DATI, Bonturo
Si può dire che nulla si sa, allo stato attuale degli studi, del luogo di origine e della condlizione sociale ed economica degli antenati del D., non essendo plausibile - contrariamente a quanto è stato affermato in passato dall'erudito lucchese del Settecento G. V. Baroni e, recentemente. da D. Corsi nell'Enciclopedia dantesca - identificare il noto personaggio della Divina Commedia con un Bonturo figlio di un "Dato spadaio della cappella di S. Ilario di Brancoli ma abitante in Lucca in contrada di S. Salvatore in Muro" (Corsi, p. 318): questi che è ricordato nelle fonti lucchesi come "Bonturus, seu Bonaventura scu Bontucchorus spetiarius civis Lucanus de contrata Sancti Salvatoris in Muro filius quondani Deodati seu Dati de Branchalo" (cfr. Arch. di Stato di Lucca, Opera di S. Croce, n. 5), risulta già morto nel 1311 (cfr. Ibid., Estimo, n. 8).
Il D. - questo è certo - ebbe un fratello di nome Giovanni (ovvero Vanni): questi fu, presumibilmente, suo socio nell'attività commerciale - come un documento del 13 nov. 1285 induce a credere -, e si vide designare quale destinatario di un legato nel testamento che il fratello dettò a Firenze, il 10 genn. 1324 (sembra da identificare con questo fratello del D. un Vannes Dati che morì in esilio a Firenze nel 1324-1325 lasciando come unici eredi due figli maschi, Franceschino e Pucciarello: Ibid., Curia dei ribelli e dei banditi, n. 3).
Secondo gli eruditi lucchesi B. Baroni e G. V. Baroni - i quali, tuttavia, non citano alcun documento in appoggio alla loro affermazione - il D. avrebbe avuto un figlio di nome Pietro. Di sicuro, comunque, il D. ebbe tre figlie, Bartolomea, Margherita e Chiara, da lui designate, nel testamento sopra ricordato, quali sue eredi.
Se dunque sembrano delusi, allo stato attuale delle ricerche, i tentativi volti a individuare i suoi antenati, nessun dubbio permane, invece, riguardo al ruolo sociale, economico e politico ricoperto dal D. nella Lucca dell'ultimo Duecento e del primo Trecento: egli fu un "popolano" - ma un popolano non certo "infimae plebis", come ha rilevato recentemente V. Tirelli - assurto con le arti della demagogia a grande rilievo politico. Tale sarebbe stata, infatti, la sua influenza in Lucca già alla fine del Duecento, che, inviato in ambasceria al papa Bonifacio VIII per manifestare il plauso dei Lucchesi alla sua elezione, avrebbe esclamato, rivolto al pontefice che lo aveva preso amichevolmente per il braccio: "Padre Santo, voi scotete la metà della città di Lucca" (cfr. l'episodio nei commenti dell'Anonimo fiorentino, del Buti e, del Benvenuto all'Inferno diDante). Il 23 febbr. 1304 dovette recarsi a Firenze, città cui lo legavano interessi commerciali ed amicizie politiche, per un incarico pubblico che ci conferma la sua autorevolezza: fu, infatti, uno dei popolani che, con cinque magnati, furono eletti dal Consiglio Maggiore di Lucca per governare interinalmente la città alleata, divisa da lotte intestine.
Dopo la promulgazione, nel 1308, del nuovo statuto, contenente norme antimagnatizie, era, secondo gli storici, il vero padrone di Lucca: "... ma il partito del Popolo alla fine trionfò e al potere salì Bonaventura o Bonturo Dati, devoto ai Neri di Firenze, vinattiere, persona di dubbia onestà, schernita da Dante, il quale formò con un altro popolano ed un caciaro un triumvirato, che governò per alcuni anni la città" (Davidsohn, p. 577).
Il D., probabilmente, venne rafforzando proprio in questi anni la sua posizione legandosi ancor più, con un'accorta politica matrimoniale, alla fazione degli Opizi, corrispondente alla nera fiorentina. Dette infatti la figlia Bartolomea in sposa a Dino del fu Opizo degli Opizi, l'altra figlia, Margherita, a Vanni dei fu Arrigo dei Poggio, e l'ultima, Chiara, a Vanni di Nardello Asquim: tutti appartenenti a famiglie che sarebbero state costrette ad andare in esilio dopo la presa della città da parte dei ghibenini nel 1314.
Nel settembre del 1313 egli fece parte della delegazione che a Quosa, in Vai di Serchio, doveva trattare la pace con i Pisani; ma - secondo l'autore della Cronica di Pisa ed altri cronisti antichi - avrebbe beffeggiato gli ambasciatori pisani, i quali chiedevano la restituzione di Buti ed Asciano, rispondendo loro che Lucca intendeva tenere il castello di Asciano perché le donne pisane si potessero "vagheggiare" negli specchi che i Lucchesi avevano innalzato sulle torri del castello (l'episodio è stato ripreso nella poesia Faida di Comune dal Carducci). In seguito alla rottura delle trattative e al fallimento del convegno, le milizie pisane comandate da Uguccione della Faggiola fecero scorrerie in territorio lucchese per circa due mesi, finché il 18 novembre, giorno dedicato in Lucca a s. Frediano, inseguirono i nemici fino alle porte della città. Lucca, in seguito, fu costretta a scendere a patti e ad accettare, nella pace stretta con Pisa nell'aprile del 1314, il ritorno degli esuli ghibellini, tra cui Castruccio Castracani che, nel giugno seguente, avrebbe aiutato Uguccione a impadronirsi della città. In seguito a questi avvenimenti, il D., che già da alcuni mesi doveva trovarsi in una situazione politicamente difficile, lasciò Lucca con tutti i suoi familiari e stabilì la propria dimora prima a Genova, e poi a Firenze.
Il giudizio sulla attività politica del D. è stato, nel secoli, influenzato da quello, durissimo e lapidario, che diede su di lui Dante bollandolo, nel canto XXI dell'Inferno, con il marchio della baratteria: "Ognun v'è barattier, fuor che Bonturo, del no per li denar vi si fa ita". La baratteria, osserva lo Scolari, "è colpa antiumana, perché spezza il vincolo costitutivo della vita civile, tradisce la fede nei reggitori dello Stato, e agisce degradando l'intelligenza a strumento di frode e malversazione"; e "l'eccezione ironica fuor che Bonturo aderge questo borghese demagogo sulla massa plebea che fece dei pubblici uffici il più sfacciato mercimonio" (F. P. Luiso). La vivida figura tratteggiata da Dante restò nella tradizione diventando, nell'Ottocento, la protagonista della già ricordata Faida di Comune di G. Carducci, nella quale il D. viene definito "mastro in far baratterie" (v. 6).
Oltre che importante uomo politico, arbitro della propria città, il D. fu anche intraprendente operatore economico. Ci restano, infatti, della sua attività commerciale, numerosi documenti che coprono l'arco della sua maturità e vecchiaia. Il più antico è l'atto, già citato, del 13 nov. 1285, attestante che il D., con il fratello, aveva comprato a Genova, per mezzo del procuratore Cino del fu Margotto, lucchese, una partita di pepe per sessantatré lire. Agli inizi del Trecento il D. costituì una società mercantile e bancaria con Cino di Margotto, Ugolino del Chiavaio e Lippo della Noia: insieme con questi soci stipulò numerosi affari con società fiorentine. Il 17 ag. 1300, ad esempio, a Firenze, ricevette da Duccio Marini, solvente a nome della società fiorentina dei Marini, 1.025 libbre a fiorino piccolo, dovute da Tano Marini a Ugolino dei Chiavaio come cambio di seicento libbre di carlini piccoli di Champagne. Ancora, il 4 febbr. 1301, Bettino dei fu Corso dei Minerbetti, mercante fiorentino, dichiarò di aver ricevuto, come procuratore del D., e dei Margotti e dei loro soci, cinquecento libbre di denari a fiorino piccolo da Giovanni di Duccio Faffi, come cambio di carlini piccoli di Champagne, consegnati alla società dei Faffi da Ugolino del Chiavaio, il socio trattante all'estero. Ugualmente, il 9 febbraio, per mezzo del procuratore Gialdello Sesmondi, i soliti soci, con Coluccio di Opizo Belnati e Benedetto Guidi, riscossero a Firenze una somma da Bettino Minerbetti. L'ampiezza di queste operazioni cambiarie fa supporre che il D. fosse un facoltoso mercante; tale ipotesi trova conforto nel tenore di vita da lui tenuto, che fu certamente alto se - come si è già detto - riuscì a maritare le tre figlie a membri di importanti famiglie e se - come sembra - possedette case con torri nella contrada di S. Pietro Maggiore.
Egli continuò ad esercitare la mercatura anche negli anni di massimo impegno politico e in quelli dell'esilio: il 30 giugno 1311 ricevette il prezzo di venti libbre di cascame di seta da Giuntaccio di Cecio Bonagiunta e il 15 apr. 1314 promise a Biliotto di Netto Biliotti, stipulante per sé e per altri mercanti della società dei Capponi-Biliotti, mille libbre di denari tomesi piccoli in cambio di denari lucchesi. A Genova - forse nella contrada di S. Paolo dove il concittadino Luti del Drago, il 7 ott. 1314, aveva affittato per un anno un'abitazione per lui - nominò due procuratori che attendessero ai suoi affari: il primo, Goro dei fu Viviano, doveva operare a Genova, a Lucca, a Pisa, in Provenza e in altri luoghi; il secondo, Giardello di Cecio Bonagiunta, doveva trafficare merci, denaro e spezierie nelle stesse città. In seguito il D. fissò la propria abitazione a Firenze, in casa di Sandro di Barduccio dei Minutoli, nel popolo di S. Maria Soprarno, dove, dopo aver dettato le ultime volontà al notaio Tolomeo di Bardetto di Lucca, venne a morte, presumibilmente verso la fine del 1324 o agli inizi dell'anno successivo: le figlie, infatti, assolsero le clausole testamentarie il 3 dic. 1325 e agli inizi del 1326. Venne sepolto nella chiesa domenicana di S. Maria Novella e sulla sua tomba, secondo la tradizione, c'era l'iscrizione: "S(epulcrum) Bunturi Dati de Luca et heredum".
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Lucca, Opera di S. Croce. n. 5, cc. 2-6; Ibid.; Estimo. n. 8, sub voce: Infrascripto sunt Possossiones et reddito ... Lucanorum civium ... in Comuni Sancti Ylarii de Branchalo ... in anno MCCCXI; Ibid., Curia dei ribelli e dei banditi, n. 3, cc. 179-180v; Ibid.. ms. 2n B. Baroni. Alberi di famiglie [sec. XVIII], c. 33; Ibid., ms. 125: Id., Famiglie lucchesi [secolo XVIII], cc. 57v-58v; Ibid., ms. 130: D. Barsanti, Pantheon dello famiglie Patrizio lucchesi [sec. XIX], c. 51; Lucca, Bibl. statale, ma. 1111: G. V. Baroni, Notizie geneal. delle famiglie lucchesi [sec. XVIII]. cc. - 39-72; Ibid., ms. 1144: Id., Stemmi delle famiglie lucchesi [secolo XVIII], c. 429; Ibid., ms. 906: B. Baroni, Memorie e aneddoti della città di Lucca, raccolte da vari manoscritti [secolo XVIII],c. 7; Cronica di Pisa, in Rer. Ital. Script., XV,Mediolani 1729, coll. 987 s.; A. Ferretto, Codice diplom. delle relaz. fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante, in Atti della Soc. Ligure di st. patria, XXXI (1901), pp. XII, XIV s.; S. Debenedetti, Pergamene Oriandini. in Gli Archivi della storia d'Italia, a cura di G. Mazzafinti - G. Degli Azzi, Rocca San Casciano 1907, pp. 204 s.; A. Mazzarosa, Storia di Lucca dalla sua origine al MDCCCXIV, Lucca 1833, pp. 1123-32; G. Tommasi, Sommario della storia di Lucca dall'anno MIV all'anno MDCC, in Archivio storico ital., X (1847), pp. 118-139; C. Minutoli. Gentucca e gli altri lucchesi nominati nella Divina Commedia, in Dante e il suo secolo, Firenze 1865, pp. 212-221; D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di G. A. Scartazzini, I, Leipzig 1874, pp. 225 s.; G. A. Scartazzini, Enc. dantesca. Dizionario critico e ragionato di quanto concerne la vita e la opere di Dante Alighieri, I,Milano 1896, pp. 250, 529; A. Scolari, Note e appunti alla "Faida di Comune" di G. Carducci, in Riv. d'Italia, XIII (1910), 2, pp. 946-967; A. Ferretto, Personaggi della Divina Commedia in Genova e nel Genovesato, in Dante e la Liguria, Milano 1925, pp. 54 s.; F. P. Luiso, L'Anziano di S. Zita. in Misc. lucchese di studi stor. e lett. in mem. di S. Bongi, Lucca 1931, pp. 61-91; A. Mancini, Storia di Lucco, Firenze 1950, pp. 99-108.- 117-25; R. Davidsohn, Storia di Firenze, IV,Firenze 1960, pp. 577, 765; G. Carducci, Faida di Comune, in Poesie scelte, a cura di P. Treves, Novara 1968, pp. 197-209; D. Corsi, in Enc. dantesca, II, Roma 1970, pp. 318 s., sub voce Dati; R. Piattoli-D. Corsi, ibid., pp. 319 s., sub voce Dati, Bonturo; R. Piattoli, I personaggi danteschi lucchesi B. D. e Alessio Antelminelli, in Misc. in memoria di G. Concetti, Torino 1971 pp. 389-407; V. Tirelli, Sulla crisi. istituzionale dei Comune a Lucca (1308-1312), in Studi Per E. Fiumi, Pisa 1979, p. 354 n. 66.