BONIFACIO IV, papa, santo
Marso della Valeria, fu consacrato papa sul finire dell'estate del 608 - con ogni probabilità il 25 di agosto - dopo oltre nove mesi di vacanza della Sede apostolica, succedendo a BonifacioIII, morto il 10 nov. dell'anno prima. La sua scelta - come quella del suo predecessore, del resto - fu senza dubbio determinata dal prevalere dei fautori dell'indirizzo gregoriano. Come dispensator Ecclesiae Romanae, infatti, - e quindi nell'ufficio di maggiore responsabilità dell'amministrazione finanziaria pontificia - Marso aveva, a suo tempo, collaborato attivamente con Gregorio I, che gli aveva in seguito affidato anche la trattazione confidenziale di altri importanti e delicati affari; ed alla tradizione gregoriana B. IV si attenne per tutta la durata del suo pontificato, come risulta chiaramente dagli obiettivi della sua attività pastorale e dai campi in cui si fece particolarmente sentire la sua azione di governo: il ristabilimento dell'unità religiosa in Italia e la fine dello scisma che turbava tuttavia la Venezia e l'Istria per la questione dei Tre Capitoli; l'organizzazione della Chiesa d'Inghilterra che, sorta alcuni anni prima con lo sbarco dei missionari inviati da Gregorio I e sviluppatasi quindi notevolmente, necessitava ormai di un'adeguata e regolare organizzazione gerarchica; l'intesa cordiale con l'Impero e con i suoi rappresentanti ufficiali in Italia. Come già Pelagio II e Gregorio I, anche B. IV poté contare, nell'esercizio del suo ministero apostolico, sulla volenterosa ed energica collaborazione del nuovo esarca d'Italia, Smaragdo. Questo mutato atteggiamento della Sede apostolica e dell'Impero trovò, fin dagli inizi del pontificato di B. IV, un'espressione simbolica in due episodi, che dovevano assumere un importante significato politico.
Alla cerimonia della consacrazione di B. IV fu probabilmente presente l'esarca d'Italia, Smaragdo, che, rinnovata ancora una volta e per tre anni la tregua con i Longobardi, si trovava allora a Roma, dove era giunto per la solenne inaugurazione, nel Foro romano, della colonna sormontata da una statua dorata dell'imperatore Foca: il monumento, che fu l'ultimo eretto in Roma per celebrare un imperatore, voleva simboleggiare la rinnovata intesa fra Roma e Bisanzio. Alla voluta solennità della cerimonia venne così ad aggiungere un rilievo tanto maggiore da trascenderne l'occasionale intento celebrativo la presenza di una personalità, nota per il suo zelo religioso, conosciuta per la lotta condotta, d'intesa col pontefice, contro gli scismatici della Venezia e dell'Istria, popolare per il periodo di relativa pace che, pur in un contesto politico estremamente precario e tra incertezze continue, aveva saputo procurare all'Italia grazie alle sempre rinnovate tregue con i Longobardi.
L'anno successivo B. IV ottenne da Foca, sempre disposto a mostrarsi benevolo nei confronti del vescovo di Roma, uno dei più insigni monumenti dell'antichità pagana, il Pantheon di Agrippa, per adattarlo al culto cristiano: dopo aver fatto eseguire i lavori necessari per adeguarne l'interno alle nuove necessità, il papa, coadiuvato da tutto il clero di Roma, consacrava alla Vergine Maria e a tutti i martiri il famoso tempio in una solenne cerimonia, che ne sanzionò il passaggio alla Chiesa (13 maggio 609). Campo Marzio cessava in tal modo di essere la regione in cui, tra le numerose vestigia del passato pagano, sorgevano solo due chiese, S. Lorenzo in Lucina e S. Lorenzo in Damaso: "altro passo essenziale", osserva O. Bertolini (p. 294), "di quel totale orientarsi verso la religione della vita spirituale romana, che Gregorio I si era proposto come meta della sua fervida vita di pastore".
La decisione di trasformare in chiesa il Pantheon, perché vi fosse ogni giorno annunziato il trionfo della fede cristiana, aveva in realtà una sua profonda ragione di essere: dettata molto probabilmente da preoccupazioni apotropaiche, essa si proponeva indubbie finalità esaugurali e propiziatorie. Già a quell'epoca, infatti - per quanto ci è dato arguire -, la mentalità comune doveva vedere negli dei, ai quali era stato anticamente dedicato quel tempio, altrettante incarnazioni delle forze diaboliche, e nell'edificio a loro sacro il luogo in cui solevano stabilirsi i demoni, che si credeva infestassero Roma, quando su di essa si abbattevano delle calamità.
Gli sforzi congiunti della Sede apostolica e delle autorità imperiali per porre fine allo scisma dei Tre Capitoli nell'Italia nordorientale e nell'Istria non erano sino allora valsi ad altro se non a provocare la scissione del clero e del popolo di quelle diocesi in due parti: l'una, che persisteva nella fedeltà alle dottrine cristologiche condannate dal V Concilio ecumenico, e l'altra, ortodossa, che si appoggiava alle autorità bizantine. La situazione si aggravò nel 607, quando, morto il patriarca di Aquileia esule a Grado, Severo, l'esarca Smaragdo - certo in ottemperanza a precise istruzioni di Foca e d'accordo con la Sede apostolica - volle imporre con la forza sulla cattedra episcopale un fautore della condanna delle dottrine dei Tre Capitoli, Candidiano. Rifugiatisi ad Aquileia, in territorio di dominio longobardo sul confine meridionale del ducato del Friuli, gli scismatici si dettero, col consenso e la protezione di Agilulfo e del duca Gisulfo II, un secondo patriarca nella persona dell'abate Giovanni: "Ex illo tempore coeperunt esse duo patriarchae" commenta Paolo Diacono (Hist. Lang., IV, 33). E al re longobardo il patriarca scismatico si era rivolto, subito dopo la sua consacrazione episcopale, con un appello accorato per esortarlo a levarsi in difesa dell'autentica fides catholica e per invocare il suo intervento in favore dei fedeli di Grado perché, alla morte di Candidiano, essi non venissero costretti di nuovo a sottostare ad un presule eletto con l'appoggio delle armi greche.
Tuttavia, anche se il disagio e i risentimenti provocati nelle province nord-orientali di confine dal prolungarsi della controversia dottrinale offrivano ai Longobardi facili pretesti per riaprire le ostilità, intervenendo nei territori di dominio bizantino a difesa degli scismatici perseguitati, Agilulfo non ne volle approfittare; preferì invece rinnovare per un altro anno la tregua con gli Imperiali trattando direttamente con Costantinopoli, dove aveva inviato come suo plenipotenziario il notaio Stabliciano (610). Neanche la crisi apertasi col pronunciamento militare che travolse Foca e portò sul trono di Bisanzio Eraclio Costantino (5 ott. 610) e le difficoltà, che il nuovo imperatore attaccato da Slavi, Arabi e Persiani si trovava a dover fronteggiare, così come non modificarono sostanzialmente le direttive della politica imperiale in Italia, valsero a convincere della convenienza di continuare nello sforzo bellico il re, che accettò di rinnovare per altre tre volte, tra il 611 e il 614, l'armistizio con i Bizantini. La prova dei fatti confermava in tal modo l'opportunità dell'atteggiamento conciliativo nei confronti dei Longobardi, che, già propugnato a suo tempo da Gregorio I, era stato costantemente perseguito nel corso di tutto il pontificato da B. IV: sicché, quando questi morì (venne sepolto nella basilica di S. Pietro l'8 maggio 615), Roma e l'Italia, benché molto avessero patito per la carestia, le pestilenze e le inondazioni, da parecchio tempo non avevano tuttavia conosciuto gli orrori di nuove guerre.
Ma appunto questo mutato atteggiamento, assunto dalla Sede apostolica nei confronti dei Longobardi durante il pontificato di B. IV, e lo stesso prolungarsi della controversia dottrinale nell'Italia settentrionale dovevano avere delle ripercussioni non indifferenti sui rapporti tra i conquistatori della penisola ed i suoi gruppi etnici originari. Il graduale, crescente disinteresse di Bisanzio, sempre più duramente impegnata in Oriente, per le vicende italiane, e la stessa linea conciliante da essa assunta nei confronti dei Longobardi fecero sì che in Italia si smettesse di vedere nell'imperatore di Costantinopoli il naturale difensore delle genti italiche e della fede cristiana, e nei Longobardi soltanto i barbari invasori; il lento ma costante adattarsi di questi ultimi alla superiore civiltà romano-cattolica, la conversione di Agilulfo ed il conseguente ripudio dell'arianesimo da parte di strati sempre più larghi della sua gente, inoltre, avviarono il progressivo avvicinamento degli elementi etnici preesistenti alle popolazioni germaniche di recente insediatesi nella penisola. Un calcolo essenzialmente politico aveva indotto il re longobardo ed il duca del Friuli a sostenere la causa dei fautori delle dottrine cristologiche dei Tre Capitoli; ma questo atteggiamento aveva effettivamente portato, nella Venezia e nell'Istria, all'inizio, sul piano politico, di una vera e propria collaborazione tra Longobardi e popolazioni soggette, in difesa degli interessi comuni e in contrasto con l'autorità imperiale.
Le vicende del conflitto religioso con Roma avevano messo bene in evidenza che il dissidio era, più che con la Sede apostolica, con il potere imperiale, che aveva voluto, a suo tempo, la condanna delle dottrine dei Tre Capitoli e che ne perseguitava, ora, i seguaci: si era venuto cioè a creare in Italia un presupposto spirituale, che avrebbe reso inevitabile la rottura con il mondo orientale non appena si fossero verificate le circostanze analoghe a quelle che spingevano i popoli della Venezia e dell'Istria contro i Bizantini, quando cioè il movimento di resistenza fosse stato ispirato dalla consapevolezza della latinità, cattolica e romana, che vedeva in Roma e nel suo vescovo la sola luce di certezza nelle controversie religiose.
Che le popolazioni latinizzate fossero portate a considerare i Bizantini più estranei dei Longobardi, è dimostrato chiaramente dall'appello rivolto ad Agilulfo dal patriarca di Aquileia, Giovanni; e di questo sentimento di solidarietà tra gli abitanti antichi e nuovi della penisola come appartenenti ad una medesima patria si fece portavoce s. Colombano nella lettera scritta, certo dietro ispirazione di Agilulfo, a B. IV, per invitarlo a mitigare l'azione repressiva nei confronti degli scismatici, e a riportare all'unità spiritualela Chiesa e l'Italia, così che la pace della "patria" divenisse la pace della fede.
E della missione riservata al vicario di s. Pietro come fulcro e stimolo di nuova unità culturale e religiosa dell'Occidente barbarico e dell'Italia, - "Sono infatti convinto", affermava pregiudizialmente, "che in Roma è l'incrollabile fondamento della Chiesa" - è chiara intuizione nell'ammonimento che, nel finire della lettera, il grande santo irlandese rivolgeva al pontefice: "Noi siamo avvinti alla cattedra di s. Pietro: certo, Roma è città importante a tutti nota, ma solo per codesta cattedra è ritenuta da noi degna di reverenza, ed insigne". Si adoperi dunque B. IV "perché venga la pace per la nostra patria, e divenga la pace della Fede, perché di nuovo, per tutto, vi sia un sol gregge di Cristo, 0 Re dei Re, segui Pietro, te tutta segua la Chiesa!".
L'azione pastorale di B. IV si fece sentire soprattutto in Inghilterra, la cui giovane Chiesa esigeva cure particolari e tutta l'attenzione del papa. Venuto a Roma, non sappiamo per quali motivi, il vescovo Mellito di Londra, B. IV lo invitava a partecipare ai lavori del sinodo romano del 610, convocato per discutere alcuni problemi della vita monastica. Preparandosi Mellito a ripartire, il papa gli consegnava alcune sue lettere indirizzate al re, al vescovo di Canterbury, al clero e al popolo anglo. A Mellito affidava inoltre il compito di comunicare al re ed alla Chiesa d'Inghilterra i decreti approvati nel sinodo del 610. Il papa si raccomandava, in particolare, di applicare la disposizione. che permetteva agli ordinari di promuovere al sacerdozio quanti, nelle comunità monastiche esistenti nelle loro diocesi, ne avessero avuti i requisiti necessari. È possibile che B. IV si sia occupato anche del problema della Pasqua - il "ritum Paschae" nella cui celebrazione Angli e Celti discordavano dalla Chiesa di Roma -, sempre che la terza lettera di s. Colombiano sia stata indirizzata a lui, e non ad uno dei suoi immediati predecessori.
L'epitaffio di B. IV allude soprattutto alla missione pastorale che egli svolse nella fedeltà delle tradizioni gregoriane: "Gregorii semper monita atque exempla magistri / vita, opere, ac dignis moribus... sequens", elargendo elemosine ed organizzando soccorsi per le popolazioni duramente colpite dalle calamità naturali, che funestarono il suo pontificato.
Il culto di B. IV, relativamente recente, data dal tempo di Bonifacio VIII, che lo canonizzò, dopo che ne erano stati ritrovati i resti mortali nel corso di lavori di restauro nella basilica vaticana. Il suo corpo fu allora deposto in un altare, nella cappella sepolcrale costruita da Arnolfo di Cambio per Bonifacio VIII. Il Martirologio romano, sulla base di un passo interpolato del Liber pontificalis, ne ricorda il giorno di morte al 25 di maggio.
Fonti e Bibl.: Acta Sanctorum... Maii V, Venetiis 1741, pp. 541-543; Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, n. 116, pp. 317 s.; cfr. ibid., p.CCLVI; Columbae sive Columbani abbatis Luxoviensis et Bobbiensis Epistulae, a cura di W. Gundlach, in Mon. Germ. Hist.,Epistolarum, III, Berolini 1957, nn. 3, 5 e 6, pp. 163 ss. e 170 ss.; C. J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles d'après les documents originaux, III, 1, Paris 1909, p. 247; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna s.d. [ma 1941], pp. 391-397; J. Baudot-F. Chaussin, Vies des Saints et des Bienheureux, Paris 1935-1959, V, pp. 154 s.; Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., IX, coll.898-899, n. 12; Enc. Catt., II, col.1865; Bibliotheca Sanctorum, III, coll. 331-333.