GIANFIGLIAZZI, Bongianni
Nacque a Firenze il 28 luglio 1549 da Piero di Bongianni di Gherardo e da Maria di Ubertino Strozzi.
La famiglia, di antichissime e illustri origini, era dedita all'attività bancaria e manifatturiera; nel corso del secolo XIII raggiunse una notevole potenza e ricchezza e stabilì rapporti con potentati stranieri, tanto da essere colpita dagli "ordinamenti di giustizia" del 1293; queste norme, finalizzate a tenere sotto controllo le famiglie dei "grandi", per impedire il loro monopolio del governo comunale, per un lungo periodo avevano costretto i Gianfigliazzi a stare fuori dalla vita politica cittadina. Nel XV secolo la famiglia poté assumere un ruolo di primo piano nella politica fiorentina, avendo legato le sue sorti a quelle della famiglia Medici; dopo i vari mutamenti istituzionali della fine del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, come la maggior parte del patriziato fiorentino, i Gianfigliazzi si strinsero intorno al nuovo regime fondato da Alessandro de' Medici nel 1532 e ne ricevettero in cambio incarichi pubblici e un posto stabile alla corte medicea.
La madre del G. apparteneva a una delle più illustri famiglie del patriziato, i cui membri avevano sempre fatto parte del ceto di governo.
L'ingresso del G. nell'Ordine gerosolimitano, che allora aveva sede nell'isola di Malta, risale al gennaio del 1568. Oltre alla pronunzia dei voti di povertà, castità e obbedienza, l'investitura richiedeva un vero e proprio apprendistato militare, in quanto l'Ordine si era specializzato, dopo la sua rifondazione (1530), nella guerra, soprattutto navale, contro gli infedeli. Fu appunto a Malta che il G. completò la sua formazione religiosa e militare, partecipando alle azioni contro la flotta turca che ebbero come teatro l'arcipelago maltese.
Il primo di questi episodi risale al 15 luglio 1570, allorché 19 navi turche di ritorno da Algeri, al comando del famoso corsaro Uluch-Alì (il calabrese Gian Dionigi Galeni, detto anche Euldi-Alì, Ucciali, Ulucciali), attaccarono quattro galere dell'Ordine gerosolimitano che si trovavano nel braccio di mare tra Malta e Gozo. I Turchi, più numerosi, ottennero facilmente la vittoria; la galera sulla quale si trovava il G. fu abbandonata perfino dal suo comandante, che si era dato alla fuga. Il G. si distinse nell'impari scontro per avere impedito, correndo un grave rischio personale, la caduta del vessillo della nave nelle mani dei nemici.
L'episodio, se non poté influire sull'esito della battaglia, ebbe un grande valore simbolico e valse al G. una notevole fama tra i suoi confratelli nonché le lodi del gran maestro dell'ordine.
L'anno dopo il G. prese parte alla battaglia di Lepanto, che vide la lega degli stati cristiani infliggere un colpo mortale alla supremazia turca nel mar Mediterraneo. Nella cruciale giornata del 7 ott. 1571 anche il G. rimase ferito in una delle prime azioni militari; catturato dai Turchi, fu condotto a Costantinopoli. Fu liberato soltanto alcuni anni più tardi, presumibilmente intorno al giugno 1577, dopo che la famiglia ebbe pagato al pascià di Costantinopoli un congruo riscatto, e poco dopo tornò a Firenze.
Nel periodo trascorso a Costantinopoli, sia pure come prigioniero, dovette acquisire una certa esperienza del paese e del governo turco; fu quasi certamente dovuta a questo fatto la nomina, da parte del granduca Francesco I de' Medici, ad ambasciatore presso la Sublime Porta, avvenuta nel marzo 1578.
I rapporti diplomatici tra il Granducato di Toscana e l'Impero turco, una volta frequenti e amichevoli data la convergenza di interessi economici, erano stati interrotti allorché le galere dell'Ordine di S. Stefano, istituito nel 1562 da Cosimo I per sostenere l'offensiva del pontefice e degli Stati cristiani contro gli infedeli, avevano cominciato a partecipare agli scontri tra le navi spagnole e quelle turche.
Il compito del G. era la formulazione di un nuovo trattato; il tentativo di "captatio benevolentie" fu affidato al dono di un cocchio d'oro, offerto dal granduca di Toscana al sultano Murad III appena il G. giunse in territorio turco. A Pera, nei pressi di Costantinopoli, dove il G. arrivò alla fine del giugno 1578, si era stabilita, almeno dalla fine del secolo XV, una importante colonia di mercanti fiorentini.
La bozza per il trattato commerciale aveva al primo punto la reciproca promessa di non aggressione ed enunciava i principî di correttezza e collaborazione ai quali si sarebbero dovuti ispirare i rapporti economici tra i due Stati. Al secondo punto lo Stato fiorentino si impegnava a dimostrare come l'azione delle galere dell'Ordine di S. Stefano fosse del tutto indipendente dalla volontà del granduca di Toscana, e si affermava che la flotta era stata creata per sostenere le iniziative militari del Papato e del Regno di Spagna. Il trattato prevedeva inoltre la costante presenza in territorio turco di un console fiorentino o bailo (come era sempre stato fino all'incirca alla metà del secolo), che facesse da intermediario e prevenisse il sorgere di controversie tra i due Stati e di conflitti tra i mercanti fiorentini residenti e le autorità locali.
I rappresentanti del governo turco, incaricati di esaminare la bozza di trattato, utilizzarono subito l'argomento delle galere stefaniane e dei danni da esse arrecati ai traffici commerciali della flotta turca. Le argomentazioni del G. sulla irresponsabilità del granduca in merito all'operato delle galere furono giudicate pretestuose e fragili: la distinzione tra l'Ordine di S. Stefano e la Corona di Toscana era per i Turchi poco credibile e insostenibile perché il granduca era per statuto il gran maestro dell'Ordine stefaniano.
La debolezza della posizione del G. era inoltre acuita dalla gelosia dei rappresentanti diplomatici francese e veneziano, che non mancavano di intralciarlo e di mettergli contro le autorità turche. Nonostante ciò il G. non disperò di condurre in porto le trattative fino al 6 ott. 1578, quando giunse a Pera la notizia dell'ennesima molestia arrecata dalle navi stefaniane alla flotta turca.
Erano stati catturati 25 marinai turchi, poi rilasciati dietro pagamento di cospicui riscatti. Quando i prigionieri liberati giunsero in patria, le pressioni sui ministri turchi che conducevano le trattative furono tali da convincerli che le galere dell'Ordine di S. Stefano erano in realtà alle dirette dipendenze del granduca di Toscana. È probabile che queste rimostranze fossero orchestrate dall'inviato veneziano, ma in ogni caso ebbero come effetto immediato il fallimento delle trattative.
Al G. non rimase che prendere il mare per tornare a Firenze, e da Ragusa (oggi Dubrovnik), dove fece tappa, inviò al granduca di Toscana una dettagliata relazione sull'accaduto. Frutto di questa esperienza fu poi una Relazione della città di Costantinopoli e de' costumi di quella corte, che ebbe una certa diffusione a Firenze.
Il G. tornò in patria al principio del 1579. Il 2 febbr. 1583 fu nominato ambasciatore residente presso il re di Spagna dopo aver chiesto e ottenuto l'assenso del gran maestro dell'Ordine di Malta. Il viaggio del G. si svolse prima via terra, fino a Genova, dove arrivò il 18 marzo 1583; vi sostò per qualche giorno e fu visitato da alcune autorità locali; quindi, navigando lungo costa, toccò Marsiglia e, il 22 aprile, giunse a Barcellona dove, seguendo le indicazioni del granduca, visitò il viceré di Spagna; si spinse poi nell'interno, giungendo il 5 maggio a Madrid; qui si incontrò con il re, con i due ministri Antonio Peres e Juan de Idiaque, sul quale avrebbe dovuto fare particolare affidamento; incontrò infine l'inviato toscano Luigi Dovara, che già si trovava in Spagna da qualche tempo, soprattutto con lo scopo di procurare un incarico ufficiale della Corona spagnola al fratello del granduca, Piero de' Medici.
Dopo la separazione della Corona di Spagna dall'Impero, i granduchi di Toscana Cosimo I e poi suo figlio Francesco avevano voluto mantenere una rappresentanza diplomatica permanente in ciascuna delle due sedi; tuttavia le prerogative degli ambasciatori residenti erano per lo più di carattere onorifico, mentre le questioni particolari erano affidate a inviati straordinari. Questa prassi non conobbe eccezioni nemmeno per il G., nella cui lettera di istruzioni, redatta il 2 febbraio all'atto della sua nomina, si diceva espressamente che non vi erano negozi particolari da trattare in Spagna che non fossero stati già affidati al Dovara. Inoltre l'atteggiamento tenuto da Francesco I de' Medici nei confronti della Spagna, improntato alla più completa sudditanza e alla rinuncia a ogni iniziativa personale, rendeva poco probabile l'improvviso insorgere di questioni di qualche importanza; pertanto il G. fu quasi esclusivamente impegnato in cerimonie, incontri protocollari, questioni di precedenza e rapporti economici (il re di Spagna richiedeva non di rado prestiti al granduca di Toscana e gli ambasciatori erano incaricati di negoziarne le condizioni). Un compito di fiducia affidato al G. fu la sorveglianza dei movimenti dell'irrequieto Piero de' Medici, allora in Spagna, che avrebbe potuto mettere in cattiva luce la famiglia granducale presso la corte; inoltre il G. doveva agevolare le trattative per il matrimonio di Piero con una gentildonna gradita al re di Spagna. Il compito non era facile, perché Piero aveva fatto assassinare la prima moglie, Eleonora de Toledo, appartenente a una delle più potenti famiglie dell'aristocrazia spagnola. Infine la prescelta fu Beatrice Menenes, ma il matrimonio fu celebrato soltanto nel 1593, diversi anni dopo il ritorno del G. in patria.
All'inizio del suo soggiorno in Spagna al G. era stata conferita, su raccomandazione del granduca e come segno di particolare benevolenza del gran maestro dell'Ordine di Malta, la commenda di S. Giovanni Battista di Prato. Secondo lo statuto dell'ordine la concessione di una commenda, che conferiva al beneficiario poteri simili a quelli vescovili, richiedeva la permanenza nel luogo del beneficio. Con la designazione del G., come spiegava lo stesso gran maestro in una lettera a Francesco I de' Medici, era stata espressamente trascurata tale norma, anche se esisteva la possibilità di farla ratificare dagli organi direttivi dell'ordine, sostenendo che il servizio svolto per il granduca di Toscana poteva essere considerato equivalente alla residenza.
La concessione suscitò invece una lunga sequela di controversie giudiziarie, terminata solo nel 1610 con la perdita della commenda di Prato. Nel gennaio del 1588 il G. fece ritorno in Toscana, dove nel frattempo a Francesco era succeduto il fratello Ferdinando. La permanenza nella città natale fu però di breve durata, in quanto il 12 marzo 1588 il G. fu di nuovo inviato in Spagna, questa volta con una missione limitata e particolare: convincere Piero de' Medici a tornare a Firenze, ponendo fine alla condotta dispendiosa che lì conduceva, con il pretesto di portare avanti le trattative per il suo matrimonio con la Menenes. Il G. riuscì in breve tempo a raggiungere il suo scopo e ad agosto tornò definitivamente in patria, accompagnato da Piero e dall'inviato spagnolo in Toscana.
Fu questo l'ultimo incarico conferito al G., che di lì a poco si trovò coinvolto in una difficile situazione debitoria.
Nel 1582 e nel 1583, in vista del soggiorno in Spagna, si era fatto concedere in prestito grosse somme di denaro dal Monte di pietà; durante la permanenza spagnola aveva sostenuto forti spese, da lui stesso calcolate in 18.000 scudi, somma che il granduca non volle in alcun modo ripagargli, in quanto il G. aveva in quel periodo regolarmente ricevuto la retribuzione prevista e non era stato autorizzato a spese straordinarie; inoltre, una volta tornato a Firenze, nel gennaio 1593, aveva contratto altri debiti con il banco Capponi per la concessione della commenda di S. Vitale di Verona, di cui era stato investito dall'Ordine di Malta. Una irregolarità amministrativa scoperta nel 1590 aveva reso necessaria una completa revisione dei conti del Monte di pietà, e negli stessi anni il banco Capponi veniva liquidato; uno degli eredi Capponi era stato inoltre in precedenza bandito come ribelle. La situazione venutasi a creare costrinse il G. a sborsare grosse somme di denaro per rifondere contemporaneamente tutti i suoi creditori. Cercando di superare la disastrosa vicenda, nel 1591 il G. si era recato a Roma per vendere alcuni uffici pubblici precedentemente acquistati a titolo di investimento; poco dopo cedette anche i suoi modesti possessi immobiliari ad Agliana, presso Pistoia, e nello stesso tempo cercò di rivolgere appelli in ogni direzione e allo stesso granduca perché gli venisse dato qualche soccorso.
Presumibilmente per queste ragioni, almeno a partire dal settembre 1593, il G. fu rinchiuso in regime di isolamento nel carcere fiorentino del Bargello. Alcune voci di confratelli e di amici si levarono, anche se timidamente, in suo favore; più tardi il gran maestro dell'Ordine di Malta, traendo occasione dalle celebrazioni per il matrimonio di Maria de' Medici, nipote del granduca, con il delfino di Francia, inviò un emissario per chiedere al granduca la consegna del prigioniero e il permesso di fargli scontare la detenzione nell'isola di Malta, ma senza esito; soltanto nel 1609, e presumibilmente in occasione dell'avvicendamento sul trono granducale di Cosimo II, il regime carcerario fu alleggerito e il G. fu trasferito alle Stinche "in talamo aperto".
Durante gli anni di carcerazione egli fu spesso condotto fuori dalla sua cella, e, alla presenza del notaio, rese testimonianze giurate in merito ai debiti contratti e stipulò atti di procura per provvedere all'amministrazione della sua commenda o per delegare qualche confratello a rappresentarlo, in seno all'Ordine di Malta, ai periodici consigli della lingua d'Italia.
Infine, tra la fine del 1610 e l'inizio del 1611 la pena detentiva fu commutata, forse per motivi di salute, nel domicilio coatto, scontato nella villa di campagna dei suoi nipoti, situata in località La Villa, presso San Casciano Val di Pesa.
Anche da lì ottenne talvolta licenza di poter tornare fugacemente a Firenze per attendere agli affari della sua commenda.
L'ultima data in cui risulta ancora vivo è il 10 sett. 1616, in occasione della stipula di un atto notarile; presumibilmente morì poco dopo nella villa di San Casciano.
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