BORGO, Ignazio Solaro di Moretta, marchese del
Nato intorno al 1662 da Carlo Gerolamo, gran maestro di artiglieria e da Maria Roero di Cortanze, fu avviato in giovane età alla carriera delle armi. Nel maggio 1680, reggente Maria Giovanna di Savoia-Nemours, venne designato quale gentiluomo di camera, ottenendo poi nel 1695 il brevetto di cavaliere di gran croce. Di fatto, il suo esordio nell'entourage diVittorio Amedeo II data dall'ottobre-novembre 1700, in occasione della presentazione di un "parere" che sosteneva le ragioni dei Savoia sopra il contado d'Auvergne, di Clermont e il ducato di Bretagna "sulla base delle paci segnate dal 1530 al 1696, in relazione ad un progettato cambio della Savoia con lo Stato di Milano, venuto il caso della morte del Re di Spagna senza prole". Di per sé, la memoria era una delle tante allegazioni stest sul momento per confortare, in funzione puramente tattica, l'operato dei negoziatori sabaudi a Parigi. Il B. trovava comunque modo di mettersi in luce per certa solida erudizione storicogiuridica e sottigliezza di argomentazioni, suscettibili di più diretta utilizzazione nel maneggio corrente degli affari diplomatici. L'occasione gli venne infine offerta nel 1703, quando inviato presso gli Stati generali d'Olanda, ebbe a sancire con un trattato di alleanza il mutamento di rotta di Vittorio Amedeo II nella guerra di successione spagnola e a negoziare quindi "le assistenze e i sussidi indispensabili" alle forze sabaude per la resistenza nei confronti della rapida e violenta reazione francese in Piemonte. All'Aia egli doveva tornare successivamente, dal maggio 1709 sino al 1710, insieme con il Mellarède, in occasione dei preliminari diplomatici fra gli alleati, per portarsi quindi, l'anno dopo, a Londra, in missione straordinaria presso la regina Anna. Compito del, diplomatico piemontese era di valutare più da vicino una delle due proposte alternative avanzate inizialmente dal governo inglese per una soluzione generale dei contrasti europei: quella di una cessione a Filippo V dei possessi sabaudi in luogo dell'attribuzione a Vittorio Amedeo II della corona spagnola. Per capacità e pratica di negozio egli poteva ormai reggere le fila, quale primo plenipotenziario, unitamente a ministri autorevoli e consumati quali il Mellarède e il Maffei, della diplomazia sabauda impegnata dal gennaio 1712 nelle trattative di Utrecht. Al ritorno a Torino - dopo una breve parentesi, dal novembre 1713, come precettore "nelle materie di Stato" del principe Carlo Emanuele - era inviato nel giugno 1714 a Casale a carico di governatore dell'alto e basso Monferrato.
Stando alle istruzioni, avrebbe dovuto preparare il terreno per l'insediamento senza scosse nella provincia di recente acquisto delle autorità civili, rimovendo, da un lato, le residue diffidenze nobiliari e cercando, dall'altro, di smussare le più vivaci punte di ostilità delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del nuovo ordinamento. Di fatto, il B. venne a trovarsi a Casale in una situazione particolarmente difficile: sprovvisto di poteri specifici quanto alle sue effettive funzioni, a mal partito di fronte alle iniziative del vescovo locale, Radicati di Cocconato (attento a organizzare la difesa dei vecchi privilegi ecclesiastici e pronto a servirsi dell'appoggio della "cittadinanza et del Popolo, interessato ad approfittare delle immunità che i Preti pretenderebbero di godere"), egli venne anticipando, per altra parte, nella mancanza di determinazione e di concrete qualità politiche, certi limiti intrinseci al suo temperamento e alle sue attitudini di uomo "vivace, fine ed eloquente nel conversare e nel dissertare, sebbene non altrettanto pronto e risoluto nel decidere", quali verranno rivelandosi appieno più tardi anche nell'ambito del suo stesso terreno consueto di competenza professionale.
A fine agosto, Vittorio Amedeo finiva così per richiamarlo nella capitale, conservandogli tuttavia l'incarico di ministro di Stato, assunto dopo la conclusione dei negoziati di Utrecht, e destinandolo, l'anno successivo e per tutto il 1716, ad assistere il de Gubernatis a Roma alla ripresa di nuove trattative con la corte papale, intese a un accomodamento dei gravi attriti trascinatisi dal 1710, dopo l'istituzione del magistrato dell'economato per la conservazione dei beni vacanti e l'inizio di una più ferma politica giurisdizionalistica di revisione dei patrimoni ecclesiastici e delle immunità abusive del clero.
Pur nelle alterne vicende seguite al ritorno dall'Olanda, il B. aveva comunque mantenuto intatta la sua reputazione di diplomatico sagace e accorto, e all'occorrenza, di negoziatore sottile e di sicuro intuito. La sua stessa riluttanza ad arrischiare impostazioni politiche generali o ad assumere iniziative in prima persona (più "procureur que... ministre" lo definirà il residente francese Blondel, al pari del veneziano Marco Foscarini) rappresentava, ora, una garanzia per la scrupolosa e fedele trasmissione e attuazione delle direttive del monarca sabaudo, nel momento in cui Vittorio Amedeo si accingeva, con le leggi fondamentali del 1717, a imprimere una svolta radicale nell'opera intrapresa di riforma politica e di consolidamento dell'autorità statale.
Il 15 febbr. 1717 il vecchio marchese di San Tommaso, che aveva fino allora accomunato nelle sue mani la responsabilità sia della politica interna sia di quella estera, veniva congedato; e la segreteria di Stato divisa fra il B., agli Esteri, e il Mellarède, agli Interni. La netta ripartizione delle competenze e dei poteri veniva poi sancita - per scongiurare ogni eventualità di prevalenza personale o gerarchica e riaffermare per contro, anche sotto il profilo formale, la direzione unitaria e mediatrice del sovrano - dal conferimento al B., al pari che al Mellarède, della carica di notaio della corona e di cancelliere del Supremo Ordine della SS. Annunziata (seguirà nell'agosto 1729 anche la nomina a cavaliere dello stesso ordine). Si apriva così un nuovo capitolo nell'attività del B., dedicata in prevalenza, per tutto il successivo quinquennio, al riordinamento dell'amministrazione degli affari esteri.
Sotto la sua direzione, venivano istituite tre segreterie: la prima per gli affari di carattere riservato; la seconda per i rapporti correnti con la Francia, l'Inghilterra e la Germania; la terza per le relazioni con la Spagna, gli altri Stati italiani e la S. Sede; mentre si procedeva al rafforzamento delle rappresentanze all'estero, anche con l'immissione nei quadri, fino allora monopolizzati dall'elemento aristocratico, di uomini nuovi, tratti dal sovrano dalle file della borghesia di toga e professionale. I vecchi criteri di reclutamento e di organizzazione del personale e della carriera diplomatica, caratterizzati per l'innanzi da una certa improvvisazione e da contingenti preferenze clientelari, cedevano il passo ad una trafila più uniforme e regolare negli avanzamenti di grado e nella dislocazione dei rappresentanti nelle varie capitali (la spesa complessiva per l'apparato diplomatico salirà, del resto, dall'1,15% dell'intera uscita del periodo 1700-1713 al 2,04% del quindicennio 1714-1730).
Su un altro piano, il revirement avvenuto durante la guerra di succesione spagnola con l'accostamento dei Savoia alle potenze marittime e il successivo, più concreto, avvicinamento operato in direzione della Gran Bretagna, quale possibile alternativa strategica al secolare ma sempre più rischioso gioco della bascule tra Francia e Spagna, in connessione del resto con il rinnovato interesse inglese a costituire in Italia una potenza equilibratrice tra le diverse spinte egemoniche e a garantire insieme un terreno favorevole per l'espansione del commercio britannico, erano tutti fattori che offrivano al B. uno spazio di manovra più sicuro, più congeniale alla sua esperienza concreta e al giro di amicizie personali e di rapporti confidenziali coltivato con alcuni ambienti politici inglesi. Particolarmente valida era inoltre - su un altro scacchiere non meno importante e delicato della politica estera sabauda, quello dei rapporti con la S. Sede - la sua preparazione giuridica e diplomatica, attenta a servirsi politicamente degli strumenti che le discussioni teologiche potevano fornire per la continuazione e il sostegno della linea giurisdizionalistica assunta dal monarca sabaudo. Vi farà riscontro, per altra parte, la tendenza - comune del resto a numerosi diplomatici piemontesi - ad accordare una certa priorità, nell'esame delle varie alternative possibili di politica estera, alle "occasioni" di intesa o di ulteriore rafforzamento diplomatico con i paesi più vicini alla propria esperienza attiva di rappresentanza, pur senza giungere comunque a sopravvalutarne indiscriminatamente il peso. Preziosa è, in particolare, per il B. l'"amicizia" inglese. Ma se l'opportunità di un diretto legame con Londra non manca di essere sostenuta e riaffermata all'occorrenza in linea di principio, essa verrà rapportata di volta in volta anche - ed è un altro dei tratti nuovi della più duttile e attenta diplomazia sabauda di questo periodo - alle possibilità concrete di salvaguardia, senza onerosi ripiegamenti, degli interessi economici piemontesi.
Esemplare in questo senso la vicenda del negoziato anglo-piemontese, successivo all'editto del 9 luglio 1726, che, aumentando il dazio d'entrata su tutti i panni "ordinari", veniva a incidere di fatto sui profitti della industria e del commercio tessile inglese di esportazione. Alla pretesa di Londra di una revoca del provvedimento come contrario al trattato di Firenze del 1669, spettava al B. respingere, sotto il profilo giuridico, l'interpretazione del governo inglese e valutare quindi, di fronte alla minaccia del Newcastle di colpire l'esportazione degli organzini piemontesi in Inghilterra, le eventuali conseguenze di una "guerra economica". Certo, egli non nasconderà, in sede di valutazione interna, le sue preoccupazioni (condivise anche dal di San Tommaso) per la limitata efficacia di provvedimenti di ritorsione sabaudi (un eventuale divieto di introduzione dei panni "fini" inglesi non avrebbe danneggiato Londra se non per 600.000 lire contro i due milioni di perdita previsti da parte piemontese), tanto da prospettare al limite, nel caso di nuovi irrigidimenti del governo britannico, l'opportunità di cedere. Ciò non gli impedirà tuttavia di adottare infine, e di sostenere poi abilmente sul terreno diplomatico, una linea di condotta destinata a chiudere con successo la vertenza: se al Piemonte - egli riferiva all'ambasciatore inglese Hedges nel maggio 1727 - interessava non pregiudicare il flusso della sua produzione serica verso l'Inghilterra, era pur vero d'altra parte che quest'ultima non poteva compromettere il grosso dell'industria tessile nazionale, troncando di colpo uno dei canali principali, e difficilmente sostituibili, per l'approvvigionamento della materia prima occorrente.
Il B. rimarrà, anche durante l'ascesa del marchese d'Ormea alla direzione effettiva dell'intera politica sabauda, una personalità destinata a giocare un ruolo di primissimo piano. A lui, che aveva accolto ufficialmente il 3 sett. 1730 l'atto di abdicazione di Vittorio Amedeo II ed era stato escluso successivamente dai progetti vittoriani di ricostituzione di un nuovo consiglio di governo nella prospettiva di un ritorno sul trono, era affidato nell'ottobre 1731 da Carlo Emanuele III l'ingrato compito di giustificare presso le corti europee l'avvenuto imprigionamento dell'ex monarca con la tesi di un ottenebramento di mente del vecchio sovrano. Protagonista della prima fase di ripresa "in grande stile" dell'attività diplomatica europea dopo il 1730, che registrava nel corso del 1731 e della primavera del 1732 insistenti e reiterati sondaggi a Torino, da parte francese e anche da fonti inglesi e imperiali, per rendere concreta la prospettiva di unalleanza sabauda, il B. mantenne funzioni di comprimario nella vita politica piemontese anche dopo il suo congedo (3 marzo 1732) dalla direzione degli affari esteri e le relega - ormai affermatosi di prepotenza l'astro dell'Ormea - alla dignità di gran ciambellano di Savoia. Il problema delle alleanze trovava, anzi, il B. al centro delle trattative austro-anglosarde della seconda metà del 1732 e dei successivi negoziati avviati dal Fleury con Torino, all'aprirsi della questione della successione polacca, per un patto franco-piemontese, proposto già nel 1725 al B. sotto forma di alleanza difensiva, ed ora aperto all'adesione della Spagna.
Nella complessa trama diplomatica, intessuta fra le due corti dal febbraio-marzo 1733 e destinata a concludersi con il trattato di Torino del 26 settembre, il B. non mancava di esprimere perplessità e una certa resistenza all'orientamento filoborbonico, suggerendo una maggior prudenza nella conduzione delle trattative per non legarsi prematuramente le mani. La discussione seguita a Torino fra il sovrano e i suoi ministri, dopo la presentazione da parte francese di una prima bozza di trattato, offriva anzi occasione al B. per mettere a punto ufficialmente le sue riserve. Alla risposta di Carlo Emanuele al Fleury del 16 maggio 1733 - che, dopo aver fissato le richieste sabaude (tutto lo Stato di Milano, senza alcuna detrazione per don Carlo, né corrispettivo per la Francia, pronto regolamento dei sussidi francesi, allargamento delle trattative alla Spagna), richiamava l'attenzione di Parigi sulla necessità di più solidi e impegnativi negoziati con gli elettori e i principi tedeschi - un contributo essenziale apportava il B., che aveva oltretutto sottolineato l'opportunità per evitare il "bando dall'Impero" e per indebolire il seguito di Vienna di fondare la giustificazione del trattato sul pericolo derivante dalle ambizioni di Carlo VI, non quale imperatore, bensì quale arciduca d'Austria. Anche per il B., come del resto per il sovrano e gli altri dirigenti sabaudi, l'adesione spagnola in termini immediati e sicuri a un patto di alleanza offensiva franco-piemontese rappresentava, in ogni caso, la condizione preliminare per il proseguimento dei negoziati.
Tanto più vive e acute diventeranno pertanto le preoccupazioni del B. all'annuncio, dopo la firma del trattato di Torino del settembre 1733, del "patto di famiglia" dello Escuriale tra Francia e Spagna, stipulato il successivo 7 novembre. Da una parte, la pretesa spagnola, non contraddetta esplicitamente dalla Francia, di attribuire tutti gli Stati conquistati in Italia, eccetto il Milanese, all'infante, e dall'altra, l'ostilità della monarchia spagnola di accedere formalmente al trattato del 26 settembre, ponevano non solo il problema del contrasto fra le clausole dei due trattati e della sostanziale ambiguità di condotta del governo di Parigi, ma rivelavano chiaramente come gli scopi essenziali della guerra si fossero ormai spostati in favore delle ambizioni egemoniche di Elisabetta. Di fronte al pericolo di un eccessivo sviluppo di potenza di don Carlo e di uno scontro diretto, alla distanza, fra Savoia e Borboni nella penisola, senza un terzo elemento di equilibrio, il B. collaborava con l'Ormea e il di Breglio all'opera di graduale sganciamento dalle strette dell'alleanza con i Borboni. In un parere del dicembre 1734 - successivo a un memoria del maggio, che giungeva a prendere in considerazione l'eventualità di una formale separazione dalla lega con la Francia - egli affermava comunque l'opportunità, per non correre il rischio di rimanere soffocati fra le ciseaux borboniche, di lasciare che l'Austria mantenesse un piede in Italia: ché la Spagna - si giustificava - "veut en faveur de D. Carlos une superiorité decisive établie sur une entière expulsion de la Maison d'Austriche et sur une système qui mette la Maison de Savoie en position d'être étournée de toutes côtés par celle de France; et c'est ce que le negociations qui se font pour Mantoue font evidentement connoître. En même temps l'Espagne et la France veulent détruire le commerce de l'Angleterre de telle manière qu'elle ne soit plus en êtat de sécourir avec la force nécessaire les Puissances que ces deux premiers Couronnes voudront avec le temps opprimer: et c'est ce que la traité de l'Escurial nous decouvre de manière à n'en pouvoir douter".
L'approccio all'Inghilterra per un'iniziativa di mediazione con l'Austria era diventato del resto, nel corso del 1734, una delle carte più impegnative del complesso gioco diplomatico sabaudo. Ma il B., che pur non aveva nascosto un anno prima le sue forti perplessità nei confronti dell'alleanza con la Francia, non mancava di sottolineare, d'altra parte, le incognite e le gravi difficoltà di un rovesciamento di fronte operato con l'appoggio, ipotetico, dell'Inghilterra e basato su una proposta di cessione del Milanese ai Savoia - a compenso di un aiuto piemontese all'imperatore per il recupero dei territori italiani passati a don Carlo - che avrebbe potuto correr il rischio di un rifiuto pregiudiziale da parte di Vienna. Un'eventuale violazione del segreto delle trattative - egli ammoniva poi - avrebbe potuto esporre il Piemonte alla rapida reazione armata dei 40.000 Francesi dislocati in Lombardia e dei 24.000 Spagnoli presenti nel Napoletano. Ove si fosse voluto comunque tentare la carta inglese - aveva concluso il B. in successive memorie dell'aprile, e maggio 1734 - si limitasse almeno l'iniziativa a un'avance generica. Questi furono gli ultimi "pareri" di rilievo espressi dal B., non alieno, dopo l'accordo preliminare dell'ottobre 1735 del Fleury con l'imperatore, a una più aperta confluenza sulle posizioni degli avversari filo-austriaci dell'Ormea, quali il di Breglio e il d'Aix, ma ormai tagliato fuori dal concreto gioco di rivalità e di ambizioni personali apertosi ai vertici del ceto dirigente piemontese.
Il B. morì a Torino, il 19 marzo 1743 e venne sepolto nella chiesa dei gesuiti.
Da Vittorio Amedeo II e da Carlo Emanuele III, a compenso dei suoi servigi, aveva ricevuto particolari benefici: successo al cugino Giambattista Solaro nel marchesato di Dogliani il 15 nov. 1709, già titolare di una pensione di 8.000 lire all'assunzione dell'incarico di segretario agli Esteri, era stato poi infeudato nel febbraio 1722 di una parte della giurisdizione di Villanova Solara, con il titolo signorile; il 22 ag. 1722 era stato investito del marchesato di Borgo San Dalmazzo e nel novembre 1738 gli era stato accordato il titolo comitale su metà del feudo di Macello, con la facoltà di aggregare metà dei beni e dei redditi di questa località e di Torre San Giorgio alla signoria, già da lui detenuta, di Tigerone. Il valore del solo feudo di Dogliani ammontava a 240.000 lire piemontesi, e ancora nel 1734 il B. figurava tra i detentori di beni e capitali più cospicui nell'ambito della grossa aristocrazia piemontese rappresentata a corte.
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