GIAMBONI, Bono (Bono di Giambono)
Nacque presumibilmente a Firenze prima del 1240 da Giambono di Vecchio, giudice fiorentino, la cui famiglia apparteneva al "popolo" di S. Martino del Vescovo.
Il padre era stato giudice a Orvieto nel 1234; nel 1242, nel 1249 e nel 1251 è documentata la sua attività a Firenze; nel 1260 risultava già morto (per una condanna da lui riportata, cfr. Gherardi, Consulte, pp. 393 s.). Un fratello del G., Giovanni, viene nominato nel Libro di Montaperti come garante di una promissione di grano: "Die veneris xxiij° iulii. Salamone f. Aldobrandini, rector populi Sancti Martini de Terenzano, starium j. Pro qui fideiussit Iohannes quondam domini Giamboni del Vechio populi Sancti Martini Episcopi" (p. 157).
Il G. intraprese la stessa professione del padre, e, come lui, prestò a Firenze la sua opera di iudex per il podestà nella curia del "sesto" di Por S. Piero. Documenti relativi alla carica di giudice, fra i non molti che restano della attività del G. (la maggior parte dei quali sono stati pubblicati e discussi da S. Debenedetti), riguardano gli anni 1261-62, 1281-82, 1286, 1290-91. Altri documenti lo vedono esercitare l'attività di iudex in qualità di procuratore (1264 e 1284) e di testimone (1268, 1281, 1291 e 1292). Nel 1272 figura in un documento insieme con Brunetto Latini, allora notaio dei Consigli e membro principale della Cancelleria del Comune fiorentino (Bolton Holloway, p. 360).
Secondo L. Mehus il G. avrebbe compiuto in gioventù un viaggio in Francia. La supposizione si basava sulla presunta conoscenza del francese da parte del G., che gli avrebbe consentito di volgarizzare il Tresor di Brunetto Latini (ma è stato ormai pressoché unanimemente stabilito che tale volgarizzamento non è da attribuire al G.), e su una frase della dedica al re di Francia presente in un ms. del volgarizzamento giamboniano di Vegezio: "Ricievete dunque questi libri insieme con altri che furono fatti dal cominciamento del mondo alla Signioria de' Francisci, i quali da la gioventudine mia ogie in Galia raghunati, che trattano di crescimenti di diverse parti del Mondo, et specialmente de' Francesci Reami" (citato in Mehus, pp. CLVI s.). Anche un altro elemento significativo della biografia del G., ossia la sua presunta appartenenza alla fazione ghibellina, sarebbe in parte da collegare alle questioni relative al volgarizzamento del Tresor. Presupponendo l'appartenenza del G. alla parte ghibellina, R. Davidsohn ha ipotizzato che dopo la pace del cardinale Latino il G. sarebbe rimasto a Firenze, dove avrebbe potuto continuare a esercitare la sua attività di giudice: prova della sua appartenenza alla fazione ghibellina sarebbe da ricercare proprio nel volgarizzamento del Tresor (Forschungen, pp. 363 s.). Alcune aggiunte di carattere storico contenute nel volgarizzamento rispetto al testo originale sarebbero infatti da far risalire a un autore che, al contrario di Brunetto Latini, di provata fede guelfa, sarebbe stato di parte ghibellina.
La tesi del Davidsohn, benché basata su dati ormai non accettabili, non è forse da rifiutare del tutto, considerando i legami che il G. intrattenne con almeno un appartenente alla famiglia degli Abati, residente nello stesso sestiere del G. e fin dalle origini schierata con la parte ghibellina. Fu a istanza di Lamberto degli Abati, che risulta ancora vivo nel 1291, che il G. compose infatti il più importante fra i suoi volgarizzamenti, quello delle Historiae adversus paganos di Paolo Orosio. Anche Julia Bolton Holloway, che ha trattato delle aggiunte storiche al volgarizzamento del Tresor, ha presupposto il ghibellinismo del G., pur non attribuendogli il volgarizzamento.
Le ultime notizie relative al G. sono in un documento fiorentino del 7 ag. 1292, e probabilmente a Firenze, in una data non troppo lontana da questa, dovette finire i suoi giorni.
Giovanni Villani ricorda la figura del figlio del G., Iacopo, morto nel 1344 "il quale era stato di santa vita […] et avea dato a' poveri ogni sua substantia et patrimonio" (Villani, pp. 384 s.), da lui guadagnati attraverso l'attività di copista.
L'attività di giudice e la partecipazione alle istituzioni cittadine sono in stretto rapporto con la produzione letteraria del G., il quale si colloca, a fianco del contemporaneo Brunetto Latini, come esponente di rilievo di quella intellettualità fiorentina che esercitava l'attività giuridica, che partecipava attivamente alla vita politica della città e che, attraverso i volgarizzamenti e la scrittura di opere originali in volgare, era impegnata nella creazione di una nuova cultura laica.
Non vi sono elementi che consentano di determinare la datazione precisa né l'ordine di composizione delle opere del G.; si sa però che egli sarebbe tornato più volte sullo stesso testo perché esistono redazioni e forme diverse sia di alcuni dei volgarizzamenti, sia dell'unica sua opera originale, il Libro de' vizî e delle virtudi.
Anche sulla base dell'abitudine a tornare più volte sullo stesso testo, G. Speroni ha attribuito al G. due delle quattro redazioni conosciute del Fiore di rettorica, libero volgarizzamento della Rhetorica ad Herennium, con inserti dal De inventione di Cicerone (Fiore di rettorica, edizione critica a cura di G. Speroni, Pavia 1994). La prima redazione, finora ritenuta opera di un anonimo, è stata attribuita al G. sulla base delle numerose coincidenze nel dettato sia con il Libro de' vizî e delle virtudi, sia con gli altri suoi volgarizzamenti e risalirebbe al primo periodo dell'attività di volgarizzatore del Giamboni. La seconda redazione, rimaneggiamento della precedente con l'importante aggiunta di un capitolo sulla memoria, è invece attribuita al G. direttamente nella tradizione manoscritta: "Questo libro tratta degl'amaestramenti dati da' savi a' dicitori che voglion parlare con parola buona, composta, ordinata e ornata, e in su le proposte sapere consigliare, il detto suo piacevolmente profferere: recati a certo ordine per messer Bono Giamboni, a utilità di coloro a cui piacerà di legger in volgare" (p. 3).
Il volgarizzamento dell'Epitoma rei militaris di Vegezio è conservato in sei codici, ed è dedicato a Manetto (Manente) della Scala, banchiere e uomo politico fiorentino. La prima, e unica, edizione del testo è stata curata nel secolo scorso da Francesco Fontani: Di Vegezio Flavio Dell'arte della guerra libri IV. Volgarizzamento di Bono Giamboni (Firenze 1815). Parte del testo è stata quindi edita, con sostanziali interventi sul testo pubblicato dal Fontani, a cura di Cesare Segre in Volgarizzamenti del Due e Trecento, Torino 1980, pp. 335-350. Lo stesso Segre ha notato che il volgarizzamento di Vegezio, rispetto agli altri volgarizzamenti compiuti dal G., mantiene una maggiore fedeltà e vicinanza al dettato del testo latino.
Maggiore libertà nei confronti del testo originale manifesta invece il G. nel suo volgarizzamento più importante, quello delle Historiae adversus paganos di Paolo Orosio: Delle storie contra i pagani di Paolo Orosio libri VII. Volgarizzamento di Bono Giamboni, a cura di Francesco Tassi, Firenze 1849. Tale volgarizzamento era stato pubblicato agli inizi del XVI secolo, ma con traduzione attribuita a Giovanni Guerini (Orosius Paulus, Historiarum adversus paganos libri septem, s.l. [Toscolano], Paganino e Alessandro Paganini s.a [tra il 1527 e il 1533]). Una scelta dal testo è stata pubblicata nella antologia La prosa del Duecento, a cura di C. Segre - M. Marti, Milano-Napoli 1959, pp. 441-452 (nota critica pp. 1082 s.), e quindi in Volgarizzamenti del Due e Trecento, cit., pp. 321-334. Il volgarizzamento orosiano del G. sarebbe stato composto, come già accennato, su istanza di Lamberto degli Abati. Nel tradurre il testo di Orosio il G. ha abbreviato ed eliminato parti che riteneva superflue o che, a suo dire, avrebbero appesantito eccessivamente la narrazione. Il volgarizzamento giamboniano delle Historiae è stato utilizzato come fonte dell'Ottimo commento alla Commedia dantesca (De Medici).
Ideale punto di arrivo della riflessione del G. e della sua morale laica è il Libro de' vizî e delle virtudi, fondamentale testo della prosa volgare predantesca. Si tratta di un trattato di argomento morale e allegorico, conosciuto anche con il titolo Introduzione alle virtù, non attestato nei codici, ma usato autorevolmente nel vocabolario della Crusca, e ripreso quindi in diverse edizioni ottocentesche. Del Libro si sono conservati una decina di codici, alcuni dei quali scoperti dopo la pubblicazione dell'edizione critica curata da C. Segre: Il libro de' vizî e delle virtudi e il trattato di virtù e di vizî, Torino 1968. La prima edizione del trattato risale al XIX secolo: Introduzione alle virtù, testo a penna citato dagli Accademici della Crusca, per la prima volta pubblicato da G. Rosini, Firenze 1810. Nel Libro è stato riconosciuto il punto di arrivo di altre due trattazioni allegorico-moralizzanti del G., la Miseria dell'uomo, rifacimento in volgare del De miseria humanae conditionis (De contemptu mundi) di Innocenzo III, e il Trattato di virtù e di vizî.
La Miseria dell'uomo è da considerarsi piuttosto un rifacimento che un volgarizzamento del De miseria humanae conditionis di Innocenzo III. Il testo latino è stato spogliato delle parti ascetiche e più cupamente moralizzanti, per essere trasformato in un più moderno, e confacente alla prospettiva del traduttore, trattato di morale laica. Il volgarizzamento venne pubblicato per la prima volta in Della miseria dell'uomo. Giardino di consolazione. Introduzione alle virtù di Bono Giamboni, aggiuntevi La scala dei claustrali. Testi inediti, tranne il terzo trattato, a cura di F. Tassi, Firenze 1836. Una scelta dal testo è stata pubblicata in La prosa del Duecento, cit., pp. 227-254 (nota critica, pp. 1063 s.). Un codice del volgarizzamento non individuato né dal Tassi né dal Segre (Firenze, Biblioteca nazionale, Pal. 108, cc. 1r-64v) è stato segnalato da G. Pomaro. Il Trattato di virtù e di vizî, una vera e propria prima redazione del Libro de' vizî e delle virtudi, venne scoperto e pubblicato per la prima volta, non integralmente, da M. Barbi dall'unico manoscritto che sembra averlo conservato (Firenze, Biblioteca nazionale, ms. Magl. XXI, 174): Un trattato morale sconosciuto di B. G., in Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo-Negri), a cura di G. Lisio, Milano 1904, pp. 63-83, e quindi ripubblicato a cura di C. Segre in edizione critica insieme con il Libro de' vizî e delle virtudi (pp. 123-156). Il contenuto del trattato corrisponde in gran parte ai capitoli del Libro in cui vengono elencati e definiti i vizi e le virtù.
Nel Librode' vizî e delle virtudi il G. inserì l'immagine della battaglia fra gli eserciti dei vizi e delle virtù (tipica di tanta letteratura medievale dalla Psychomachia di Prudenzio in poi), così come le parti propriamente didascaliche del suo discorso, all'interno di una sorta di narrazione autobiografica, che trova nella Consolatio philosophiae di Boezio il suo antecedente più diretto. Molte delle fonti e dei modelli tardoantichi e medievali del Libro (oltre a Prudenzio e Boezio si possono ricordare Claudiano, s. Bernardo, Alano da Lilla) sono stati conosciuti dal G. assai probabilmente per mezzo di testi intermedi, in alcuni casi in volgare.
Filosofia viene a consolare l'autore che sta soffrendo e piangendo per la perdita dei beni terreni. Ella lo convince però che il lamentarsi per la perdita delle cose del mondo è vano e ingiusto e che meglio per lui sarebbe l'intraprendere il cammino per la conquista del regno dei cieli, recandosi presso le virtù. Dopo essere stato sottoposto a esame presso la prima delle virtù, la fede cristiana, l'autore è quindi ammesso alla visione della battaglia fra le virtù e i vizi, che hanno come loro alleate le fedi non cristiane: ebraismo e islamismo. Al termine della battaglia l'autore viene finalmente ammesso come fedele delle virtù: "E dacché [le virtù] m'ebbero benedetto e segnato e ricevuto per fedele, scrissero Bono Giamboni nella matricola loro, secondo che la Filosofia disse ch'io era chiamato" (p. 120).
Come già ricordato, al G. è stato attribuito, sulla base della testimonianza di una minima parte della tradizione manoscritta, e sulla base di antiche edizioni, il volgarizzamento dal francese del Tresor. Proprio lo studio della tradizione manoscritta ha consentito di stabilire ormai in modo pressoché definitivo che il volgarizzamento del Tresor (il quale, in quanto opera enciclopedica, poteva per la sua stessa natura porre intricati problemi di successive, indipendenti e stratificate versioni sia nell'originale, sia nel volgarizzamento) non è da ascrivere fra le traduzioni del Giamboni. Legato alla questione dell'attribuzione del volgarizzamento del Tresor è anche il problema dell'attribuzione al G. del volgarizzamento della Formula honeste vite (o De quattuor virtutibus cardinalibus), scritto pseudosenechiano, in realtà del vescovo Martino di Braga (VI secolo). Il volgarizzamento di quest'opera, come quello dell'Etica aristotelica, è stato attribuito al G., in quanto entrambe queste opere, confluite all'interno del Tresor, hanno poi conosciuto nella loro traduzione in volgare anche una diffusione come testi autonomi: l'attribuzione al G. del volgarizzamento della Formula e dell'Etica è quindi conseguenza diretta della attribuzione allo stesso del volgarizzamento del Tresor.
Non è da attribuire al G. neanche il volgarizzamento del Viridarium consolationis del domenicano Iacopo da Benevento (XIII secolo), pubblicato insieme con altre prose morali del G. nella ricordata edizione curata dal Tassi nel 1836; questo volgarizzamento è stato attribuito anche al figlio del G., Iacopo.
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