CASTANIA, Blasco Lanza barone di
Nacque a Catania nel 1466.
Secondo una tradizione inaugurata dallo stesso C. e rivendicata poi tenacemente dai suoi discendenti che la fecero accreditare per secoli da storici e genealogisti (vedi per tutti A. Inveges, Parte terza degli Annali della felice città di Palermo, Palermo 1651, pp. 89 S-), egli sarebbe nato da un Manfredi, cadetto di Blasco Lancia barone di Longi. Ma questa versione, che apparenta i Lanza all'anfica e potente famiglia Lancia presente in Sicilia già in epoca sveva, appare piuttosto infida e fu comunque contestata nel sec. XVII dal giurista catanese A4=io Cutelli. Secondo lui il C. era figlio di uno scrivano dalle origini oscure che non disponendo dei mezzi per farlo studiare gli aveva fatto vestire l'abito di S. Domenico, poi dismesso una volta completati gli studi. Questa versione presentata in una edizione del trattato sulle donazioni (citata dal Lancia di Brolo, ma non identificata) dovette suscitare le proteste dei Lanza che con tutta probabilità intervennero sull'autore costringendolo a ritirarla già nella stessa prima edizione del suo trattato per aderire alla tesi tradizionale (vedi per tutte Tractationum de donationibus, I, Panormi 1630, p. 354). Quali che fossero i suoi rapporti con i Lancia, certo è che il C., che per tutta la vita si mostrò assai devoto ai domenicani, apparteneva ad una famiglia, catanese di rango abbastanza modesto e sicuramente priva di titoli, feudi e patrimonio, che cercò ricchezza e promozione sociale nella professione forense e nell'insegnamento universitario. Antonino Lanza, fratello maggiore del C., fu infatti giurista di qualche nome e insegnò diritto nell'università di Catania dal 1482 al 1494.
All'ombra della carriera universitaria del fratello ebbe luogo l'iniziazione del C. agli studi giuridici che completò nell'università catanese con il dottorato in diritto civile conseguito Fii febbr. 1494. Votatosi alla professiòne forense, con tutta probabilità ancora prima della laurea, vi raggiunse presto fama di grande avvocato.
In una lettera non datata, ma databile al 1499, l'umanista Lucio Marineo Siculo lo ricorda dalla Spagna a Cataldo Parisio fra i più noti giuristi catanesi ("vivacis ingenii et magnae doctrinae utriusque iuris praestantia maxime pollet"). E non erano lodi infondate e neanche del tutto disinteressate: in un'altra lettera a Giovanni de Luna conte di Caltabellotta, uno dei più potenti feudatari della Sicilia del tempo, il Marineo si congratulò per il recupero di terre, censi e castelli ottenuto in tribunale grazie all'abile patrocinio legale del C. che doveva passare ormai fra i più eminenti principi del foro siciliano per contare clienti di tanta importanza. A lui stesso il Marineo si rivolse in altra lettera per complimentarsi della strepitosa vittoria e raccomandargli il patrocinio di una sua causa beneficiale relativa alla ricca abbazia di Bordonaro. Di questa attività professionale resta d'altronde abbondante testimonianza nella tradizione giuridica siciliana che ne conservò ininterrottamente fino a tutto il sec. XVIII la fama e gli scritti.
Parallelamente al prestigio professionale, procedeva nello stesso binario l'affermazione sociale del C. sul piano patrimoniale, seguendo due specifiche modalità: l'acquisto di feudi e soprattutto il matrimonio con ricche ereditiere. Il 29 ag. 1496 acquistò da Pietro Cardona conte di Golisano il diritto di riscattare dalle mani di Lattanzio Perdicaro, che lo teneva, il feudo di Casal Giordano nel territorio di Petralia. Il 23 apr. 1505 da Girolamo Vitellino il diritto di percepire un grano sopra ogni salma di vettovaglie esportata dai porti di Girgenti, Siculiana, Montechiaro, Licata e Catania. Ben altra consistenza ebbe però il patrimonio immobiliare del quale il C. entrò in possesso in virtù dei due matrimoni contratti durante la sua lunga vita.
Il primo con Aloisia di Bartolomeo, nipote del famoso giurista e protonotaro del Regno, Leonardo, gli fruttò (contratto nuziale in data 16 dic. 1498), oltre ad un palazzo in Palermo divenuto residenza abituale sua e dei suoi discendenti, il territorio di Trabia in prossimità del Comune demaniale di Termini Imerese, privo di popolazione e di villaggio, ma ricco di acque e dotato di torre, fondaco, due mulini e una tonnara. Quest'ultima, perfettamente attrezzata per la pesca dei tonni e palamidi, rendeva parecchio (secondo la stima del Barberi nel 1506 garantiva un reddito di cento onze annue). L'abbondanza di acque assicurata da una sorgente permise al C. di impiantare una piantagione di canna da zucchero e di annettervi uno zuccherificio (trappeto), ancor più redditizio della tonnara. Tutto il comprensorio era stato concesso in enfiteusi dalla Comunità di Termini nel 1444 a Leonardo di Bartolomeo, il quale però in grazia dei suoi ottimi rapporti con la corte ottenne facilmente subito dopo, nel 1445, il riscatto del censo dal re Alfonso di Aragona, con gran risentimento dei Terminesi. Spogliati della proprietà eminente sul ricco territorio dì Trabia, essi intentarono una lite giudiziaria che si protrasse per secoli ed ebbe il seguito immancabile di ricorrenti violenze dall'una parte e dall'altra. Per tagliar corto con le rivendicazioni dei Terminesi, il C. ottenne con privilegio di Ferdinando il Cattolico del 14 nov. 1509 l'erezione in baronia di tutto il comprensorio, con la facoltà di costruirvi il castello ed eventualmente anche il villaggio e una precisa intimazione alla Comunità di Termini di desistere da ogni rivendicazione e molestia. Questo provvedimento reale giunse però in ritardo rispetto alla tenace ambizione di conseguire la nobiltà. Questo indispensabile sigillo di una invidiabile ascesa sociale il C. aveva perseguito infatti già da anni per altra via, quella stessa che gli aveva assicurato fortuna ed onori, passando per le aule giudiziarie armata di cavillose, sottilissime argomentazioni giuridiche. Intentando causa contro Niccolò Tornabene, per rivendicare la baronia di Castania, antico feudo dei Lancia venduto però da loro già nel 1322 e passato poi sempre per vie più che legittime ai Tornabene, egli puntava alto: non mirava solo a conseguire la nobiltà, ma anche a provare la sua appartenenza alla famiglia Lancia, una delle più antiche ed eminenti della Sicilia. Messo alle strette dall'influenza del C. che non soleva arrestarsi certo davanti alle porte dei tribunali, il Tornabene si trovò a mal partito e pensò bene di venire a patti. La morte della prima moglie giunse provvidenziale per favorire la conclusione di un accordo che secondo il costume siciliano del tempo doveva concretizzarsi in un matrimonio. Il C. passò così a seconde nozze con Laura Tornabene, sorella di Niccolò, che gli portò in dote (contratto nuziale in data 21 luglio 1507) la baronia, terra e castello di Castania nel Valdemone ed inoltre la metà della foresta di Porta Randazzo, i feudi di Lactaino, Triairì, Li Buti, Foresta Vecchia, Margraniti e le saline di Nicosia. Alla morte di Niccolò, la sorella ereditò e portò al C. anche la seconda metà della foresta di Porta Randazzo. Il C. stesso per suo conto acquistò i tre feudi limitrofi di Camilari, Vacrila ed Acquasanta, costituendo un imponente complesso immobiliare.
Le esigenze della professione, che l'avevano portato abbastanza presto nella capitale a patrocinarvi importanti cause presso i supremi tribunali del Regno, indussero il C. verso la fine del sec. XV a prendervi stabile residenza. Che egli abbia ricoperto la carica di giudice della Regia Gran Corte, come pure affermano vari biografi, non è certo, mentre è sicuro invece che in qualità di barone di Castania partecipò regolarmente alle riunioni del Parlamento e due volte, nel 1508 e nel 1514, fu eletto deputato del Regno come rappresentante del braccio baronale. La condizione sociale acquisita e l'alto prestigio professionale gli aprirono comunque le porte della corte vicereale: nel 1516 egli figura infatti fra i più stretti consiglieri che assistettero il viceré Ugo de Moncada nelle turbolenze occasionate dalla morte del re cattolico che gli costarono la carica.
Come scrisse il Moncada stesso da MesSina il 22 marzo 1516 al reggente spagnolo cardinal Xiiiienes de Cisneros fu il C. che portò all'inquisitore Cervera la richiesta perentoria dei nobili in rivolta di liberare i prigionieri detenuti nelle carceri del S. Uffizio e abbandonare subito l'isola. La mediazione del C. era uno stratagemma puramente dilatorio, come compresero i rivoltosi quando ritornò dall'inquisitore con la risposta, suggeritagli dal viceré, che presentassero la richiesta per iscritto. I rivoltosi replicarono infatti che avrebbero presentato invece "puntas de lanzas y espadas" dando inizio apertamente alla ribellione. Fu convocato il Consiglio generale del Comune di Palermo e il C. ebbe l'imprudenza di presentarvisi, scortato da un nugolo di seguaci, senza considerare che la sua qualità di cittadino catanese non gli dava la facoltà di parteciparvL Ne fu infatti scacciato a furor di popolo e inseguito al grido di "fuori dalla città". Il C. si rifugiò nel palazzo Chiaramonte, detto lo Steri, residenza in quel momento del viceré, e vi fu assediato dalla folla in tumulto che reclamava la sua immediata espulsione da Palermo. Invano il Moncada si affannò ad esortarla alla calma dalle finestre, promettendo che il C. avrebbe lasciato la città il giorno successivo. Incurante di queste assicurazioni la folla minacciava di mettergli a sacco la casa. Cosa che un gruppo di scalmanati guidati da Federico Imperatore, uno dei nobili più in vista della rivolta, si accingeva a fare ("Federigo Emperador - scrisse il Moncada nella stessa lettera - fue a la casa del dicho Micer Blasco para le poner fúego y saquear muger e hijos y ropa"), se non l'avesse impedito il provvidenziale intervento di alcuni gentiluomini bene accetti al popolo che interposero. i loro buoni uffici. A sera la folla si accalcò di nuovo intorno al palazzo Chiaramonte reclamando questa volta in armi e a suon di bombarde lo sfratto immediato del viceré che pensò bene di non por tempo in mezzo. Lasciò il palazzo da unuscita di servizio alla chetichella, seguito dal C. e da pochi altri fidatissimi seguaci, e s'imbarcò alla volta di Milazzo.
Da qui il C., invece di proseguire per Messina insieme con il Moncada, s'imbarcò sul brigantino del barone di Raddusa, che faceva rotta verso Catania, dove contava sulla sua forte influenza per mantenerla fedele al viceré. Vi raccontò in effetti di essere stato espulso da Palermo al grido di "fora cathanisi" che non poteva non suonare offensivo alle orecchie dei suoi concittadini ed ottenne anche la nomina di un ambasciatore al Moncada per rinnovargli l'obbedienza della città. I Palermitani tuttavia non avevano tardato ad informare i Catanesì che l'espulsione del C. riguardava solo la sua persona e non coinvolgeva minimamente i buoni rapporti fra le due città. Non passò molto che anche a Catania il popolo si levò contro l'odiato governo del Moncada, annullando i precedenti deliberati in suo favore e i poteri dell'ambasciatore a lui destinato. Nuove mene del C. per indurre vari notabili cittadini a contrastare la politica di solidarietà con i Palermitani gli costarono alla fine l'espulsione dalla sua stessa città: cercato dalla folla in tumulto, si rifugiò nel castello di Aci per raggiungere da Il subito dopo il Moncada a Messina.
Il 21 ag. 1516 lasciò questa città al seguito del viceré che si recava a Bruxelles alla corte del re Carlo per giustificarsi dalle accuse dei Siciliani. In questa occasione il C. ebbe modo di dispiegare tutto il suo talento oratorio per convincere il re delle buone ragioni del Moncada. Rientrò a Palermo dopo che il Moncada fu destinato ad altro incarico e che il nuovo viceré Ettore Pignatelli duca di Monteleone ebbe preso possesso della sua carica. Portò da Bruxelles un dispaccio del re Carlo in data del 20 febbr. 1517 con la nomina a consigliere onorario soprannumero che gli dava facoltà di partecipare a tutti i consigli patrimoniali e fiscali del Regno. La punizione dei responsabili della rivolta gettò tuttavia olio sulle ceneri che covavano nuovi tumulti: ai primi di settembre del 1517 il popolo di Palermo si sollevò di nuovo e non risparmiò i più noti seguaci del passato viceré reintegrati e premiati dal sovrano lontano. Alcuni di loro pagarono con la vita e il C. sfuggì a morte certa solo rifugiandosi in un introvabile nascondiglio. La folla in tumulto lo cercò accanitamente, decisa ad ammazzarlo, persino nelle tombe della cripta sotterranea dei convento di S. Domenico del quale lo sapeva assai devoto. Non lo trovò e sfogò la sua rabbia dando al sacco e al fuoco il suo palazzo con tutti gli arredi e la preziosa biblioteca. Il contraccolpo di questi avvenimenti nel feudo di Trabia fu immediato: appresa la notizia del saccheggio palermitano della casa del C. i cittadini di Termini si precipitarono in armi a Trabia, devastando la piantagione di canne da zucchero e danneggiando il trappeto e la torre. La rivolta di Palermo fu stroncata tuttavia di lì a poco con l'uccisione del suo principale esponente, Gian Luca Squarcialupo, avvenuta durante una cerimonia religiosa nel convento domenicano di S. Cita per mano di alcuni nobili lealisti ai quali con tutta probabilità il C. assicurò tutta la sua assistenza.
Con il ritorno dell'ordine il C. non ritrovò l'antica influenza presso la corte vicereale. Il Monteleone, per quanti meriti egli avesse potuto vantare per il suo lealismo, lo lasciò in disparte. Non è neanche sicuro che gli fossero risarciti i danni subiti durante la rivolta del 1517, mentre si parlò di una carica pubblica ben remunerata della quale gli fu data però solo l'aspettativa. Da questa diffidenza del nuovo viceré il C. dovette sentirsi violentemente frustrato, se qualche anno dopo passò all'opposizione, legandosi con la fazione baronale dei conti di Adernò e Cammarata decisa a dar filo da torcere al Monteleone. Le prime avvisaglie si ebbero nel maggio del 1522, quando il viceré convocò il Parlamento a Palermo per la conferma del donativo ordinario. Il C. fu tra coloro che opposero le gravi condizioni economiche del Regno per chiedere sgravi fiscali e la diminuzione dei donativo. Questa richiesta lo mise in vista fra i capi della nuova dissidenza baronale e richiamò su di lui l'attenzione preoccupata del Monteleone. li quale reagì con la sospensione dei Parlamento e il suo trasferimento a Messina, città tradizionalmente più sicura e devota alla politica vicereale. Il C. vi si trasferì insieme con il Cammarata e con l'Adernò per continuarvi l'opposizione in Parlamento. Il 4 luglio 1522 fu però arrestato dallo stratigoto di Messina Bartolomeo Tagliavia e rinchiuso nel castello di Matagrifone. Il giorno seguente anche l'Adernò e il Cammarata subirono la stessa sorte. Inviato in esilio a Tripoli, il C. fu ricondotto in Sicilia l'anno successivo, quando si scoprì una pericolosa congiura diretta a consegnare la corona della Sicilia al re di Francia Francesco I. Alla congiura che i fratelli Imperatore orchestravano da Roma con i Colonna e i rappresentanti del re di Francia partecipò attivamente il conte di Cammarata. che, già agli arresti per i fatti del 1522, fu messo alla tortura e costretto a confessare. Fece anche il nome del C., dichiarando che durante le riunioni del Parlamento era incaricato di trattare con i rappresentanti delle città di Palermo, Messina e Catania una unione che con il pretesto degli sgravi fiscali ne assicurasse l'appoggio alla congiura in vista dell'arrivo in Sicilia di un'armata francese. L'accusa era gravissima e rischiava di costargli la pena capitale. Tradotto da Tripoli nel castello di Milazzo, vi fu sottoposto a vari interrogatori, nel corso dei quali si difese con la sua consumata abilità, riuscendo a scagionarsi. Se sia stato ricondotto a Tripoli o detenuto ancora in Sicilia non è noto. Certo è solo che ai primi del 1525 era di nuovo in libertà, dato che poté dettare il suo testamento il 7 febbraio al notaio Antonino Merlino di Catania.
Ormai duramente provato, il C. si ritirò dalla vita pubblica: visse gli ultimi anni a Palermo, dove morì l'8 ott. 1535.
Fu seppellito nella chiesa del convento domenicano di S. Cita, dove aveva fatto costruire una cappella con un arco e un sarcofago di marmo decorati dallo scultore Antonello Gagini. Lasciò per testamento tre legati pro anima:cento onze alla badia del Soccorso di Catania, 25 al convento di S. Domenico e io alla chiesa domenicana di S. Cita entrambi di Palermo. Erede delle baronie di Castania e di Trabia fu l'unico figlio maschio. Cesare, nato dal secondo matrimonio. Dal primo matrimonio aveva avuto due figlie: Antonia che sposò Salvatore Mastrantonio, barone di Aci (ebbe in dote il feudo di Casal Giordano) e Giovanna che sposò Ercole Statella. Dal secondo, oltre a Cesare, Agata che sposò Giovanni Antonio Squillace. Nel corso della sua lunga e fortunata carriera di avvocato, il C. scrisse molti pareri, glosse e commenti che restarono tutti inediti, ma ebbero l'onore di alcune stampe secentesche e il tributo di un vero e proprio culto dei giuristi siciliani. Si leggono a stampa: Apostillae clarissimorum I. CC. Antonii et Blasci Lanceae super ritu Regni Siciliae, in M. Conversano, Commentaria super ritu Regni Siciliae..., Panormi 1614, pp. 1-22; Blasci et Antonini Lancea clarissimorum in utraque censura doctorum et de consilio Suae Catholicae Maiestatis in hoc Regno Siciliae ad bullam apostolicam Nicolai V et regiae pragmaticae Alphonsi de censibus annotationes, in P. de Gregorio, Ad bullam apostolicam Nicolai Quinti et regiam pragmaticam Alphonsi regis de censibus commentaria, Panormi 1622, pp. 197-205; Consilium Blasci Lancea Sic. I. C. celeberrimi, regiique consiliarii pro Gaspare Monteaperto contra Petrum Monteaperto in causa feudi, seu terrae Gruttarum, in P. de Luna, Selecta diversorum illustrium, sapientissimorumque Siculorum consilia..., Panormi 1627, pp. 1-25. Glosse alle consuetudini di Trapani si conservano nel codice Qq F 55 della Biblioteca comunale di Palermo, altre alle consuetudini di Catania nel codice IV F 11 della Biblioteca nazionale di Palermo. Nella Biblioteca comunale di Palermo si conservano inoltre: commenti ai capitoli Volentes e Si Aliquem (2 Qq E 39 e Qq G 13) e una Interpretatio consuetudinis Regni: quod natis filiis bona confundantur et tripartuntur (2 Qq G 97).
Fonti e Bibl.: Lucii Marinci Siculi Epistolarum familiarum libri decem et septem..., Vallisoleti 1514 (pagg. non num., libri V e XVII); T. Fazello, De rebus Siculis decades duae, Panormi 1558, p. 603; F. Maurolico, Sicanicarum rerum compendium, Messanae 1556, pp. 211, 213, 215; Correspond. de don Hugo de Moncada y otros personaies con el rey catolico y el emperador Carlos V, in Colección de documentos inéditos para la historia de Espafia, a cura di P. J. de Pidal-M. Salva, XXIV, Madrid 1854, pp. 143, M; F. Del Carretto, Historia de expulsione Hugonis de Moncada, in Cronache relative ai tumulti avvenuti in Sicilia nei primi anni del regno di Carlo V, a cura di G. Salvo Cozzo, in Arch. stor. sicil., n. s., V (1880), pp. 163, 169; Transunto del processo contro ifratelli Imperatore, a cura di G. Salvo Cozzo, ibid., n. s., VII (1882), p. 349; 1 Capibrevi di Giovan Luca Barberi, a cura di G. Silvestri, II, I feudi del Val di Demina, Palermo 1886, pp. 41, 263-64; 111, 1 feudi del Val Mazzara, ibid. 1888, pp. 349-353, 548; Cronaca sicil. del sec. XVI, a cura di V. Epifanio-A. Gulli,Palermo 1902, ad Indicem;G. L. Barberi, Liber de secretiis, a cura di E. Mazzarese Fardella, Milano 1966, pp. 97-99; A. Mongitore, Bibliotheca sicula, 1, Panormi 1708, p. III; F. Emanuele e Gaetani di Villabianca, Della Sicilia nobile, I, Palermo 1754, pp. 158, 159; R. Gregorio, Introduz. allo studio del diritto pubblico sicil., in Opere scelte, Palermo 1853, pp. 19, 20, 39, 48; S. Lanza di Trabia, Not. stor. sul castello e sul territ. di Trabia, in Arch. stor. sicil., n. s., III (1878), pp. 309 ss.; F. Lancia di Brolo, Dei Lancia di Brolo. Albero genealogico e biografie, Palermo 1879, pp. 228232; R. Starabba, in Arch. stor. sicil., n. s., IV (1879), pp. 228-231; C. D. Gallo, Annali della città di Messina, a cura di A. Vayola, II, Messina 1879, p. 480; G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI, I, Palermo 1880, pp. 295, 310; II, ibid. 1883, pp. 113, 129; 1. La Lumia, La Sicilia sotto Carlo V imperatore, in Storie siciliane, III, Palermo 1882, pp. 49, 68, 71, 75, 87, 94, 95-96, 103, 132, 135, zii, 214, 230-231, 326; L. Boglino, I manoscritti della Biblioteca com. di Palermo, I, Palermo 1884, pp. 429-430, 466; II, ibidem 1889, p. 321; G. La Corte, La cacciata di un viceré di Sicilia (Don Ugo de Moncada), Giarre 1894, pp. 52-53, 63, 74; Antiche consuetudini delle città di Sicilia, a cura di V. La Mantia, Palermo 1900, pp. XLIV, CLIV; G. Sorge, Mussomeli dall'origine all'aboliz. della feudalità, II, Catania 1912, pp. q-iz; M. Catalano Tirrito, L'istruz. pubblica in Sicilia nel Rinascimento, in Arch. stor. per la Sicilia orient., IX (1912), p. 68; Id. L'Università di Catania nel sec. XV, Catania 1913, pp. 41, 45, 91, 92; F. San Martino de Spucches, La storia deifeudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, II, Palermo 1924, pp. 340-341; VIII, ibid. 1933, pp. 105-108; G. Di Marzo, I manoscritti della Biblioteca com. di Palermo, 11, 1, Palermo 1934, p. 180; A. Baviera Albanese, La storia vera del caso della baronessa di Carini, in Nuovi Quaderni del Meridione, II (1964), pp. 500-502.