BONIZONE
Nulla di effettivamente certo si sa delle origini di B.: sconosciuta la famiglia, sconosciuto il luogo e l'anno di nascita.
Dal suo parlare, soprattutto nel Liber ad amicum, di Cremona e di popolo, si è voluto naturalmente dedurne l'origine cremonese e popolare. Ma dato che B. parla non poco anche di Piacenza, e che con Piacenza molto ebbe a che fare, non è mancato chi ha supposto per lui un'origine piacentina. Altri, infine, per la conoscenza che B. dimostra della Lombardia e delle tradizioni ambrosiane, ha concluso, con maggior prudenza, per una sua origine lombarda o comunque padana. Ogni ipotesi in realtà è possibile: e per questo meglio è concludere che non se ne sa nulla. Come nulla si sa della sua famiglia e della sua data di nascita, anche se il fatto che il 3 ott. 1078 egli figuri in un'iscrizione cremonese come "episcopus Sutrinus ac legatus apostolicus" (cfr. Schwartz, p. 264 n. 1) può far legittimamente supporre che fosse nato non dopo - o almeno non molto dopo - la metà del secolo (difficile sembra poter dire di più e stabilire un termine ante quem, perché è noto che la norma secondo la quale per la consacrazione episcopale sarebbe stato necessario avere almeno trent'anni non di rado era violata). Per il primo periodo della biografia di B. si dovrà tener conto anche della notizia che egli stesso ci dà, nel suo De arbore parentele, di aver visto il papa Alessandro II "nostris oculis... in sinodo habita in Lateranensi consistorio"; è impossibile determinare però di quale sinodo si tratti (l'unico concilio di Alessandro II che B. ricorda nel Liber ad amicum, VI, p. 600, è quello della quaresima del 1073: ma ciò non vuol dire che proprio quello fosse il concilio nel quale egli vide Alessandro II). Nel De arbore parentele B. vuole soltanto rilevare di aver conosciuto, di aver visto quel papa, perché evidentemente appariva già un papa di anni lontani: ed è attestazione che dimostra come B. potesse far parte di una delegazione ad un sinodo - quasi certamente come membro del clero - già negli anni del pontificato di Alessandro II.
Non molto credito si può dare alle numerose identificazioni con le quali via via si è voluto rintracciare la presenza e l'attività di B. prima della sua assunzione al vescovado di Sutri. Con il consueto procedimento che fa di un'ipotesi spesso poco probabile una notizia, tutti i Bonizone lombardi della seconda metà del sec. XI sono stati assimilati al nostro, a scandire le tappe di una carriera altrimenti misteriosa: così il Bonizone canonico sacerdote e sacrista del duomo piacentino (1055), il Bonizone "abbas de sancto Petro de Campo" ricordato in un documento matildino del 1072, il Bonizone canonico e suddiacono aretino del 1073. Se tutte queste individuazioni risultano con ogni evidenza molto azzardate, improbabili e perciò inutili, maggior credito ha raccolto tra gli studiosi l'identificazione con B. di quel Bonizone suddiacono piacentino che una lettera di Gregorio VII del 27 nov. 1074 (Registrum, II, 2b, a cura di E. Caspar, in Mon. Germ. hist.,Epist. selectae, I, Berolini 1920, p. 158) ci testimonia in contesa con il suo vescovo Dionisio (che sarà deposto nel sinodo quaresimale del 1075: ibid., II, 52a e 54, pp. 197, 198 s.). Tuttavia, a ben guardare, anche questa identificazione si basa su alcune ipotesi non necessarie: che cioè il Bonizone messosi in luce nella lotta contro Dionisio debba essere stato premiato da Gregorio VII con un vescovado, che B. debba avere necessariamente un passato di combattente in zona piacentina (c'è da chiedersi allora perché non altrove, senza che ce ne sia pervenuto il ricordo), che infine tra i frustoli che ci sono giunti a memoria degli uomini e delle vicende di quei secoli non ci siano nomi infiniti che si affacciano solo per un momento alla vita della storia, scomparendo poi irrimediabilmente, e altri che si presentano come improvvisamente con una parte di primo piano e sembrano quasi non avere passato. Tali e tanti sono i Bonizone che appena tralucono dai documenti di quel periodo, che andare ad identificare il nostro sembra opera perfettamente inutile.
Dopo la notizia della sua partecipazione a un concilio lateranense di Alessandro II, la prima attestazione certa su B. è offerta dall'epigrafe cremonese menzionata sopra, che ricorda la consacrazione ad opera sua della chiesa di S. Tommaso, nella quale furono solennemente traslate le ossa dei santi Pietro e Marcellino, alla presenza di numerosi prelati locali. Ma di questa sua missione lombarda, per la quale appunto B. era "legatus apostolicus", null'altro praticamente si sa e tutto facilmente si può supporre - i legami con Milano e con i resti della pataria, la lotta contro l'episcopato lombardo (i "cervicosi tauri" più volte da lui bollati), l'impegno per la riforma. Così come nulla effettivamente si sa della data in cui assunse il vescovado di Sutri (punto importante di passaggio per le comunicazioni tra Roma e il Nord). L'ultima menzione del suo predecessore risale al 15 maggio 1070 (Schwartz, p. 264). Poiché è assurdo pensare che per otto anni Sutri sia rimasta senza vescovo, si deve concludere che le tracce dell'attività del vescovo di Sutri in quegli otto anni sono scomparse. Chi propende all'identificazione di Bonizone suddiacono piacentino con B. porrà naturalmente l'elevazione di questo all'episcopato fra il 1075 e il 1078; ma meglio sarà limitarsi a riscontrare questa lacuna nelle fonti.
Anche le successive tracce dell'attività di B. restano rade e sporadiche: sembra fosse presente al concilio romano del febbraio 1079 se, come pare, l'"episcopo Sucirensi" degli editori della relatio di Berengario di Tours va corretto in "Sutriensi" (L D. Mansi, Sacror. Concil. Nova et Ampliss. Collectio, XX, 761). Nel 1082, secondo una notizia di Bernoldo di Costanza (Chronicon,ad a. 1082, p. 437), B. fu catturato da Enrico IV, impegnato con il suo esercito in uno dei suoi stagionali soggiorni nel Lazio nel tentativo di conquistare Roma. Ma Sutri già l'anno precedente era stata espugnata dagli enriciani ed è in quella occasione, è da credere, che B. fu "espulso" dalla sua sede, secondo quanto ricorda lo stesso Bernoldo nel dare notizia della sua nomina a vescovo di Piacenza da parte dei Piacentini "catholici" (ad a. 1089, p. 449). Fuggito, non si sa né come né quando, dalla prigionia, trovò almeno per un certo tempo rifugio presso la contessa Matilde. E fu presente a Mantova, con la contessa e altri vescovi, nei giorni immediatamente successivi alla morte di Anselmo da Lucca (18 marzo 1086). Vi sostenne con successo, contro il parere dei più, l'opportunità di seppellire il santo vescovo nella cattedrale piuttosto che tra i suoi antichi confratelli di S. Benedetto di Polirone.
In questo periodo, con tutta evidenza, B. scrisse il Liber ad amicum, posteriore appunto alla morte di Gregorio VII (25 maggio 1085), ma in un momento, sembrerebbe, in cui i gregoriani non avevano provveduto ancora a contrapporre un nuovo papa all'enriciano Clemente III (l'elezione di Vittore III ebbe luogo il 24 maggio 1086). L'opera, violentemente polemica e sostenitrice, come si vedrà, di una lotta senza quartiere contro gli scismatici eretici (e non mancavano forse, da parte di B., più precisi timori che quel momento di vacanza della sede apostolica e di grave turbamento e sconcerto tra i seguaci di Gregorio VII potesse favorire tendenze conciliatrici nei confronti di Guiberto, che il Liber ha cura di bollare con particolare violenza), fu seguita da un diretto impegno di predicazione e di lotta da parte di B. nella diocesi di Piacenza. "Non est dicere, quanta prestigia agat Bonizellus, et in Placentina urbe atque in eiusdem plebibus insistens diabolicis predicationibus, reprobandis quoque aecclesiarum consecrationibus": diffamatoria come sempre, non per questo la testimonianza di Benzone vale meno ad indicare il rilievo ed il peso della sua attività agitatoria. È con ogni probabilità nel corso di questa sua attività che si inserì il tentativo di una parte del clero e del popolo di Piacenza di imporlo come vescovo alla propria diocesi. B. fu eletto "a Placentinis catholicis", ci attesta Bernoldo (dove "catholici" si contrappone allo "scismatici" usato a designare i seguaci del partito guibertino e imperiale); "non ab universitate illius ecclesiae neque a melioribus tam clericis quam laicis" secondo le parole di Urbano II.
Le due informazioni, che costituiscono anche due giudizi, non sono in realtà contraddittorie. Bernoldo, scrivendo parecchi anni dopo, ha presente tutto l'itinerario di B. e la situazione di profonda lacerazione che caratterizzava allora la cristianità occidentale: da una parte gli enriciani, che riconoscevano come pontefice Clemente III, dall'altra i gregoriani, fedeli a Urbano II. Nel ricordo complessivo di una lunga e tormentata vicenda le sfumature si cancellano, i dubbi, le oscillazioni, i contrasti all'interno del fronte romano vengono obliterati dallo stesso persistere della frattura maggiore. Urbano II scrive invece nel corso degli avvenimenti (anche se i tre frammenti che riguardano l'affare di Piacenza non sono datati, pare persuasiva la proposta di riferirli al 1088, comunque prima delle gravi mutilazioni nelle quali B. incorse durante il 1089): sono i primi anni del suo pontificato, quando egli appunto è più o meno direttamente impegnato in uno sforzo che, se non è di pacificazione con il partito imperiale (ma la testimonianza di Bernoldo su tentativi in questo senso è notevolmente precisa), mira tuttavia ad allargare i consensi con un'ampia opera di riconciliazione nei confronti di prelati che al partito imperiale dovevano la loro originaria promozione o comunque il loro ingresso negli ordini (casi di Anselmo arcivescovo di Milano, di Daiberto vescovo di Pisa, di Poppone vescovo di Metz, ecc.). Urbano II non esitò a ricorrere a vere e proprie "reordinazioni", sulla base del principio: "qui nihil habuit, nihil dare potuit", che faceva sì che si potesse parlare non di "reordinazione" ma di vera e propria prima ordinazione. B. nel suo Liber de vita christiana (certamente posteriore alla primavera 1089) criticherà duramente tale modo di procedere. Ma al di là di questo dissenso puntuale - al momento dell'affare di Piacenza forse nemmeno ancora esplicito - è probabile che fosse la stessa linea conciliativa e moderata di Urbano II a indurre il pontefice a un appoggio quanto mai cauto all'elezione di B. a vescovo di Piacenza. L'appoggio c'è, e sarebbe stato difficile negarlo a un accanito partigiano di Gregorio VII qual era stato B.: ma pieno di cautele, clausole limitative, rammarichi e reticenze; e l'assenso è condizionato in primo luogo alla possibilità che l'intronizzazione sulla cattedra piacentina potesse avvenire "cum pace et cleri populique concordia". Né era pretesa da poco, se lo stesso Urbano II riconosceva con rammarico che molti chierici e laici di Piacenza si opponevano all'elezione di B. ed avevano stretto una coniuratio contro di lui. La impressione insomma è che B. fosse in quel momento un personaggio scomodo per la linea politica del papa; e che questi badasse perciò con gran cura di evitare di comprometterla prendendo troppo nettamente posizione per l'intransigente agitatore.
La situazione tuttavia precipitò, senza probabilmente che B. fosse riuscito a perfezionare canonicamente la controversa elezione (nell'intestazione di opere certo successive a questi mesi egli continua a figurare, come figurava nelle lettere di Urbano II, quale "episcopus Sutrinus"): attaccato dai suoi avversari, fu preso e orrendamente mutilato. Gli furono strappati gli occhi, tagliati il naso, la lingua, le orecchie: la testimonianza di Rangerio (Vita metrica Anselmi Lucensis episcopi, a cura di E. Sackur, G. Schwartz, B. Schmeidler, in Mon. Germ. Hist.,Scripter., XXX, 2, Lipsiae 1934, p. 1299, vv. 6886-6890)concorda in realtà perfettamente con quanto ci dice più genericamente Bernoldo: "effossis oculis, truncatis pene omnibus membris".
Sulla scorta del Campi (Dell'Historia ecclesiastica di Piacenza, I, Piacenza 1651, pp. 358 ss.), molti studiosi non hanno esitato a collegare questa vicenda agli assai più tardi racconti degli Annales placentini guelfi e del Chronicon Placentinum di Giovanni de Mussis che attestano, nel 1091 i primi, nel 1089 il secondo, aspri scontri avvenuti a Piacenza fra il partito popolare e i milites. Indubbiamente il collegamento è seducente, anche se il nome di B. resta assente in entrambe le testimonianze. Né d'altra parte, a rendere ancor più dubitosi della legittimità di esso, si può ignorare che entrambi i termini dei due racconti, anche se probabilmente fondati su attestazioni e tradizioni antiche, sembrano chiaramente corrispondere alle situazioni e ai contrasti molto più tardi dei quali sia l'anonimo autore degli Annales placentini guelfi sia Giovanni de Mussis ebbero o diretta esperienza o più vicino ricordo. Né comunque il racconto "politico" e strettamente locale dei due cronisti mantiene la minima traccia dei temi e delle polemiche più specificamente legate al contrasto tra imperiali e gregoriani che è difficile poter immaginare assenti nelle lotte scatenatesi intorno alla personalità di Bonizone. Si sarebbe perciò indotti a concludere che ci troviamo di fronte a fatti diversi, o quanto meno a travestimenti così diversi di un'unica vicenda da rendere estremamente aleatorio - oltre che sostanzialmente illegittimo - il tentativo di stabilire una saldatura reale tra di essi.
Le gravi mutilazioni non uccisero tuttavia B., se devono ritenersi posteriori al 1089 (o almeno al giugno 1089) il Liber in Hugonem scismaticum, che egli scrisse, secondo la sua stessa testimonianza, dopo la "vittoria" di Urbano II (e la prima vittoria alla quale si può pensare, ove non si voglia scendere fino alla più ampia e pressoché definitiva del 1094, è costituita appunto dalla cacciata di Clemente III da Roma che ebbe luogo tra il giugno e il luglio 1089), il Libellus de sacramentis e il Liber de vita christiana, che citano entrambi il Liber in Hugonem scismaticum. Dal momento che ben due necrologi e una lapide sepolcrale concordano nell'indicare il 14 luglio come data della sua morte, si dovrà necessariamente pensare a un 14 luglio di qualche anno successivo, essendo assolutamente impensabile che nello spazio di un mese - o poco più se non poco meno - B. abbia potuto scrivere tre opere del genere. Del resto, a ben guardare, la testimonianza di Rangerio sta a indicare che B. sopravvisse alle orrende mutilazioni: quando intervenne a parlare sul feretro di Anselmo, dice Rangerio, B. era già da tempo in esilio per la fede, "sed necdum lingua mutilus, necdum sine luce, / et necdum gemina nare vel aure carens"; e ciò sembra voler dire chiaramente che ci fu invece un periodo in cui B. visse ed operò ridotto così. Come e dove non sappiamo: dolorosi accenni ad amare peregrinazioni contenuti nel Lib. de vita christ. possono riferirsi a quest'ultimo periodo come ad anni precedenti. La frase di Bernoldo: "post multas captiones, tribulationes et exilia" - che d'altra parte sembra voler limitarsi ad introdurre la notizia del suo "martirio" - è comunque una frase topica, dal momento che si trova ripetuta, quasi uguale, nell'annunciare la morte di due altri campioni della causa gregoriana, Adalberone di Würzburg ed Altmanno di Passau. Ciò che può dirsi con certezza è che opere come il Lib. de vita christ. sono di lunga lena e di ricerca ampia e paziente, e presuppongono perciò anche una certa stabilità di sede, e di assistenza e di biblioteca. Senza tentare di scegliere inutilmente un anno in cui fissare la sua morte, è da ritenere tuttavia ancora valida l'osservazione del Fournier, che poneva come probabile termine ante quem della morte di B. il 1095, perché manca ogni accenno nelle sue opere ai grandi concili di quell'anno che trattarono, fra l'altro, problemi che B. stesso lungamente discusse. Un epitaffio trovato nella chiesa di S. Lorenzo di Cremona sembrerebbe attestare che egli fu ivi sepolto. Oltre ad indicare forse la zona del suo ultimo soggiorno, questa potrebbe essere anche una ulteriore testimonianza che la sua morte avvenne indipendentemente dalle gravi mutilazioni riportate a Piacenza.
La prima opera di B. - o meglio la sua prima opera databile, come s'è visto, con buona probabilità (fra la seconda metà del 1085 e la prima metà del 1086) - è il Liber ad amicum: uno scritto che è insieme pamphlet polemico, racconto storico e meditazione di teologia della storia.
B. si propone di rispondere con esso a due questioni prospettategli da un anonimo amico. La Chiesa di Dio appare prostrata, e vane sembrano le sue preghiere di liberazione, mentre i figli del demonio esultano intorno al loro re: di qui la domanda come sia possibile tutto ciò, "presertim cum qui dispensat omnia ipse sit qui iudicat aequitatem". Il tema centrale del Liber ad amicum costituisce la risposta a questa prima domanda. Ma nel corso della sua esposizione B. avrà modo di rispondere anche alla seconda, in qualche modo più particolare e circoscritta: se cioè sia lecito ad un cristiano usare le armi per, questioni di fede ("pro dogmate armis decertare", p. 571).
II primo problema posto a B. dall'anonimo amico, se rasceva da una constatazione di fatto (il "fallimento" del pontificato di Gregorio VII, la vittoria dei suoi nemici, nemici di Dio e della Chiesa), riguardava in realtà l'interpretazione generale, l'ottica, con la quale deve essere esaminata la storia della Chiesa: o meglio, in questi termini imposta B. la sua risposta, scegliendo il terreno dell'esposizione storica per mostrare che non è con un metro di giudizio umano che possono essere giudicate le vicende riguardanti la Chiesa; ed insieme per cogliere, attraverso un'esposizione di fatti, il senso profondo di quella storia. Per questo il Liber ad amicum è un libro di teologia della storia, il primo libro medievale che può effettivamente essere definito tale dopo il De civitate Dei di s. Agostino: perché, se l'ambito cronologico che esso si dà e la sua stessa periodizzazione sembrano ripetere gli schemi delle cronache universali (da Adamo al proprio tempo: ante legem,sub lege,sub gratia), in realtà i fatti risultano selezionati e organizzati dal problema che lo scrittore si propone di risolvere: problema che riguarda appunto i termini, i modi e le caratteristiche della presenza di Dio nella storia, e quindi la condizione e i modi di essere della sua Chiesa. Sta qui in primo luogo la novità e l'importanza di questo scritto di B., che rappresenta l'unico contributo originale sul piano storiografico offerto dalla cultura ecclesiastica italiana nel periodo della riforma. I suoi precedenti ideali (un rapporto diretto è indimostrabile) possono essere ravvisati in alcuni rapidissimi scorci di storia ecclesiastica - prospettata in termini di teologia della storia - presenti nelle opere di Pier Damiani e in alcuni capitoli dell'AdversusSimoniacos di Umberto di Silva Candida. Più generalmente si può osservare che questa impostazione corrisponde a una tendenza profonda della cultura riformatrice, impegnata a ricercare nella storia della Chiesa, nelle sue origini, nella ininterrotta tradizione del magistero papale depositato nelle raccolte canoniche, le linee solutive dei problemi teologici e disciplinari del proprio tempo. Né va trascurato il fatto che la linea "storica" scelta da B. per la sua risposta corrisponde anche più precisamente a una scelta personale che appare significativamente anche in altri suoi scritti, rappresentando una chiave di lettura tipica della sua impostazione canonistica. È un atteggiamento che si ritrova, come vedremo, tanto nell'altra sua opera maggiore, il Lib. de vita christ., quanto nel Libellus de sacramentis e nel De arbore parentele, e che corrisponde all'esigenza sempre più diffusa fra i canonisti del periodo di superare le contraddizioni presenti nella tradizione canonistica: B. attua il suo tentativo ordinando le diverse disposizioni secondo una linea di sviluppo storico, legandole cioè ai nuovi bisogni e alle nuove esigenze della società suscettibili perciò di nuove e più attente precisazioni.
Il Liber ad amicum sidivide in nove libri: più brevi i primi quattro, molto più ampi i successivi. Nei primi quattro B. presenta una rapida storia della Chiesa (che diventa anche, con la nascita di Cristo, e soprattutto con la conversione di Costantino, storia dell'Impero e della società civile) dalla morte di Abele alla morte di Enrico II: i fatti sono esposti con molta schematicità, anche se non mancano rilievi e giudizi chiaramente condizionati dai problemi contemporanei (giudizio su Costantino; affermazione che Ludovico il Pio fu il primo dei Franchi a fregiarsi della dignità imperiale, per evitare di vedere abbinati in Carlo Magno i titoli di imperatore e di patrizio, abbinamento sul quale anche si fondava la pretesa dell'imperatore di aver parte nell'elezione papale; condanna delle usurpazioni compiute a Roma da parte dei capitanei e denuncia dell'illegittimità delle competenze in materia di elezione papale che essi vennero attribuendo alla dignità del patriziato; giudizio positivo su Ottone I, notevolmente critico su Ottone III, ecc.). Con gli ultimi cinque libri invece (dall'avvento di Corrado II alla morte di Gregorio VII, ma il racconto storico è frequentemente alternato a digressioni trattatistiche e polemiche) B. viene a parlare di fatti per i quali ha potuto raccogliere testimonianze dirette o dei quali è stato testimone egli stesso, fatti inoltre che cominciano ad avere una precisa ed immediata rilevanza nei confronti di quelle stesse vicende delle quali B. fu attore appassionato. Il giudizio che di essi viene dato comporta precise conseguenze anche su quello delle vicende successive, quelle stesse intorno alle quali più dura verteva la contesa tra sacerdotium e regnum. Questa angolazione prospettica sussisteva già chiaramente anche nei libri precedenti. Ma qui la relazione tra racconto e scelte operative si fa sempre più stretta ed immediata. Entra in campo Ildebrando, molti dei personaggi ricordati sono tra i protagonisti di quella stessa storia alla quale anche B. ha partecipato e partecipa. La ricostruzione storica diventa perciò concreta e precisa indicazione morale e politica sull'atteggiamento da tenere nei confronti di uomini e gruppi tuttora presenti sulla scena. Questo vale come caratterizzazione generale del discorso di Bonizone. Ancora sul piano generale si può aggiungere che, oltre al taglio particolare della presentazione e del giudizio, anche la selezione dei fatti - al di là degli oggettivi condizionamenti legati alla esperienza e alla conoscenza che B. poteva avere di uomini e cose - appare sempre più direttamente legata ai problemi attuali che il gruppo gregoriano intransigente si trovava davanti in seguito alla morte di Gregorio VII. Un chiaro indizio in questo senso è offerto dal rilievo negativo che subito tendono ad assumere personaggi come Guiberto di Ravenna, Ugo Candido, i vescovi lombardi, e via dicendo. Anche per questo le vicende narrate sono ormai soprattutto quelle della lotta per la riforma del clero, schematizzata nel contrasto che oppone, al Papato e al "popolo" fedele che si raccoglie intorno ad esso, i preti concubinari e simoniaci. Loro sostegno principale sono i vescovi lombardi, costantemente orientati in una linea d'azione antiromana, e, per le comuni origini familiari e di classe, quei capitanei e varvassores che a Roma come a Milano ravvisano nella sistematica intromissione negli affari ecclesiastici una fonte di potenza. Lo schema in gran parte arbitrario ma così consueto nella storiografia moderna, che vede nella riforma una lotta contro la Chiesa "feudale", trova in queste pagine di B., meccanicamente tradotte in una raffigurazione di tendenze economico-sociali tra loro contrapposte, la sua prima formulazione e una delle sue fonti di rilievo.
La zona geografica che B. ha maggiormente presente in tutti questi libri è l'Italia centrosettentrionale: le vicende successe altrove (Germania, Italia meridionale, Francia) sono richiamate nella misura in cui interferiscano con questa storia o abbiano comunque a protagonisti esponenti della riforma. Non si tratta solo della storia di cui B. ha maggiore esperienza: la sua riforma è riforma soprattutto papale impostata e condotta avanti da Roma, e ha come punto d'arrivo la grande crisi che chiude il pontificato di Gregorio VII: la delimitazione geografica è conseguente a questa visione della riforma e corrisponde al punto d'arrivo del suo racconto.
Con il libro VII, che va dall'elezione di Gregorio VII alla prima scomunica e deposizione decretata contro Enrico IV, il carattere "politico" del racconto di B., che tiene soprattutto presenti, per confutarle, le polemiche e le questioni agitate dalla pubblicistica antigregoriana, diventa assolutamente evidente: notizie esatte, ipotesi, invenzioni, schemi consuetudinari astratti, prescrizioni giuridiche servono tutte a costruire un racconto polemico che tiene indirettamente conto - senza cioè criticarla direttamente ma combattendola per dir così in termini positivi - della nuova situazione suscitata nella cristianità occidentale dall'elezione di Guiberto a papa del partito enriciano. Così, per esempio, tutto il racconto dell'elezione papale di Ildebrando - sottolineando il ruolo giocato in essa dal cardinale Ugo Candido, e inventando una supposta richiesta di consenso alla propria elezione che Gregorio avrebbe rivolto ad Enrico, consenso che questi avrebbe concesso - mira a rilevare indirettamente le contraddizioni degli avversari di Gregorio VII, impegnati allora a negare la legittimità del suo titolo papale (e sarà questo un discorso che B. riprenderà in termini espliciti alla fine dell'opera). Lo si è già detto ma sarà opportuno insistere: si tratta di una sorta di doppio binario, per dir così, lungo il quale B. organizza la sua polemica, e che costituisce un aspetto caratteristico e pressoché esclusivo della sua opera: nel senso che accanto alla discussione diretta di questioni politico-giuridiche, condotta attraverso la citazione e l'esame di testi canonistici e di "precedenti" storici, B. costruisce un racconto storico che offra esso la conferma della legittimità e giustezza della linea d'azione tenuta dalla sua parte. Siamo ben oltre la semplice e tradizionale ricerca dei "precedenti": perché è tutto il complesso delle vicende storiche che viene indicato, se non come pietra di paragone, almeno come sostegno del proprio giudizio.
Le ultime pagine del Liber riprendono in termini espliciti il problema prospettato nella seconda domanda rivolta a B. dall'anonimo amico, se cioè sia lecito al cristiano usare le armi per questioni di fede. La risposta di B. è chiarissima: ho messo insieme il racconto storico che chiedevi, egli dice, perché tu sappia che "si licuit unquam christiano pro aliqua re militare, licet contra Guibertistas omnibus modis bellare". Ma quasi per non lasciare adito a dubbi egli riprende sistematicamente il problema raccogliendo una piccola summula di auctoritates evangeliche, patristiche e canonistiche, nonché una breve serie di exempla sul tema. Chiude il Liber un caldo elogio della contessa Matilde, additata come modello a tutti i milites cristiani.
Se questo è lo schema sommario del Liber, alcuni ulteriori rilievi si impongono su qualche aspetto particolare dell'opera bonizoniana e soprattutto sui limiti entro i quali egli risponde ai problemi propostisi all'inizio dell'opera. La risposta fondamentale che B. dà alla prima questione, riguardante il perché della prostrazione e della sconfitta cui la Chiesa di Dio (la parte gregoriana) sembrava allora soggiacere, può riassumersi in una frase programmatica enunciata all'inizio del I libro: "Mater ecclesia, que sursum est nec servit cum filiis suis, tum maxime liberatur, cum premitur, tunc maxime crescit, cum minuitur" (p. 571). Questo concetto fondamentale viene via via ripreso e ribadito nel corso del racconto, e trova un suo complemento particolare ed insieme illuminante nel modo di presentare ed interpretare una serie di "sconfitte" di quella che B. considera la parte giusta (una sorta di dualismo molto semplice ed elementare i fedeli di Dio, della Chiesa, contrapposti ai seguaci del maligno - è costantemente presente nel discorso bonizoniano): per spiegare Civita, la momentanea vittoria militare di Cadalo, i successi sul campo di Enrico IV, B. ricorre ai misteriosi disegni di Dio ("consilia Dei abyssus multa", "Dei ineffabilis providentia", "occultum Dei iudicium": cfr. I. V, p. 589, rr. 20 s.; l. VI, p. 595, rr. 21 s.; l. IX, p. 613, rr. 15 s.).
La risposta così formulata si limita peraltro a offrire un canone di comprensione della storia, non un'indicazione di linee di condotta e di comportamento: nel senso che B. si guarda bene dal dedurre da essa conseguenze che escludano la battaglia e la lotta come strumenti per garantire la presenza e l'attuazione della parola di Dio nella storia; si guarda bene cioè dal dedurre la necessità, per la Chiesa, di una presenza nella storia che sia fatta solo di disarmata e sofferta testimonianza. Se l'inscrutabile mistero della provvidenza di Dio richiede che nelle sue vicende temporali la Chiesa passi attraverso prove terribili, sconfitte, persecuzioni - ma è sotto lo stesso segno dell'ineffabile giudizio di Dio che vanno viste le sue vittorie, i suoi immancabili trionfi -, proprio il carattere imprevedibile e misterioso di questo procedere divino non esclude che la Chiesa si difenda, lotti e combatta grazie alle armi dei suoi fedeli, anzi impone la vendetta e il castigo contro coloro che di quelle persecuzioni e di quelle prove sono stati perfidi artefici. E questa vendetta sarà sempre opera di Dio, avvenga essa direttamente o per tramite dei suoi fedeli. Perciò B., senza contraddire la sua interpretazione generale della storia della Chiesa, può rilevare, come caratteristica costante degli imperatori romani dopo Costantino, il governo felice di quanti rispettarono la Chiesa e le gerarchie, e la mala sorte di coloro che furono ribelli e disobbedienti (l. II, p. 575, rr. 13 ss.). È nello stesso ordine di idee il commento di B. ad un violento intervento popolare che brucia il prefetto ariano di Costantinopoli, "cum omni domo sua et familia", per aver tentato di espellere il vescovo cattolico dalla sua sede: "Quod factum non est a sapientibus improbatum sed potius laudatum" (l. II, p. 574, rr. 15 s.). Ed ancora in questo contesto si inseriscono fatti come la donazione a Corrado II di un "vexillum ex parte beati Petri" che gli garantirà la vittoria contro gli Ungari: "Victoriam quidem tibi spopondimus. Vide, hoc ne tibi ascribas, sed apostolis" (l. V, p. 585, rr. 34 s.); 0 il consenso con il quale accompagna il durissimo trattamento al quale Roberto il Guiscardo sottopone i Romani dopo la presa della città: "tali pena digni erant multari, qui ad similitudinem Iudeorum pastorem suum tradiderunt" (l. IX, p. 615, rr. 6 s.).
In realtà la riflessione di B. sul significato della storia della Chiesa, proprio perché muove da una situazione tragicamente attuale - la sconfitta dei gregoriani - è costretta per dir così a muoversi lungo una linea che rileva fortemente i momenti di persecuzione, depressione, avvilimento: la crocifissione di Cristo costituisce un ovvio punto di riferimento, esemplare per tutta la storia successiva. Ma proprio perché la tendenza di fondo è, coerentemente a tutta l'impostazione gregoriana, di affermare un controllo, una supremazia del sacerdotium sututta la vita civile, questo riferimento e gli altri exempla minori scelti sulla stessa linea non divengono modelli di comportamento individuale e collettivo, ma solo manifestazioni di quell'occulta provvidenza divina che, proprio perché tale, va accettata e considerata nella sua imperscrutabilità e che, d'altra parte, per questa sua stessa imperscrutabilità, non può offrire in realtà alcuna norma stabile e coerente di condotta e di giudizio. Perciò quello che veniva tradizionalmente considerato "iudicium Dei" perde la sua consistenza di solida pietra di paragone e richiede di volta in volta interpretazioni particolari che si devono fondare su altri dati e constatazioni (è caratteristica al riguardo la sottile lettura alla quale B. deve sottoporre quella sorta di profezia che Gregorio VII avrebbe pronunciato il 14 apr. 1080 sull'imminente morte del re ove questi non si fosse ravveduto: l. IX, pp. 616 s.). La riflessione complessiva sulla storia della Chiesa e sulle "persecuzioni" alle quali essa di volta in volta dovette soggiacere offre a B. soprattutto una conferma alla sua intransigente volontà di perseverare nella linea gregoriana, resistendo con ogni mezzo ai perfidi fautori di eresia e di scisma del partito imperiale e guibertino.
Il B. del Liber ad amicum non è un grande intellettuale, né un uomo di vaste e disinteressate letture o particolarmente impegnato su di un piano culturalmente critico. È un appassionato uomo di partito, che trova nella tenace adesione alla Chiesa romana, alla Chiesa di Gregorio VII, la ragione di fondo delle sue scelte e delle sue posizioni: "non può essere apocrifo ciò che è stato corroborato dell'autorità della Chiesa di Roma". Questo principio, che egli sosterrà nel Lib. de vita christ. (IV, 18, p. 119)contro i detrattori delle leggende agiografiche, vale in realtà come elemento distintivo di buona parte della sua opera: il criterio di verità, di autenticità, di analisi dei testi, così come quello di giustizia nelle vicende storiche, non è interno ai singoli fatti o ai singoli scritti, ma dipende in ultima analisi dalla posizione romana; e la "dimensione storica" che B. sembra attuare per la sua lettura canonistica o per la sua polemica contemporanea rappresenta in sostanza soprattutto un valido strumento apologetico per superare singole difficoltà o incongruenze.
Il carattere per dir così relativamente limitato della cultura e degli interessi culturali del B. del Liber ad amicum risulta anche dall'analisi delle sue fonti. Il problema è in realtà ancora aperto, perché mentre sono sufficientemente chiare le sue fonti materiali, non altrettanto si può dire per quelle formali. Per i primi libri si è certamente servito della Historia ecclesiastica tripartita di Cassiodoro, e del Liber pontificalis (soprattutto per le "vite" di Adriano I e di Stefano V). Ma bisogna essere molto prudenti nell'allungare troppo l'elenco. Anche qui, come, lo si vedrà, per il Liber de vita christ., è probabile supporre l'esistenza di compilazioni intermedie e di florilegi che ci restano in gran parte sconosciuti. Le molte coincidenze fra il Liber ad amicum ed il Lib. de vita christ. (segnalate in parte dal Dümmler) sembrano riportare appunto ad una serie di testi, abbastanza limitati, - che B. dovrebbe aver tenuto abitualmente sotto mano. Del resto una compilazione esclusivamente agostiniana come il Paradisus (opera questa probabilmente, come si vedrà, di B.) testimonia con sufficiente precisione quale fosse il tipo di anelli intermedi sui quali si veniva fondando la pubblicistica e l'opera canonistica dei riformatori. Ma ammonisce anche sul fatto che solo un sistematico spoglio fra i manoscritti conservati nelle biblioteche - o la fortuna di nuovi ritrovamenti - potranno permettere un discorso non approssimativo sulle fonti formali di questa letteratura.
Accanto al Liber ad amicum ci sono pervenute di B. altre quattro opere compiute, oltre ad alcuni frammenti confluiti in compilazioni contemporanee o di poco posteriori: il Libellus de sacramentis, il De arbore parentele, il Paradisus, ed il Liber de vita christiana. Diverse per mole ed impegno, tutte si collocano (con alcuni dubbi per il Paradisus), e almeno per quanto riguarda la loro stesura definitiva, nell'ultimo periodo della sua vita. Tra esse spicca indubbiamente il Liber de vita christ., forse l'opera maggiore, di più lunga lena e di più vasto impegno di B.: opera inoltre, per il suo stesso impianto, assolutamente singolare ed unica nella letteratura riformatrice del periodo. Il suo scopo è di offrire una informazione esauriente sugli strumenti e sulle norme specifiche necessarie alla attuazione della vita cristiana e sulle sue diverse possibilità di manifestazione. Per questo egli traccia un quadro completo degli ordines e degli stati presenti nella Chiesa e delle leggi e dei precetti che ne regolano l'attività. Il Lib. de vita christ. perciò non costituisce tanto una raccolta di canoni, quanto piuttosto un'opera originale - e, come si è detto, unica ancora per la fine del sec. XI -, nel corso della quale a lunghe descrizioni, disquisizioni e commentari personali si alterna un cospicuo apparato di auctoritates canoniche di varia origine e provenienza, che rappresentano in un certo modo la parte documentaria e "scientifica" del Liber.
Della data, almeno di quella della sua stesura definitiva, si è già detto: dopo la seconda metà del 1089 e difficilmente oltre il 1095. Nulla vieta pensare che il lavoro di spoglio e di raccolta dei materiali più propriamente canonistici fosse iniziato già molti anni prima: ma nulla tuttavia lo attesta. Il fatto che non vengono riportati canoni o scritti di Gregorio VII (il testo più recente è un canone di Niccolò II e risale al concilio lateranense del 1060 [Lib. de vita christ., IV, 87], a parte una lettera di Alessandro II inserita nel De arbore parentele, che a sua volta fu con ogni probabilità inserito nella stesura definitiva del Liber)non costituisce evidentemente prova, come parrebbe voler suggerire il Perels (pp. XX s.): perché se, com'è certo, la stesura definitiva del Liber è posteriore alla metà del 1089, ulteriori aggiunte e completamenti ad uno spoglio di molto precedente restavano ovviamente possibili. Si tratta perciò di una assenza di testi contemporanei che va spiegata diversamente: e nulla di certo si saprebbe qui suggerire. Forse si potrebbe ricordare la tendenza abbastanza chiaramente delineata fra i canonisti e pubblicisti gregoriani a ricorrere soprattutto alla tradizione precedente più che a testi coevi, appunto per meglio sostenere la piena legittimità della linea disciplinare e di azione di Gregorio VII; o anche, più banalmente, supporre una scarsa disponibilità da parte di B. dei materiali documentari degli ultimi decenni. Ma sono mere supposizioni; lo si è detto più volte: scarsamente produttive.
Il Lib. de vita christ. sidivide in dieci libri (un sommario dell'opera è offerto dall'epilogo, indirizzato al "sacerdos venerandus Gregorius", non identificato; la corrispondente lettera dedicatoria, che doveva essere premessa con ogni probabilità all'inizio dell'opera, non figura in nessuno degli esemplari della tradizione manoscritta a noi pervenuti). Il primo libro, dedicato fondamentalmente al battesimo, tocca in realtà anche degli altri sacramenti, sia attraverso l'inserimento in esso del Libellus de sacramentis - inserimento che, anche se attestato da un unico testimone della tradizione manoscritta, è pensabile che si debba ritenere risalente alla stesura definitiva del Liber - siaper alcune osservazioni generali contenute nelle parti dovute a B. e riguardanti in modo particolare il grave problema della validità dei sacramenti amministrati da simoniaci (e in genere da eretici) e la possibilità o meno di procedere a reordinazioni. Per questo, essendo scomparsa abbastanza presto dalla tradizione manoscritta la lettera dedicatoria alla quale doveva essere ovviamente premesso il titolo originale dell'opera (certamente: Liber de vita christiana, com'è stato definitivamente dimostrato dal Perels, pp. XIX s.), l'insieme dell'opera di B., indicato di solito con i titoli più vari, si trova talvolta espresso con quello di De ecclesiasticis sacramentis o De sacramentis, evidente trasposizione a tutta l'opera di quello che in realtà, se si accetta l'attestazione molto probante del ms. Mantovano 439 (D III 13), doveva essere il titolo del primo libro. I libri II e III trattano dei vescovi, di tutte le cerimonie ad essi connesse (e quindi anche deli'ordinazione), dei loro compiti, prerogative e funzioni. Il libro IV tratta della Chiesa di Roma e del papa (e si apre perciò con una rapida storia del Papato da Pietro ad Urbano II: sono 46 capitoli che avranno una larga fortuna manoscritta come testo a sé stante). Esso si conclude con una serie di canoni "de consecracione ecclesiarum et altarium", che prendono pretesto appunto dalla nuova situazione di culto pubblico determinatasi con la conversione di Costantino e dall'opportunità di ricordare le diverse norme emanate dai pontefici al riguardo. Il libro V tratta dei sacerdoti "secundi ordinis" e del chiericato in generale: delle condizioni richieste per esso, delle sue norme di vita, ed in particolare della vita canonica. Il libro VI è dedicato al monachesimo: sue origini e suoi fondatori, norme per l'elezione dell'abate, privilegi e prescrizioni per monaci e monache. Il libro VII tratta delle potestà terrene: della dignità regia, delle sue origini, degli onori ad essa concessi dai "sancti patres"; degli "iudices" e dei "milites", dei loro compiti di ordine e di difesa, nonché di soccorso per la gerarchia ecclesiastica. Il libro si chiude con un lungo e curioso discorso di B. sui pericoli connessi a un governo affidato alle donne (VII, 29): un discorso intessuto come il solito di precedenti storici, che nulla concede in questo campo alla tradizionale figura della donna guerriera e capo di popoli (senza considerare un dato di fatto l'ipotesi del Fournier, non suffragata da nessun'altra prova, intorno a una presunta rottura avvenuta fra B. e la contessa Matilde, resta peraltro evidente e singolarmente stridente il contrasto fra questo passo e i caldi elogi che il Liber ad amicum aveva riservato alle capacità militari e di governo di Matilde di Toscana). Il libro VIII si occupa "de plebis divisione" (artifices,negotiatores,agricolae); tratta poi delle decime e del matrimonio, delle norme che lo regolano, nonché dell'obbedienza che deve animare il cristiano nei confronti dei sacerdoti. I libri IX e X sono libri penitenziali: si occupano perciò della penitenza per i sette peccati capitali in primo luogo, poi ampiamente per i vari tipi di crimine. L'opera, come si è detto, si conclude con un breve epilogo.
È chiaro lo scopo propostosi da B. nella stesura del Liber:offrire un manuale pratico di vita cristiana. L'impianto generale dell'opera è solidamente programmato fin dall'inizio della sua stesura. Già all'inizio del II libro, dopo aver rapidamente riassunto i caratteri del precedente, nel quale, parlando del battesimo, egli aveva descritto l'iniziazione alla vita cristiana con la connessa professione di fede nella Trinità da esso rappresentata, B. aveva tracciato un rapido schema del suo discorso successivo, volto appunto a illustrare, nella realizzazione pratica della vita cristiana, "quid sinilis ordinibus speciale conveniat" (II, 2). Nello stesso libro non mancano rimandi precisi a libri successivi: al quinto, a proposito dei diversi periodi stabiliti da alcuni pontefici per le ordinazioni (II, 56), e al nono, a proposito dei modi per riammettere uno scomunicato in seno alla Chiesa (II, 52).
La struttura dell'opera corrisponde a una visione rigidamente gerarchica della società. È interessante il punto di partenza. Il battesimo costituisce una professione elementare di fede. Ma, secondo il noto detto di Giacomo, la fede senza le opere "mortua est". È necessario perciò "opera digna fide enumerare, ut velut sapiens architectus possim domum supra fundamentum, quod Christus est, hedificare" (II, 1, p. 34). La prima e principale virtù del cristiano è l'obbedienza, figlia dell'umiltà. Ad essa si contrappone la disobbedienza "superbiae filia, vel contra prelatos rebellio, que teste propheta Samuele peior est ydolatria..." (II, 2, p. 34). Chiunque vuol conseguire la virtù dell'obbedienza deve, rispettando i suoi superiori, riconoscere "modum mensuramque suam... ut in eo quo vocatus est gradu, ordinate assuescat, prout decet vivere christianum". Proprio perché ciò possa avvenire, B. opererà una precisa divisione fra tutti i cristiani - laici e chierici, sudditi e prelati, e via dicendo - indicando per ciascuno le prescrizioni adatte al suo ordine. Il Liber nasce con questo scopo e da questa premessa, e in questa premessa sta la concretezza storica dell'opera di Bonizone. Limitarsi a configurarla in termini d'impostazione e di mentalità gregoriane sarebbe elusivo e generico. La povertà di uno schema si misura dalla sua scarsa capacità caratterizzante. Il destino della riforma durante i decenni successivi alla morte di Gregorio VII, il vario configurarsi dei gruppi e delle forze in campo, è storia ancora in gran parte da fare, ma certo non riassumibile nelle contrapposizioni delineatesi nei dodici anni di quel pontificato. Il Lib. de vita christ. si colloca con tutta evidenza in questa nuova vicenda, ma secondo una linea che in parte ancora sfugge. Continuare tuttavia a parlare per il B. del Lib. de vita christ. di una "posizione gregoriana intransigente" è frutto solo di pigrizia storiografica, nella misura in cui tale definizione chiarisce solo in parte giudizi e posizioni che emergono dalla lettura del Liber. Non si tratta evidentemente di rovesciare i termini o di presupporre un abbandono da parte di B. delle "posizioni gregoriane", ma di rendersi conto che le "risposte" che egli intende dare con'questa sua opera non sono sempre riassumibili all'interno di quello schema. È caratteristica una sua osservazione a proposito dei monaci: solo con papa Siricio, egli osserva, essi furono promossi al chiericato "utilitatis causa vel necessitatis" (IV, 39, p. 125). Successivamente, tra di loro, "multi mirabiles floruere episcopi, qui non solum Romanam ecclesiam quibus prefuerunt a fundamentis rehedificavere, verum etiam seviente symoniacorum tempestate ac bachante fornicantium rabie clericorum pro defendenda fide catholica ita validissime dimicarunt, ut possimus dicere cum propheta: 'Nisi Dominus Sabaoth reliquisset nobis semen, quasi Sodoma fuissemus et quasi Gomorra fuissemus similes' (Is. I, 9). Quia vero nostris temporibus hec facta sunt,que vidimus et audivimus et completa cognovimus,superfluum visum est nobis in talibus laborare"(VI, 1, p. 209). È la storia della riforma, della lotta di Gregorio VII e dei suoi predecessori, cui B. vuole alludere con queste parole. Ed è storia per lui compiuta: è una constatazione dalla quale non si può prescindere nella valutazione del Liber. Ipesanti giudizi che emergono qua e là sulla situazione contemporanea sono perciò ovvi solo in apparenza e vanno visti almeno in parte in un contesto polemico diverso da quello così evidente del Liber ad amicum. Non so come si possa interpretare esattamente un passo come quello del Lib. de vita christ., II, 40 (p. 56), contro gli ipocriti dove, muovendo dalle allusioni di 1Tim., 4, 1 ss., e 2Tim., 3, 1 ss., agli ipocriti che sorgeranno "in novissimis temporibus... novitatum inventores et amatores", B. nota: "Nostris autem temporibus, in quos fines seculorum devenerunt, he pestes validissime emersere. Nam quia tempora Antichristi imminent, secundum dominicam et apostolicam prophetiam, insurrexerunt nostris temporibus pseudochristi et pseudoprophete, qui per quasdam novitatum vanitates, simulata iustitia corpus Christi, quod est ecclesia, scindere non timuerunt, modo margaritas ante porcos ponentes, modo se ipsos iustificantes et alios condempnantes, modo passiones sanctorum patrum suscipientes, modo inter apocripha iudicantes, modo responsoria et ymnos suscipientes, modo velut frivola contempnentes" (e cfr. anche le righe che seguono, esegesi di 2Tim., 3-4, e Gal., 1, 9).
Èchiaro, mi sembra, che sono giudizi e allusioni non riducibili alla polemica contro simoniaci e concubinari di gregoriana memoria. I temi potrebbero ricordare quelli di Ivo di Chartres contro predicatori itineranti e movimenti popolari. Che il Lib. de vita christ. ponga a base della propria costruzione l'obbedienza, all'interno di una rigida distinzione degli ordini e degli stati, è del resto un fatto significativo. Il discorso di B. viene a corrispondere a una proposta di restaurazione della società in termini di ordine e di gerarchia: "Christianorum alii sunt clerici, alii laici, et in his condicionibus, alii subditi alii prelati... Summopere ergo cavendum est, ut... unusquisque modum suum cognoscens superioribus sua iura conservans, prelatis in omnibus debitam offerat obedientiam. Sic et de laicis sentiendum est, ... nisi forte, quod absit, utriusque ordinis prelati illud precipiant, quod christiane religioni omnino videatur esse contrarium" (II, 3, p. 35). La clausola limitativa finale, importante quanto più generale e generica, è un'eco evidente di lotte recenti. Ma il punto non sta evidentemente qui. È ovvio che echi della precedente lotta e condizionamenti e influenze precise di soluzioni prospettate con Gregorio VII si ritrovino abbondantemente nel Liber (lo sivedrà per il primato romano). Il fatto che mi sembra importante è che vi affiorino anche questioni, prospettive e soluzioni che risentono chiaramente di un clima e di una situazione mutata; che sembri di poter avvertire insomma il peso di un problema di ricostruzione e di riordinamento dopo la grande lacerazione del periodo precedente; e come una minor sicurezza, un senso più sfumato del giudizio, dopo le drastiche e irriducibili contrapposizioni di cui il Liber ad amicum era stato testimonio. Certo: è un discorso che non va oltre ad un'impressione generale e se si vuole generica. Né si dovrà trascurare il fatto che lo stesso genere e la stessa struttura dell'opera, nel suo andamento sistematico, comportano un atteggiamento più distaccato e riflessivo. E sarebbe perciò fuor di luogo insistere sugli inviti alla moderazione, alla carità, all'equilibrio e alla misura nel condannare, così costanti nel libro dedicato ai vescovi. Tuttavia l'impressione rimane, e sarebbe errato ignorarla per restare arroccati su schemi interpretativi insufficienti. Un discorso così tortuoso e complesso come quello sulle potestà temporali, e i giudizi e le prospettive che emergono sull'"imperium romanum" denunciano la consapevolezza di una crisi che va sanata, di lacerazioni che vanno superate (Lib. de vita christ., VII, 1). L'Impero romano, secondo la profezia di Daniele (Dan., 7, 17 s.), durerà fino ai tempi dell'Anticristo. "Quapropter pereant qui Romanum imperium conantur rescindere, et quadam palliata iustitia iugum imperiale, sub quo non timuerunt patres nostri vivere, ut filios Belial facerent, a subditorum cervicibus conantur extraere" (p. 233). Tuttavia la situazione si presenta per B. grave e pesante: "Roma senior... barbaris tamen servit et suis non utitur legibus" (ibid.). Solo l'Impero costantinopolitano della nuova Roma resiste fino ad oggi ai barbari: "Et ut plus dicam, licet culpa imperatorum ac sacerdotum ex magna parte quassatum sit Romanum imperium, tamen quia subditi iugo premuntur adhuc imperiali, per arrupta vitiorum quasi filii Belial non volventur ad libitum, set adhuc christianitatis, ne more brutorum insaniant animalium, freno reprimuntur" (ibid.). È ungiudizio interessante già rilevato dal Fournier, ma non ne va esagerata la portata; vedervi un patriottismo italico, filogreco ed antigermanico, sembra francamente eccessivo. Qui, come in tante frasi del Liber ad amicum, non vivono più che tracce e detriti di una tradizione culturale ormai spenta da un punto di vista politico e operativo. Quando B., a proposito di Ottone I, scriveva: "Inde Aquisgrani veniens aquilam, Romanorum signum, quod contra Germanos multis temporibus alis extensis stabat, Francigenis usque hodie prominere precepit" (Lib. ad am., IV, p. 581, rr. 6-8), si limitava sostanzialmente alla registrazione del fatto in termini di cultura, senza implicazioni di altro genere. I suoi giudizi positivi sui Carolingi contrapposti agli imperatori greci (Lib.ad am., III, p. 579, rr. 9-11) non sono assolutamente obliterabili. Né del resto va trascurato ciò che segue nello stesso Lib. de vita christ.;nonostante la drastica affermazione: "In occiduis vero partibus insolentia regum et superbia et avaritia subditorum Romanum periit imperium", non meno categorica infatti è la precisazione che segue: "Quamvis autem destructio Romani imperii propheta sit, et necesse est id eveniri, qui rebellant tamen regibus pro malivolentia non transibunt impuniti ... Quapropter quisquis a gratia Dei non vult fieri alienus, regibus non moliatur insidias ... et cuiusve sit religionis vel ordinis, non dedignetur tributa prestare, et precipue Romane rei publice principibus..." (ibid.). I canoni che seguono insistono quasi tutti su questo concetto (VII, 2:"Quod reges mali sive boni Domini sunt ordinacione constituti"; VII, 3: "Ut omnes subiecti debeant esse regibus, non eis rebelandum"; VII, 6: "Quod secundum preceptum apostoli pro bonis regibus sive malis assidue sit orandum ab ecclesia"; VII, 7: "Quod in suis scriptis non dedignetur beatus Gregorius imperatores dominos vocare"; VII, 9:"Quod beatus Gregorius Mauricium imperatorem sibi infestum dominum vocat"). Sono canoni - ed è fatto significativo, anche se andrà approfondito - che non si ritrovano in collezioni gregoriane come quelle di Anselmo e Deusdedit. E gli stessi concetti sono ribaditi anche con maggior forza nella parte che tratta dei milites (VII, 28, p. 249).
Nonostante la solidità dell'impianto e la sistematicità del discorso, non sempre B. appare chiaro nelle soluzioni e nelle indicazioni proposte. Sarebbe difficile sostenere ad esempio che i rapporti tra regnum e sacerdotium, al di là della costante insistenza sulla necessità di aiuto e di collaborazione reciproca e dell'esigenza più o meno implicita di superare laprecedente situazione di rottura, vengano delineati con grande chiarezza. Così, anche riguardo al problema sacramentario, il suo tentativo di proporre una soluzione lungo una linea agostiniana, che si conciliasse però con posizioni più rigoristiche, appare macchinoso, e sostanzialmente fallito già sul piano concettuale per il continuo oscillare del discorso tra una valutazione oggettiva del sacramento e una meramente soggettiva (esauriente per questa parte del Liber anche se schematica la trattazione dello Schebler). Il punto di tutta la precedente elaborazione e discussione dottrinale e teologica che resta tuttavia acquisito è il carattere assolutamente centrale, ed essenziale per la Chiesa e la vita cristiana, del primato romano. È già caratteristica la collocazione all'interno del Liber che B. dà alla trattazione di esso: dopo i due libri dedicati ai vescovi. Perché da Roma "omnis episcopatus sumpsit exordium" (II, 27, p. 45). Roma infatti è la "sacrosancta ecclesia nullis sinodicis constituta set ipsius Domini... voce fundata, dicentis ad beatum Petrum: 'Tu es Petrus, et super hanc petram hedificabo ecclesiam meam'..." (IV, 1). Da Pietro perciò presero origine "omnis christiana religio omniaque ecclesiae sacramenta preter unum, quod in ultima cena discipulis a Domino traditum est" (ibid.). Perciò nell'ambito ecclesiastico assoluto è il primato romano di onore, di ordine e di giurisdizione. I canoni che seguono ribadiscono tutti questa situazione. Nella parole di B. la Chiesa si configura come una grande diocesi romana. La storia del papato, che egli traccia per grandi linee, èin realtà la storia della Chiesa la storia cioè dello stabilirsi e del diffondersi per il mondo dell'insegnamento cristiano.
B. non è in atteggiamento passivo di fronte alla tradizione. Egli la riconosce come una componente essenziale del magistero ecclesiastico (si tratta di un'ovvia conseguenza del ruolo assegnato al papato), ma è consapevole tuttavia dei gravi problemi di interpretazione, di giudizio e di autenticità che essa comporta. La crux dei polemisti e dei canonisti gregoriani è anche la sua crux. L'apparente discordanza dei canoni è da lui risolta in due modi: con una sorta di petizione di principio da un lato ("Absit hoc a fidelium mentibus credere, tantos vivos diversa sensisse" [I, 43, p. 32]e vedi anche il frammento bonizoniano di ignota origine edito dal Weisweiler, p. 251, e cfr. ancora Lib. de vita christ., IX, 25, p. 286)e ricorrendo al primato romano dall'altro, riconoscendo cioè a Roma le capacità, "dispensatorie", "pro consideratione temporum", di innovare in materia di canoni. La distinzione che B. attua al riguardo è tra "canones voluntarii" e "canones sub praecepto". I primi dipendono dalla libera elezione dell'uomo, e l'obbligo della loro osservanza matura una volta determinatasi questa libera scelta (vedi anche su questo un'interessante lettera di B. ad Alberto di Samaria, maestro di retorica a Bologna, sulla professione monastica, lettera conservata in un formulario bolognese del sec. XII pubblicato dallo Haskins). I secondi invece obbligano oggettivamente e si dividono a loro volta in "necessarii" e "dispensatorii". I canoni "necessarii" sono tali "quia nulla ratione possunt mutari, ut fides symboli et regula baptismatis et confectio sacramentorum et 'diliges Dominum Deum tuum in toto corde tuo' et 'non fornicaberis' et 'non falsum dices testimonium' et cetera his similia" (II, 63, p. 70). I canoni "dispensatorii" invece, e sono la maggior parte "tam in veteri quam in novo testamento", "possunt inflecti et levari et propter melius quid faciendum inmutari" (ibid.). È sulla base di questo principio, e riconoscendo ai pontefici soltanto, e non ai vescovi, una capacità di intervento in quest'ultima direzione (cfr. V, 6, p. 177), che B. attua la sua lettura canonistica, ordinando le disposizioni apparentemente contraddittorie secondo una linea storica di sviluppo (cfr., per es., II, 63, pp. 68 ss.; e V, 48, pp. 193 s.). Un modo, questo, di organizzazione della materia, al quale B., come si è già osservato, ricorre più volte. Non si tratta soltanto di un modulo letterario, già di per sé curioso. Perché esso costituisce anche l'ulteriore testimonianza della sua robusta coscienza del peso e della funzione della tradizione e della storia nell'organizzazione e nella crescita della Chiesa sotto la guida del primato romano (l'esemplificazione al riguardo è molto ampia: vedi I, 43, pp. 41 ss., per il battesimo; II, 38, pp. 51 s., per l'elemosina; III, 105, pp. 105 ss., per il sacerdozio; V, 77, pp. 203 s., per la vita canonica del clero; VI, 1, pp. 208 s., per il monachesimo; VIII, 1, pp. 252 ss., per la decima).
Il problema delle fonti del Liber de vita christiana è stato messo sostanzialmente a punto dal Fournier e dal Perels. Difficili da dimostrare, ma comunque certo molto rari, sono i casi in cui B. dovette ricorrere ad uno spoglio diretto delle opere originali. Le fonti formali del Liber si possono perciò in realtà dividere sostanzialmente in due gruppi: l'uno, che costituisce una parte molto cospicua, è rappresentato da collezioni precedenti il periodo della riforma, come lo Pseudo-Isidoro e il Decretum di Burcardo. L'altro è per la maggior parte costituito da testi che si ritrovano anche nelle collezioni di Anselmo di Lucca e del cardinale Deusdedit. Ma com'è stato efficacemente sostenuto dal Fournier e confermato dal Perels è molto più probabile pensare, piuttosto che a una dipendenza di B. da Anselmo e Deusdedit, a un comune ricorso dei tre a quelle compilazioni intermedie di testi canonistici (padri, decretali pontificie, canoni conciliari, ecc.), costituitesi nel primo periodo della riforma. È fondamentalmente lungo questa direzione che il problema delle fonti del Liber potrà forse acquisire qualche nuovo elemento di chiarificazione.
Resta da dire delle altre opere di Bonizone. Il Libellus de sacramentis è un breve trattatello indirizzato a Gualterio, un "monaco e priore" del monastero di Leno (non lontano da Cremona), non meglio identificato. L'accresciuto interesse del periodo per il problema sacramentario non aveva peraltro conseguito un definitivo chiarimento del problema. Tale situazione si riflette puntualmente nel Libellus. B. distingue anche qui tra sacramenti istituiti direttamente da Cristo e sacramenti istituiti dagli apostoli; sono del primo tipo il battesimo e l'eucaristia. Dopo aver parlato dell'eucaristia, B. traccia una storia della messa e del costituirsi delle sue varie parti (è il discorso centrale e più ampio del Libellus). Quanto ai secondi egli si limita a parlare del "sacramentum salis", che viene dato ai catecumeni, dal "sacramentum olei" che è di tre specie (l'olio con cui è dato lo Spirito santo, l'olio che viene dato ai catecumeni a scopo di esorcismo e l'olio destinato agli infermi). B. accenna poi alle "consecrationes ecclesiarum et altarium" in termini analoghi al Lib. de vita christ., IV, 98, pp. 166 ss.
La tradizione manoscritta del Libellus presenta due diverse conclusioni: una è quella che si trova nell'edizione del Muratori (col. 606), che deriva da un manoscritto dell'Ambrosiana; l'altra è nel manoscritto della Bibliot. Comunale di Mantova, n. 439 (D III 13), f. 8vb (per il confronto v. Miccoli, Un nuovo manoscritto..., p. 378). Nel ms. ambrosiano il Libellus sipresenta come opera a sé stante, in quello mantovano esso risulta inserito - pur mantenendo chiaramente il suo carattere di trattatello autonomo - nel primo libro del Liber de vita christiana. Forse proprio a questa diversa situazione si lega la chiusa diversa: si può ipotizzare cioè che, inserendo il Libellus nel Liber, B.mantenne la chiusa originaria (che ripete caratteristici tratti bonizoniani: cfr. Lib. de vita christ., X, 79), mentre chi gli diede un'autonoma tradizione manoscritta ritenne opportuno precisare che esistevano anche altri sacramenti, richiamo che nel Liber non era necessario perché proprio di quelli e di altri sacramenti si parlava via via nel corso dell'opera. Per il richiamo che contiene al Liber in Hugonem scismaticum anche il Libellus ècertamente posteriore alla metà del 1089.
Il De arbore parentele èun trattatello indirizzato ad un chierico di Lucca, Alessandro, non meglio identificato. È conservato nel ms. mantovano già ricordato, inserito nel IX libro del Liber de vita christ., in mezzo a testi tutti bonizoniani (e già questo fatto, oltre ad una serie di caratteri interni, ne fa certa l'attribuzione). Più che ad illustrare l'arbor parentele, il trattatello èdedicato a esaminare i casi di impedimento matrimoniale, tra i quali, in prima linea, figuravano appunto i legami di consanguineità; ma non si limita a questi, perché nella conclusione vengono richiamati brevemente anche gli altri. All'argomento, molto dibattuto in quel periodo, lo scritto di B. non sembra arrecare nulla di nuovo; il suo interesse maggiore sta forse nell'impostazione "storica", così caratteristica di lui. Difficile è stabilire la data della sua stesura: il fatto che B. sembri ricordare Alessandro II come papa di anni lontani può far pensare agli ultimi anni della sua vita.
Il Paradisus, ancora inedito salvo una parte dell'epistola dedicatoria, costituisce un'epitome di scritti agostiniani divisa in otto libri. L'intestazione ("Bonizo in familia Dei minimus..."), il carattere dell'epistola dedicatoria, che presenta alcuni tipici moduli bonizoniani, e il confronto che il Perels ha potuto compiere fra alcuni testi agostiniani del Lib. de vita christ. e gli excerpta del Paradisus - confronto dal quale sembra emergere con chiarezza un'utilizzazione del Paradisus nel corso del Liber - fannoritenere con buone probabilità che si tratti di un'opera del nostro Bonizone. Quel poco del Paradisus che è noto, lo è grazie ad un ms. del sec. XV della Bibl. Naz. di Vienna (n. 4124) e alle notizie offerte dal Lambeck nel suo Commentarium ai codici di quella biblioteca, nonché ad alcune osservazioni del Perels. In realtà già nel 1881 P. Ewald aveva segnalato un ms. del sec. XII, di probabile origine italiana, conservato nella Biblioteca Colombina di Siviglia, che conserva il testo del Paradisus. È chiaro che l'opera dovrà essere studiata cominciando appunto da questo "nuovo" e più antico testimonio della sua tradizione manoscritta.
Incerta è la data di composizione del Paradisus. Dall'intestazione ("Bonizo in familia Dei minimus") si è voluto dedurre che l'opera è stata scritta quando B. non era ancora vescovo. Ma si tratta di conclusione assolutamente non necessaria e perciò insicura. Fantastica e immotivata è l'identificazione del destinatario dell'opera (un abate Giovanni non meglio specificato) con Giovanni Gualberto fondatore di Vallombrosa, identificazione che fisserebbe come termine ante quem del Paradisus il 1073. Di maggior peso sembrano alcuni rilievi del Fournier ad alcune frasi dell'introduzione. L'autore dice così: "deliberavi Dei iuvante gratia, quamdiu spiritus vitalis meos vegetaverit artus, quicquid auditu cordis et corporis percipere, intellectu discernere, quicquid palato cordis potero ruminare, fratribus indigentibus libenter communicare". Il Fournier ha notato che non si parla della vista, ma solo dell'udito, ed ha voluto vedervi perciò un riferimento alla situazione in cui Bonizone si trovava dopo le mutilazioni del 1089. L'esegesi è suggestiva, anche se il carattere in parte almeno topico del passo lascia non pochi dubbi: è un fatto però che della vista non si parla. Ma anche questo problema andrà ripreso in uno studio organico sul Paradisus.
Non èstata invece ritrovata un'altra opera alla quale B. accenna due volte, il Liber in Hugonem scismaticum, un trattato polemico indirizzato contro il cardinale Ugo Candido, un suo antico bersaglio (cfr. già Liber ad amicum, VI, p.594, rr. 24-26). Ma il discorso doveva essere di abbastanza ampio respiro se B. poteva invitare a leggerlo chi avesse voluto conoscere gli "acta" di Urbano II e la sua vittoria (Lib. de vita christ., IV, 45, p. 133), nonché questioni più particolari, come la posizione di Clemente nella serie dei pontefici romani ("primus... per electionem Petri et tertius in gradu": Libellus de Sacramentis, c.602).
Si sono già citate la lettera edita dallo Haskins ed il frammento ritrovato dal Weisweiler in un ms. di Monaco: l'ipotesi che questo faccia parte di un trattatello contro l'investitura laica sembra convincente: ed è interessante l'affermazione che su questo punto i papi non possono mutare i canoni, trattandosi di canoni "necessarii" e non "dispensatorii".
Opere: Liber ad amicum, a cura di E. Dümmler, in Mon. Germ. Hist.,Libelli de lite, I, Hannoverae 1891, pp. 568-620 (v. anche pp. 629-31); Liber de vita christiana, a cura di E. Perels, Berlin 1930, pp. LXXXXVII-402 (ma vedi anche, per alcune integrazioni, G. Miccoli, Un nuovo manoscritto del 'Liber de vita christiana' di Bonizone di Sutri, in Studi medievali, s. 3, VII [1966], pp. 371-398); Libellus de sacramentis, a cura di L. A. Muratori, in Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, diss. XXXVII, Mediolani 1740, coll. 599-606, riprodotto in Migne, Patr. Lat., CL, coll. 857-866; De arbore parentele, in G. Miccoli, Un nuovo manoscritto, cit., pp. 390-98;lettera ad Alberto di Samaria, in Ch. H. Haskins, An early Bolognese formulary, in Mélanges d'histoire offerts à H. Pirenne, Bruxelles 1926, pp. 205 s.; frammento sull'investitura laica, in H. Weisweiler, Unmanuscrit inconnu de Munich sur la querelle des investitures, in Revue d'histoire ecclés., XXXIV (1938), pp. 251 s. Per il Paradisus, ancora inedito, cfr. P. Lambeck, Commentarium de augustissima bibliotheca caesarea Vindobonensi, II, Vindobonae 1669, coll. 605 ss., nonché E. Perels, ed. cit., pp. XVII-XIX (ma vedi anche P. Ewald, Reise nach Spanien im Winter von 1878 auf 1879, in Neues Archiv, VI [1881], pp. 380 s.).
Fonti e Bibl.: Per alcune fonti contemporanee che parlano di B. cfr. Bernoldus, Chronicon, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist.,Scriptores, V, Hannoverae 1844, A. 1082, p. 437, A. 1089, p. 449; Benzone d'Alba, Ad Heinricum imperatorem libri VII, a cura di G. H. Pertz, ibid., XI, Hannoverae 1854, l. I, cap. 21, pp. 607 s.; le lettere di Urbano II in P. Ewald, Die Papstbriefe der brittischen Sammlung, in Neues Archiv, V (1879), pp. 353 s. (= J.-L. 5354, 5355, 5356); per l'epitaffio di San Lorenzo di Cremona, cfr. C. Poggiali, Mem. stor. della città di Piacenza, IV, Piacenza 1766, pp. 8 ss. Per gli altri testi minori, vedi la bibliografia citata qui di seguito.
Della bibliografia viene data solo quella relativamente più recente ed essenziale, ricca di solito di numerosi riferimenti. In particolare, per la biografia di B., resta fondamentale l'introduzione del Perels alla sua ed. del Lib. de vita christ. Cfr. inoltre: A. Dulac, Bonizo,le Libellus de sacramentis et le Decretum, in Revue d'histoire et delittérature religieuse, III (1912), pp. 230-239; G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens unter den sächsischen und salischen Kaisernmit den Listen der Biscöfen, Leipzig-Berlin 1913, pp. 192 s., 264; P. Fournier, Bonizo de Sutri,Urbain II et la comtesse Mathilde d'après le Liber de vita christiana de Bonizo, in Bibliothèque de l'Ecole des Chartes, LXXVI (1915), pp. 265-298; Id., Les sources canoniques du Liber de vita christiana, ibid., LXXVIII (1917), pp. 117-134; P. Fournier-G. Le Bras, Histoire des collections canoniques en Occident depuis les fausses decrétales jüsqu' au décret de Gratien, II, Paris 1932, pp. 139-150; A. Schebler, Die Reordinationen inder "altkatholischen Kirchen", Berlin 1936, pp. 252-254; U. Lewald, An der Schwelle der Scholastik,Bonizo von Sutri und das Kirchenrechtseiner Tage, Weimar 1938; L. Gatto, B. di Sutrie il suo Liber ad amicum. Ricerche sull'età gregoriana, Pescara 1968.