Montefeltro, Bonconte da
Figlio del conte Guido da Montefeltro (v.); nato nel 1250-55 circa, educato dal padre al mestiere delle armi, si distinse nel 1287 nelle lotte tra guelfi e ghibellini ad Arezzo, ed ebbe parte notevole per la cacciata dei primi dalla città, dal qual moto ebbe inizio la guerra tra Firenze e Arezzo. Nel 1288 fu tra i capitani che comandarono vittoriosamente lo scontro coi Senesi alla Pieve al Toppo (ricordato in If XIII 121); l'anno successivo guidò i ghibellini d'Arezzo nella guerra contro i Fiorentini e si comportò valorosamente sul campo di battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), ove trovò la morte (G. Villani Cron. VII 120 e 131).
Il suo cadavere non venne ritrovato, e forse sin dall'indomani dello scontro nacque qualche leggenda a spiegare la misteriosa sparizione del corpo; ma tutto il racconto di Pg V 85-129 è nelle linee particolari frutto della fantasia di D.: è stata persino avanzata l'ipotesi (Zingarelli, Papini) che B. fosse stato ferito proprio da Dante. Per il Vivaldi (" L'Alighieri " I [1960] 49-50), non la ferita, ma il desiderio di porre in salvo il proprio drappello avrebbe spinto B. ad allontanarsi dal campo di battaglia, onde poi sarebbe stato raggiunto dai Fiorentini nei pressi dell'Archiano. I commentatori antichi, certo senza rifarsi a fonti cronachistiche perdute, hanno aggiunto qualche particolare: interessante, soprattutto, la chiosa di Benvenuto: " Iuvenis strenuissimus armorum, qui in conflictu aretinorum apud Bibenam, missus a Guillielmino episcopo aretino ad considerandum statum hostium, retulit quod nullo modo erat pugnandum. Tunc episcopus, velut nimium animosus, dixit: - Tu numquam fuisti de domo illa -. Cui Boncontes respondit: - Si veneritis, quo ego, numquam revertemini -. Et sic fuit de facto quia uterque probiter pugnans remansit in campo. Corpus ipsius numquam potuit inveniri ". Aveva sposato una Giovanna (come da Pg V 89, ma c'è chi contestava esser sua moglie la Giovanna di questo verso; cfr. Vellutello), che, a stare almeno alle parole di D., doveva essere ancora viva nel 1300. Ne ebbe una figlia, Manentessa, che andò sposa a un collaterale dei conti Guidi. Con l'espressione Giovanna o altri non ha di me cura, il personaggio sembra far riferimento ad altri della sua casata, dimentichi ormai di lui e che non pregavano in terra per affrettare la sua purificazione: certamente il fratello Federigo, che all'epoca del viaggio di D. era podestà di Arezzo, o il conte Galasso di Montefeltro (v.), che lo era stato dieci anni prima. Quanto alla mancanza di sollecitudine da parte di Giovanna, i commentatori antichi non fanno che parafrasare Dante.
L'episodio s'inquadra nell'Antipurgatorio, nella terza parte (o secondo balzo), ove si aggirano le anime di coloro che, morti di morte violenta, si pentirono sullo stremo della vita, tra l'incontro di D. con Iacopo del Cassero (vv. 64-85) e quello con la Pia (vv. 130-136), e in mirabile unità d'accento poetico e di tensione morale con essi. Si articola in due atti, entrambi dominati da cupe tragiche tonalità di guerra e di morte: il racconto delle ultime ore di vita, dopo la ferita mortale, e la disputa tra l'angelo e il diavolo per il possesso della sua anima; ma è evidente la ferma unità poetica di tutti gli elementi che l'episodio compongono, dalla cortese fiduciosa invocazione iniziale (Deh, se quel disio / si compia che ti tragge a l'alto monte) al tempestoso scenario (trova riscontro preciso nelle fonti storiche; v. Compagni Cron. I 10), che fa da sfondo all'estrema sorte del suo corpo gelato, alle acque impetuose che sciolgono la croce che Bonconte si era fatta con le braccia sul petto, alla preda di sassi che ricoprono il cadavere sul greto dell'Arno. Il paesaggio è descritto con cura persin troppo minuziosa, come di chi, personaggio egli stesso delle vicende di Campaldino, abbia voluto lasciare precisa testimonianza della topografia di quella zona insanguinata da Fiorentini e Aretini (come un'acqua c'ha nome l'Archiano, / che sovra l'Ermo nasce in Apennino; ovvero da Pratomagno al gran giogo), accanto a precisazioni diciamo meteorologiche che potrebbero interrompere l'energico ritmo del racconto: Ben sai come ne l'aere si raccoglie / quell'umido vapor che in acqua riede, / tosto che sale dove 'l freddo il coglie. Ma la pittura di quello squarcio luttuoso e tempestoso è, senza dubbio, tra i più alti paesaggi della Commedia, solcato da luci livide, ma illuminato anche dal fervore del pentimento che dà un tono di religiosa quasi liturgica solennità agli ultimi istanti di Bonconte: Quivi perdei la vista e la parola; / nel nome di Maria fini', e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola.
Di notevole interesse esegetico è la disputa sull'anima di Bonconte, anzitutto per il richiamo preminente di altra disputa, diversamente conclusa, per l'anima di suo padre Guido (If XXVII 112-123). Nella bolgia infernale il contrasto è dominato dalla beffarda sottigliezza ‛ loica ' del diavolo, e s. Francesco appare quasi in un angolo, muto e impotente dinanzi all'irrevocabilità del peccato mortale; anche l'angelo che s'impadronisce dell'anima di Bonconte è silenzioso, ma sovrasta la scena davanti alle querimonie del diavolo, inutilmente devastatore di quel corpo senza anima (anche nel descrivere la scena della vendetta demoniaca qualche elemento può apparire troppo elaborato: Giunse quel mal voler che pur mal chiede / con lo 'intelletto, ecc., ma pur esso è necessario per avvicinare l'episodio al clima di sottili e tuttavia vane discussioni di If XXVII tra Bonifacio e Guido, e del diavolo a Francesco). Si è discusso sulle fonti di tal disputa, e il D'Ovidio ha posto l'accento su elementi comuni con la Visione di Alberico; c'è stato anche chi, come il Capetti, ha voluto riscontrarvi echi virgiliani, massime dell'episodio di Palinuro; del resto i combattimenti per l'anima tra Cristo, o un angelo o un santo, e il demonio son ben diffusi in tutti i leggendari medievali, molti dei quali si rifanno, come fonte, alla lotta tra Michele e il diavolo per il corpo di Mosè (Iuda Epist. 9). Certo si è che D. non si è limitato a riproporre un caso narrativo tradizionale, ma ha creato una grande pagina di poesia, inserendola tra due altre, di accento e temperie morale in parte analoghi in parte diversi.
L'episodio di B., che negli antichi commentatori non poteva destare altro che un interesse d'ordine cronachistico in rapporto alla fama del giovane guerriero e al ricordo della giornata di Campaldino, è tra quelli sui quali la critica moderna si è più soffermata per mettere in luce la schietta commozione del racconto autobiografico e la pittura del paesaggio guerresco. Il Tommaseo, che nelle note al testo si richiama ai numerosi echi virgiliani di cui è tessuto l'episodio (anche Marcello, Pallante) nella nota finale al canto V pone in rilievo i fondamenti teologici della disputa del demonio. Il De Sanctis si appunta sul motivo del pentimento, che " è un passato che le anime non possono più rifare con la stessa commozione ", ma constatando che il pentimento appare meno " distinto " rispetto a quello di Manfredi; mentre, nella critica contemporanea, si rilevano le osservazioni del Momigliano sulle tonalità malinconiche del racconto di B. e sulla " solenne e religiosa aura di elegia "; dello Hatzfeld sulla fusione della credenza popolare con la speculazione scolastica; del Bosco sul sentimento di pace e di ripudio dell'odio che sovrasta le cupe note della guerra e della bufera scatenata dall'inferno.
Bibl. - A. Panizzi, Guido and B. da M. in D., in An essay on the romantic narrative poetry of the Italians, Londra 1830-1831; E. Riguntini, Guido e B. da M. nella Commedia di D., in " La Domenica letteraria " 28 gennaio 1883; A. Bartolini, Studi danteschi, Siena 1889-1894; F. D'Ovidio, Studi sulla D.C., Milano-Palermo 1901; V. Capetti, Sulle tracce di Virgilio, in " La nostra scuola ", Fermo 1898, poi in Illustrazioni al poema di D., Città di Castello 1913; W.W. Vernon, The contrasts in D., Manchester 1906. Tra le più notevoli letture del c. v vedi: C. Ricci, Ore ed ombre dantesche, Firenze 1921; C. Grabher, ibid. 1947; M. Puppo, ibid. 1963; H. Hatzfeld, in Lett. dant. 765-786; U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 140-145.