociale, sta provando a ricostruirsi una vita. Disperata per un debito di gioco del fratello, Lara spara a un avvocato. Zivago assiste silenzioso alla scena. In seguito, ma all’insaputa l’uno dell’altra e con le rispettive famiglie, i due si trasferiscono sugli Urali, in due villaggi diversi. Qui la sorte li fa incrociare di nuovo, nella biblioteca di un piccolo paese frequentata da Jurij, che intanto ha dimenticato la sua laurea in medicina e si è messo a scrivere poesie. Dopo una serie di coincidenze enigmatiche che danno al romanzo il tono di una parabola magmatica sul senso impenetrabile dell’esistenza (il ritorno nelle stesse vecchie case, le morti collegate da strani giochi del fato, l’integrarsi delle reciproche memorie), Lara, di ritorno a Mosca dopo anni di assenza, si troverà, per un ennesimo gioco del fato, davanti al cadavere di Zivago, composto in quella che fu la casa giovanile di suo marito, morto anni prima come misterioso eroe rivoluzionario.
Il disordine prestabilito della trama è certo uno dei motivi di maggior fascino dell’opera, il cui senso più profondo, tuttavia, si trova nella descrizione dei fallimenti di Jurij, che non riesce a partecipare in modo equilibrato alla storia russa. Dopo la guerra civile egli crolla al fondo della piramide sociale. Abbandonata la professione medica, conduce un’esistenza losca svolgendo lavori servili. Jurij rifiuta in ogni modo di diventare un membro della nuova classe intellettuale. La fuga dal mondo si rivela per lui l’unico modo per preservare la propria integrità. In questo clima cupo e tormentoso scrive poesie che parlano di Amleto (i testi sono pubblicati come documenti in coda al romanzo), ma presto capisce che, a differenza dell’eroe shakespeariano, a lui non è dato di andare oltre una percezione intuitiva del bene e del male. L’unica azione concessagli resta quella poetica, equivalente a una difesa della purezza del linguaggio minacciato. Quasi per una contraddizione dello spirito, tuttavia, l’intero racconto è pervaso da un’atmosfera di speranza, di fiducia in qualcosa di indefinito.
Pasternak giudica questo “romanzo in prosa con appendice poetica” la sua “fatica principale”, la più importante, “l’unica di cui non mi vergogno, di cui rispondo senza paura”. Nei suoi ultimi anni, travolto dagli strascichi politici, egli afferma di essere sempre stato consapevole dei rischi che avrebbe corso promuovendo la pubblicazione all’estero del Dottor Zivago. Testimonianze private e documenti epistolari affermano che a liberare il poeta dagli indugi abbia contribuito in maniera decisiva un’esperienza di malattia vissuta nel 1952, quando Pasternak viene ricoverato per complicazioni cardiache all’ospedale Botkin, lo stesso ospedale in cui si sta recando Jurij Živago quando muore per le strade di Mosca colpito da un infarto. Pasternak comprende di trovarsi in condizioni molto gravi e scopre quasi con sorpresa di sentirsi pronto a morire. Così, negli anni seguenti, concludendo lo Zivago, egli lo considera un po’ come un testamento, “le ultime cose che ho da dire”, un po’ come un libro postumo. Questi retroscena personali spiegano anche l’emergere nel corso del romanzo di alcune inquietudini profonde che sconvolgono l’animo di Pasternak durante la malattia, a cominciare dalla ripresa di una profonda riflessione religiosa.
Su queste basi è forte la tentazione di leggere il romanzo come un’autobiografia spirituale dell’autore e del suo tempo. La vena memoriale di Pasternak ha già prodotto un primo capolavoro narrativo con Il salvacondotto (Ochrannaja gramota, 1931), racconto della proprio iniziazione ai sentimenti e alla comprensione del mondo, e un secondo documento importante nel 1956 con la stesura di una vera e propria Autobiografia (Biograficeskij ocerk, anch’essa stampata solo all’estero) incentrata sulle proprie origini fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Ma come osserva Elena Pasternak, nipote dell’autore, Zivago non è un romanzo esplicitamente autobiografico, al limite si può dire che risponda all’idea di un realismo moderno soggettivo-biografico in cui il dato essenziale è la presenza di un marchio creativo personale. La prosa del romanzo, come ha intuito Angelo Maria Ripellino, restituisce la stessa ricchezza di sensazioni acustiche e olfattive, lo stesso formicolio di impressioni primordiali e di elementari sensazioni psichiche, la stessa insistenza sulle vicende meteorologiche che caratterizzano l’opera in versi di Pasternak.
Il linguista Roman Jakobson è il primo a descrivere lo stile prosastico di Pasternak come una “prosa da poeta”. La scarsità degli avvenimenti narrati e l’estrema attenuazione dell’intreccio rendono il modo di narrare pasternakiano una via di mezzo fra romanzo e antiromanzo, uno strumento d’espressione ibrido e sincretico, regolato dagli elementi di una pura logica musicale.