DE LUPIS (Lupis), Bisanzio
Nacque a Giovinazzo (Bari) nel 1478 da Micco (Domenico) e da Costantina Paglia, appartenenti entrambi a famiglie ragguardevoli della cittadina.
In patria ricevette la prima educazione umanistica, poi forse completata in un centro di studi più importante. Ebbe una giovinezza avventurosa, come risulta dagli scritti, in cui viene deplorata la sua misera condizione di mercenario, esposto ai pericoli della guerra e alle sue lamentabili conseguenze. Il D. prestò di certo servizio nella flotta dei Francesi, indicati in un passo come soccombenti in due scontri con gli Spagnoli, a cui in quegli anni contendevano la supremazia sull'Italia meridionale: "Armomi d'arme co 'l Gallico orgoglio / E fui due volte in rotta in man d'Espani" (cap. VIII, 22); ma egli non fa riferimento a precisi avvenimenti e si limita a denunciare sconsolatamente la dura vita del marinaio. imbarcato su insicuri navigli e costretto a dormire "con la morte ad fianco ad fianco" tra procelle e naufragi. Risale a questa turbinosa esperienza il deprecato soggiorno in Dalmazia ("lo mi trovo fratel quivi in Dobronico / Fra gente nata da sterco asinario", sonetto CLVII), dove egli fu forse prigioniero dei Veneziani.
Successivamente il D. partecipò alle lotte di fazione della sua città e fu acceso sostenitore di Francesco Zurlo, capitano di ventura al soldo degli Spagnoli, di cui seguì le alterne fortune nella contesa con l'avversa famiglia Saraceno. Bandito una prima volta per aver partecipato a certi disordini nel dicembre 1501, rientrò dopo breve tempo in seguito all'indulto proclamato da Gonzalo de Cordoba; ma nel 1502 fu di nuovo esiliato con l'accusa "che la parte e concorrenti con Francesco Zurlo erano suspetti di Francesi" e poté rientrare solo dopo la battaglia di Cerignola del 28 apr. 1503, in cui il Cordoba riportò una decisiva vittoria. Non pare che abbia poi lasciato più il paese d'origine, dove contrasse matrimonio nel 1513 con Antonia Elefante e ricoprì per lunghi periodi varie cariche pubbliche, tra cuì quella di sindaco.
Intorno al 1526 il D. pubblicò una vasta raccolta di Rime, che comprende 158 sonetti e dialoghi, 14 capitoli, una biastema in stanze, 175 strambotti, 13 barzellette; evidente è la predilezione del D. per forme compositive popolareggianti come la frottola, il sonetto caudato e lo strambotto, che nella raccolta prevalgono sulle forme proprie della lirica d'arte.
Il Bronzini, che con i suoi studi ha restituito questa figura di poeta alla storia della lirica del Cinquecento, rileva (Strambotti e barzellette ...) la sua propensione per metri e temi tradizionali della poesia popolare e una attitudine al commento di "personaggi ed episodi di storia locale", reso "con immediatezza di stile figurativo e un piglio da cantastorie". Protagonista del ricco canzoniere del D. è una donna cantata con il nome, forse un senhal, di Maurizia, ora nei toni celebrativi della lirica di estrazione petrarchesca, ora con franchi accenti di odio e esasperati risentimenti. In effetti le rime del D., al di là degli stereotipi della tradizione colta e dei suoi formulari di repertorio (il di fatale dell'innamoramento e sue dolorose ricorrenze, gli infortuni dell'amore sempre inappagato), si segnalano proprio per questo furore immaginativo, che esplode in vendette mostruose e in sadici riti punitivi. Al petrarchismo periferico di tante composizioni, che ripetono la vulgata fenomenologia dell'amore cortese, si contrappone (con migliori possibilità di espressione) un gusto per l'invettiva assordante e per il vituperio di inaudita e strepitosa virulenza. La "biasterna in stanze", in cui la "divina Maurizia" è declassata ad "horrida liena", è un iroso risarcimento per il torto patito, un'emissione convulsa di bile: "Vieni rabbia crudel, viene furore, / E soccorrete al mio debile ingegno / Per quella vena ond'è mancato amore" (stanza 1). li componimento è un interminabile grand guignol di atti persecutori, a cui congiurano orride fiere ("Draghi, serpenti e viperi che nascono / Con sette teste, e Hidre e basalischi / La maledetta carne sua se pascono", stanza 11), dei e numi antichi e tutta la schiera di mostri seviziatori della mitologia (da Tisifone alla prediletta Medusa) fino al cristiano Lucifero.
Anche fuori dall'esasperata aggressività di certi componimenti, è il tema della vendetta contro la donna "syrena" quello che qualifica la vena del D., il quale, ricco di sussulti passionali, immette un alito di risentita energia in schemi letterari troppo rigidi per la sua serisibilità. "Pezzente del mare" e pubblico funzionario, il D. si fa ricordare per il suo gusto realistico, che emerge ora in certi incipit sentenziosi ("Se Dio partia col senno la pecunia / Sarebbon conosciuti tutti gli uomini", son. CXLIII; "Ahi povertà, quante virtù nascondi, / Ahi quanto sonno fai dormire invano", son. XCIV), ora nella denuncia dell'anarchia e della conflittualità politica contemporanea ("Nullo stato in terra ha ferma sede, / Che mentre un s'alza / Un altro in giù ne vene", son. CXL). Da siffatto atteggiamento deriva l'attenzione dell'autore per la cronaca (dalla descrizione dell'eroismo dello Zurlo a Cerignola all'elogio del nuovo signore di Giovinazzo), su cui però domina, come si addice a tempi di continui mutamenti, la "cieca fanciulla chiamata fortuna". Anche se larga parte del canzoniere è occupata dal terna amoroso, il D. è più felice fuori dalla convenzione, ad esempio, se non è spuria, nella penultima frottola, che svolge il tradizionale tema della fanciulla smaniosa di nozze: "Matre mia, marita me, / Ch'io mi sento non so che" (XII).
Composita è la preparazione letteraria del D., che infittisce di richiami mitologici e di reminiscenze dantesche il suo dettato poetico, tributario soprattutto di quel gusto tardoquattrocentesco per lo sperimentalismo metrico (tra Burchiello e i componimenti a musica). E da questo stesso versante deriva l'insistenza nell'uso di figure retoriche come l'allitterazione, la paronornasia, l'anafora, che rimanda a cadenze e moduli popolareschi, piuttosto che ai più impegnativi artifici di un certo Petrarca. La compresenza di "rimeria cortigiana e declamazione di piazza" (Bronzini) costituisce la qualità essenziale di questa "poesia di provincia", che, tuttavia, come vanta l'autore, corse "per Francia, Spagna e Lombardia".
Non ricca di avvenimenti fu la maturità del D., che volse i suoi interessi esclusivamente alla vita politica locale e allo studio della storia cittadina. In questo quadro di impegno municipalistico va intesa la composizione, intorno al 1550, delle Cronache di Giovinazzo, che egli dedicò ai suoi figli, per i quali illustra "lo nome di Jovenazzo, sua antichità, nobbiltà e virtù".
Il titolo di Cronache di Giovinazzo, attribuitogli dall'editore ottocentesco, è contestato dal Roscini (Bisanzio Lupis ...), che ne rileva la discordanza con le indicazioni del manoscritto (Memorie pella città di Govinazzo) e con i caratteri dell'opera che della "cronaca" medievale ha solo esteriori connotati (esposizione dei fatti a partire dalle origini fino agli eventi contemporanei), ma non le qualità dell'indagine. L'opera del D. si iscrive in una rigogliosa tradizione storiografica locale, per la quale essa costituirà importante punto di riferimento. La narrazione è mossa da amore municipale e alterna la tradizione e il documento, la testimonianza delle fonti e la memoria personale, profondendo lo stesso impegno nelle questioni etimologiche e topografiche e nella ricostruzione degli avvenimenti moderni, che acquistano un drammatico rilievo nel contesto dei fatti internazionali, di cui sono, sia pur piccolo, osservatorio.
Il D. morì a Giovinazzo nel 1555.
Le Rime furono pubblicate a Venezia dopo il 1522 (tra il 1526 e il 1527). Parziale è l'edizione curata da M. Menghini (Frottole, Modena 1892). Sul testo cinquecentesco è fondata l'edizione curata da G. B. Bronzini (Rime, Matera 1977), che fa seguito alla pubblicazione da parte dello stesso studioso degli strambotti e delle barzellette (Strambotti e barzellette di Bizantio De Lupis rimatore pugliese del sec. XVI, in Lares, XLII [1976], 3-4, pp. 369-426).
Le Cronache di Giovinazzo sono state pubblicate da G. De Ninno (Giovinazzo 1880).
Fonti e Bibl.: A. Lupis, Il postiglione, Venezia 1666, p. 124; Id., La valigia smarrita, Venezia 1684, p. 324; N. Toppi, Biblioteca napol., Napoli 1678, p. 49; L. Paglia, Istorie della città di Giovenazzo, Napoli 1700, passim;G. B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1793, p. 56;L. Volpicella, Degli scrittori della storia di Giovinazzo, Napoli 1874, ad nomen;L. Marziani, Istorie della città di Giovinazzo, Bari 1878, p. 16e passim;G. De Ninno, Memorie storiche degli uomini ill. della città di Giovinazzo, Bari 1890, pp. 109-112; C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi moderni e contemporanei, Trani 1905, pp. 537 s.; G. B. Bronzini, Riflessi storici nella poesia popolare e popolareggiante della età del Viceregno, in Lares, XXXIX (1973), pp. 23-28; F. Roscini, B. L. poeta e cronista nella Puglia cinquecentesca, Giovinazzo 1974.