BOVI, Bonincontro dei
Figlio di Nicolò, da Mantova, nacque a Bologna, ma trascorse la maggiore parte della sua vita a Venezia, dove numerosi documenti ne attestano l'attività di notaio addetto alla cancelleria ducale per il periodo che va dal 1313 al 1346. Finché, in un documento dell'11 sett. 1348, un suo figliuolo, di nome Francesco, appare menzionato come "condam ser Bonincontri".
Mentre l'origine familiare mantovana del B. è ripetutamente provata dalle sottoscrizioni ("ego Bonincontrus filius Nicolay Bovi de Mantua"; e, a partire dall'8 apr. 1320: "ego B. condam Nicolai Bovi de Mantua"), la sua nascita bolognese è dichiarata solo nell'explicit della Hystoria: "Ego B. licet origine Mantuanus, natione quoque Bononiensis, tamen verbo et opere totus Venetus et Rivaltensis...". Che alla nascita a Bologna abbia potuto tener dietro una formazione scolastica anche bolognese, nei campi allora distinti ma pur sempre vicini dell'ars notarie e dell'ars dictandi, è una semplice ipotesi che potrebbe ricevere conferma solo da uno studio approfondito degli scritti (Hystoria e documenti) usciti dalla penna del Bovi.
Contro l'eventualità di una formazione intellettuale, o di doti naturali, di particolare spicco, sta però la carriera del B. negli uffici veneziani, tutt'altro che brillante. I primi tre libri dei Commemoriali e i primi cinque libri dei Pacta contengono atti rogati da lui, o nei quali egli intervenne come teste, dal 21 genn. 1314 al 20 maggio 1341.
Accolto dapprima (nel 1313) come "notaio del doge" in prova, dopo un triennio, il 10 ag. 1316, era stato nominato notaio effettivo della Curia maggiore, cioè a dire della Curia ducale, ma in un primo momento senza stipendio. Cinque mesi più tardi, per deliberazione del Maggior Consiglio, ebbe assegnato uno stipendio annuo di 3 lire di grossi, che fu aumentato di 1 lira nel 1318, in considerazione del suo zelo e del peso della famiglia che si trovava sulle spalle, e ancora di nuovo, sempre nella stessa misura e per quelle stesse ragioni, nel 1319, nel 1325 e nel 1330.
Tuttora "notaio imperiale", solo nel 12-42 il B., "qui iam longis temporibus fuit in palacio se gerens fideliter", fu proclamato notarius Veneciarum. Fra i quattro nomi di quest'infornata, che ebbe luogo il 30 dicembre (il 28 era morto il doge Bartolomeo Gradenigo; il 4 dell'anno nuovo fu eletto Andrea Dandolo), fa spicco, benché all'ultimo posto, quello di Benintendi Ravignani, la cui carriera fu ben altrimenti rapida: nato intorno al 1328, notaio imperiale non ancora ventenne, notaio veneto - lo si è già visto - nel 1342 (prima, dunque, dei venticinque anni previsti dagli Statuti), vicecancelliere nel 1349, cancelliere nel 1352 (traguardi, questi ultimi, ai quali il B. non giunse mai). Si ha insomma l'impressione che, nel momento in cui i lunghi anni di diligente servizio prestati nella cancelleria ducale avrebbero dovuto valergli l'accesso al vertice della cancelleria, il B. sia stato scavalcato da elementi più giovani, come il Ravignani e Raffaino de' Caresini, collaboratori diretti del doge Andrea Dandolo (1343-1353) ed esponenti della nuova cultura latina che aveva come punto di riferimento ideale Francesco Petrarca. Una delle ultime prestazioni del B. fu proprio la trascrizione, nell'apposito registro ufficiale, della Promissione ducale del Dandolo. La continuità del suo impegno presso la cancelleria veneziana esclude invece una pur possibile identificazione fra lui e Bonincontro, anche mantovano e maestro di grammatica a Padova nel 1319, al quale Albertino Mussato indirizzò la sua XIII epistola.
Se non riuscì a distinguersi personalmente, il B. trovò però il modo di collocare nella cancelleria ducale due dei suoi numerosi figli: Francesco e Tommaso, segnalati in un Ordo curie posteriore al 1352. Un altro figlio, Nicoletto, che era prete, fu proclamato notaio veneto il 2 maggio 1339, benché non avesse ancora raggiunto l'età prescritta.
Il B. è autore di un racconto in latino sulle trattative di pace intercorse a Venezia, nel 1177, fra Federico Barbarossa e papa Alessandro III: Hystoria de discordia et persecutione quam habuit Ecclesia cum imperatore Federico Barbarossa tempore Alexandri tercii summi pontificis et demum de pace facta Veneciis et habita inter eos.
Venezia, nel 1177, era stata scelta come sede delle trattative in seguito a un difficile compromesso fra i Comuni lombardi, che insistevano per Bologna, e l'imperatore, che si era rifiutato di sottostare a tale imposizione. Da parte sua, il governo veneziano offrì di buon grado l'ospitalità; ma non risulta che abbia anche svolto un'opera di vera e propria mediazione. Nel racconto del B. l'episodio viene invece presentato in una luce tale a farne un elemento costitutivo del nascente "mito di Venezia". Il romanzesco arrivo del papa sotto mentite spoglie (forse ricalcando ciò che Giovanni Diacono aveva raccontato intorno alla venuta, anche clandestina, dell'imperatore Ottone III) e la pretesa battaglia navale nella quale i Veneziani sconfissero a Punta Salvore il figlio del Barbarossa, prendendolo prigioniero (sulla falsariga, parrebbe, dell'episodio della cattura di re Enzo da parte dei Bolognesi, a Fossalta, nel 1249), arricchiscono la trama narrativa di un testo volto principalmente ad esaltare la parte avuta dai Veneziani nell'assicurare il buon esito delle trattative e ad enumerare le concessioni di insegne, indulgenze, privilegi, che il papa, per gratitudine, avrebbe fatto in quell'occasione al doge e alla città di Venezia: cero, bolla, spada, anello per lo sposalizio del mare, indulgenza dell'Ascensione, ombrella, trombe d'argento, otto stendardi multicolori, ecc.
La Hystoria del B. è un esempio di cronachistica minore veneziana, d'ispirazione ufficiosa, immediatamente precedente alla grande cronaca del Dandolo. Verso la fine del sec. XIV, una versione della Hystoria in volgare veneziano verrà addirittura trascritta nel libro I dei Pacta (ff. 127-131). Ma l'11 dic. 1319, forse in stretto rapporto cronologico con la composizione dell'opera del B., l'interesse del governo veneziano a propagandare il racconto leggendario sulla pace del 1177 Si era già concretato nella decisione di finanziare un cielo di affreschi nella chiesa di S. Niccolò, nel quale i momenti salienti dell'episodio stesso dovevano essere tradotti in immagini, che li avrebbero resi familiari ai moltissimi Veneziani incapaci di misurarsi con un testo scritto, per di più in latino. Del resto, i titoli dei paragrafi in cui il B. ha scandito la sua Hystoria ("Quomodo dominus papa ducem recipit cum victoria pro qua sibi anulum prebet ad desponsandummare", oppure: "Hie filius imperatoris ad patrem ire permittitur ad tractandam pacem inter partes", e così via) sembrano fatti apposta per essere utilizzati come didascalie di un racconto per immagini.
Poco più tardi, nel 1331, per soddisfare i gusti di lettori più esigenti, che evidentemente non si accontentavano del testo un po' piatto del B., Castellano da Bassano redasse, sempre sullo stesso argomento, un poemetto in esametri latini.
Bibl.: Le vite dei dogi..., in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXII, 4, a cura di G. Monticolo, pp. 413-416 (il testo della Hystoria è alle pp. 370-411); G. Fasoli, Nascita di un mito, in Studi in onore di G. Volpe, I, Firenze 1958, pp. 473-474; E. Faccioli, La cultura mantovana nel Medioevo, in Mantova. Le lettere, I, Mantova 1959, pp. 476, 500; Rep. fontium hist. medii aevi, II, pp. 569 s.