MICHELOTTI, Biordo
– Nacque a Perugia nel 1352, primogenito di Michelotto (Michelozzo) di Teobaldo e di Baldina, di famiglia non nota; ebbe tre fratelli: Ceccolino, Antonio, ricordato anche con il nome di Sighinolfo, ed Egano.
Franceschini (1948, p. 92) aggiunge ai quattro altri due fratelli, Agnoluccio e Guidone; Roncetti (p. 41) ricorda invece Pietro e Ludovico.
Di parte popolare risulta già il nonno del M., ravvisabile nel Teobaldo o Teo che nel 1339 fu podestà a Città di Castello, nel 1349 capitano del Popolo a Orvieto, nella primavera del 1355 ambasciatore all’imperatore Carlo IV di Lussemburgo a Pisa, nel novembre vicario d’Ancona e nella cerchia di E. Albornoz lì residente.
Tardo e modesto l’esordio del M. come capitano: nel marzo 1383 fu inviato da Perugia, di cui era capopriore il padre, a difendere Castiglione del Lago dai nobili banditi. Indizi vari lo fanno ritenere coinvolto nelle trattative avviate dai cugini Nicolò e Michelozzo di Ceccolino per l’adesione di Perugia all’obbedienza avignonese di Clemente VII; la trama fu scoperta nell’ottobre 1383.
La vicenda fu valutata con indulgenza dai priori «raspanti», e quindi di parte popolare come i Michelotti, che chiesero loro di dichiarare falsa l’accusa e di ribadire l’amor patrio con la restituzione del castello di Vernazzano, tenuto abusivamente insieme con quello di Castelnuovo. Michelozzo e Nicolò abbandonarono Perugia e all’inizio del nuovo anno occuparono, con l’aiuto di Boldrino da Panicale (Giacomo Paneri) e di Bartolomeo da Petramala, vari luoghi nel Chiusino e l’isola Maggiore del Trasimeno e fecero di Assisi, in mano a un loro parente, Guglielmino Michelotti, un avamposto contro Perugia. Emersero in questa fase le lettere, forse falsificate, attestanti l’intesa dei Michelotti con Avignone e un versamento di 8000 fiorini in loro favore.
Nel marzo 1384 il Consiglio dei camerlenghi dispose taglie sulla testa di Nicolò e Michelozzo, la condanna in effigie, la demolizione delle case. Non è chiaro se il M. avesse lasciato Perugia con i cugini o giorni dopo, bandito come raspante: certo è che, in quanto sostenitore di Clemente VII, infestò con loro il contado perugino.
Nel 1387, al soldo di Francesco (I) da Carrara, signore di Padova, il M. partecipò alla campagna promossa da Gian Galeazzo Visconti contro Antonio Della Scala, signore di Verona: intervenne così al consiglio di guerra convocato presso Castelbaldo da John Hawkwood e Giovanni d’Azzo degli Ubaldini e l’11 marzo si batté a Castagnaro a fianco di Francesco Novello da Carrara, che respinse l’attacco di Giovanni Ordellaffi; insieme con Giovanni degli Ubaldini, Cecchino Broglia e Filippo Tibertelli catturò Benedetto da Malcesine e Ugolino Dal Verme, sorpresi in fuga verso Porto e Legnago; il giorno dopo restò ferito in una mischia residua.
Nei mesi successivi, come «chaporale» di Giovanni degli Ubaldini, fu al soldo di Gian Galeazzo Visconti, di stanza tra Modena e Reggio; sul finire di novembre – con l’avallo del Visconti – si mosse con 100 lance, attraverso la Romagna, per unirsi alle truppe del conte Antonio da Montefeltro, impegnato militarmente tra Marche e Umbria, col sostegno di Firenze, contro Perugia e il pontefice di obbedienza romana, Urbano VI. La pace fu conclusa nel settembre del 1388 col favore del Visconti e la contrarietà di Firenze: sia l’uno sia l’altra avevano mire su Perugia e si contendevano i fuorusciti, convinti che solo una potenza esterna potesse aiutarli a rientrare in patria.
Il cugino del M., Michelozzo, era al soldo di Firenze quando nel giugno del 1390 con 300 fuorusciti, dopo essere penetrato a Perugia, tentò di sollevarla e pagò con la morte l’insuccesso. Nello stesso tempo il M., al soldo del Visconti, difendeva Siena.
L’anno seguente il M. è attestato in Piemonte; il 25 luglio 1391, sotto le mura d’Alessandria, sconfisse l’armata del conte di Armagnac Giovanni (III), genero di Bernabò Visconti, procurando al Visconti una vittoria risolutiva. Anteriormente al 20 genn. 1392, quando fu sottoscritta la pace di Genova tra Firenze e il Visconti, la compagnia del M., impossibilitata dalle milizie fiorentine e bolognesi a raggiungere l’Umbria passando per la Romagna, pervenne, attraverso Sarzana e Pisa, nel Senese e da lì si diresse nel Perugino e nella Marca, dove si unì alla compagnia di Azzo da Castello, che era stata licenziata da Antonio da Montefeltro. Alle due compagnie che, rafforzate da molti esuli perugini, occuparono Sigillo, si aggiunsero nel giugno 1392 quelle di Giovanni da Barbiano, di Alberico Broglia, di Brandolino Brandolini da Bagnacavallo, di Gian Tedesco da Petramala, fino a costituire un grosso esercito mercenario che, manovrato dal Visconti, operava in parte in Toscana, taglieggiando i centri maggiori, e in parte, sotto il comando del M., nel Perugino. In questa fase s’interpose nella veste di legato, per riaffermare il dominio pontificio, il cardinale Pileo da Prata il quale, il 7 agosto, concluse con Perugia trattative che prevedevano la consegna della città a Bonifacio IX, la sua dimora nella stessa e la riammissione a sua discrezione degli esuli.
Per garantire i patti gli intrinseci consegnarono al papa quattro importanti fortezze e versarono al M. 6000 fiorini affinché allontanasse i mercenari. Il 17 novembre Antonio da Montefeltro compì una visita d’omaggio al papa, che si trovava a Perugia dal 18 ottobre, provocando una reazione dei nobili che lo sospettavano di sollecitare la riammissione in città del M.: nei momenti di tensione che si verificarono il Montefeltro si salvò, ma caddero alcuni uomini del suo seguito e altri cittadini perugini. Il 30 novembre la cittadinanza rinnovava la sottomissione a Bonifacio IX, che si era nel frattempo rifugiato nell’abbazia di S. Pietro.
Nel gennaio 1393 il M. era a Montalboddo (Ostra) assoldato, insieme con Azzo da Castello, dal Montefeltro e da alcuni Comuni per impedire alle compagnie prive d’ingaggio di nuocere. Il 20 maggio, con la determinante mediazione degli ambasciatori fiorentini, fu raggiunto a Bettona l’accordo per il rientro a Perugia degli esponenti della fazione raspante, fissato per il luglio successivo. Sul finire di maggio e i primi di giugno il M. assediò Macerata, chiamatovi da Giovanni, figlio di Boldrino da Panicale (Giacomo Paneri), deciso a vendicare il padre, quivi ucciso due anni prima da Andrea Tomacelli, rettore della Marca e fratello del pontefice, asserragliatosi ora all’interno. Il M., informato sugli eventi di Perugia e deciso a forzarli in suo favore, accettò e sostenne, con l’invio di 200 cavalli al comando di Odoardo Michelotti, la dedizione di Castel della Pieve (ora Città della Pieve), che si aggiungeva così a Deruta resasi a lui poco prima. La sospensione dell’assedio di Macerata, ottenuta da mediatori fiorentini sollecitati dal papa, procurò ai capitani un compenso di 12.000 fiorini e la consegna dei resti mortali di Boldrino.
Il rientro a Perugia dei raspanti ebbe inizio puntualmente il 1° luglio e richiese il giuramento di fedeltà nelle mani del papa; si avviò in seguito la restituzione dei beni confiscati e furono rinnovate le magistrature con rappresentanti delle due fazioni. Non di meno insinuazioni artatamente diffuse acuirono la diffidenza reciproca fra i due schieramenti; il 30 luglio, acceso da qualche alterco, si giunse a uno scontro che vide il prevalere della fazione dei raspanti e la fuga dei nobili. Durante la notte Bonifacio IX, paciere fallito, scappò ad Assisi, non convinto da Simone di Ceccolo Guidalotti della disponibilità dei raspanti a confermare la sua signoria su Perugia. Il 3 agosto il M., con una decisione improvvisa che fa sospettare che sia stato lui a pilotare l’espulsione dei nobili e la fuga del papa, entrò trionfalmente a Perugia.
Il M. fu acclamato come capo vittorioso: dopo aver deliberato un’elargizione annuale ai poveri di 500 libre di denari da rinnovarsi in perpetuo nell’anniversario del trionfo della fazione dei raspanti, il Consiglio generale gratificò il M. col cingolo e la spada di cavaliere, con la donazione d’un palazzo a sua scelta, con l’onore d’una statua da collocare sul fronte della cattedrale che guardava la piazza, con l’enfiteusi di tenute agricole a Panicale e Chiusi e con l’esenzione perpetua – estesa anche ai fratelli – da ogni imposta comunale. Ma senza dubbio fu la nomina a capitano generale dell’esercito perugino – con la provvigione di 1000 fiorini al mese e l’elargizione una tantum di 2000 – a proiettare il M. alla direzione suprema della città e a renderlo arbitro e tiranno secondo il principale indice fornito da Bartolo da Sassoferrato: col titolo dispone delle fortificazioni e sceglie castellani e guarnigioni; per i fini supremi della sicurezza è abilitato a interferire su ogni scelta politica degli organi comunali; un potere siffatto risulta certo ancor più espanso quando è esercitato, come nell’ipotesi, dal capo del partito che ha sgominato gli avversari e non è più chiamato a confrontarsi con gli avversari. Il M. fu inoltre eletto in testa ai Venticinque che, aggiunti ai Priori, disponevano il confino e il sequestro dei beni. Per questo cumulo di poteri Pellini rileva che «parea quasi in lui solo tutto il maneggio et governo della città collocato» (II, p. 49), risultando di sola facciata la presenza in città del cardinal legato, rimasto a salvare il salvabile.
Nei confronti del pontefice il M. manifestò i suoi reali sentimenti pochi giorni dopo la sua entrata in città: il 12 settembre a Penna San Giovanni, insieme con Gentile (III) da Varano, egli catturò infatti Andrea Tomacelli e Conte da Carrara, che erano alla ricerca d’una rivincita.
La vittoria procurò al M. la dedizione dei territori circostanti e consolidò il regime su Perugia. In sua assenza, fu la madre a prender possesso della dimora di Porta Sole, forse quella stessa costruita per i pontefici e risparmiata al momento della demolizione della cittadella, in seguito alla rivolta dei Perugini contro il governatore pontificio Géraud Dupuy (dicembre 1375).
Il 28 agosto e il 24 settembre Bonifacio IX si rivolse alla Comunità di Rocca Contrada rassicurandola che non sarebbe stata ceduta in vicariato al M. per riscattare il fratello Andrea Tomacelli, ancora nelle mani di quello. La tregua generale dell’11 novembre, sottoscritta da Gentile da Varano e dal M., apparve un impegno remunerato dei due a sospendere per un anno le estorsioni contro le Comunità della Marca. Successivamente fu avviata la trattativa per la liberazione di Andrea Tomacelli, ottenuta da Bonifacio IX con la restituzione a Perugia delle fortezze ancora nelle sue mani nonché di varie concessioni al M. ascrivibili al febbraio 1394.
Il M. ottenne in tale circostanza il vicariato su Gualdo Tadino e Nocera e forse, nonostante le premesse, anche su Rocca Contrada, una condotta a vita per 200 lance, remunerata con 10.000 fiorini nei primi due anni, indi con 6000, infine la conferma dei privilegi concessi dalla città di Perugia a lui e familiari. La conferma, presa d’atto del predominio raggiunto in città dal M., era prossima a un riconoscimento vicariale, più inquietante per il papa e non ottenibile dal M. senza uno strappo con la città: lontano infatti il papa, avrebbero dovuto esercitare il vicariato i «priores et camerarii artium» (Esch, p. 605 n. 4).
La tregua coi Tomacelli si rivelò inconsistente: prospettando se stesso e Perugia insidiati da Giannello Tomacelli, che in realtà imperversava da Spoleto, il M. occupò Assisi e Gualdo Cattaneo, recuperò la Fratta (ora Umbertide) e Montone, castello già cedutogli dai Fortebracci come riscatto per la liberazione del loro familiare Andrea (Braccio da Montone) da lui fatto prigioniero poco prima: in quella occasione il M. avrebbe invitato Braccio a militare con lui, ottenendo un garbato, ma fermo, rifiuto.
Nel febbraio 1394 il M. stipulò una condotta con Firenze: la città era spinta all’iniziativa dal declino di John Hawkwood, seguito presto dalla morte, dall’intento di non estraniarsi dagli avvenimenti perugini e dal timore d’un ritorno del M. al soldo del Visconti. L’ingaggio non evitò, anzi incentivò, gli attacchi del M. contro Siena e contro Pisa, che si liberarono con un esborso di 25.000 fiorini. Il trasferimento in Romagna ai danni di Forlì e d’altre Comunità gli procurò ulteriori riscatti; nell’agosto il M. ritornò nel Perugino, da dove nell’ottobre minacciava ancora Siena.
Il 12 genn. 1395 i quattro conservatori eletti a Orvieto per pacificare la Comunità rimisero al M. il compito, per loro inadempibile. Nella primavera il M. fu sollecitato da Enguerrand de Coucy ad assumere la difesa d’Asti e delle terre di Louis de Valois, duca d’Orléans e genero di Gian Galeazzo Visconti, ma rifiutò per non contrariare quest’ultimo e non allontanarsi troppo da Perugia, insidiata da fuorusciti e mercenari pontifici. Nel giugno era di nuovo nella Marca dove s’alleò con Conte da Carrara, il Mostarda (Mostarda della Strada) e Luca da Canale, in realtà assoldati dal rettore e da varie città – in testa Fermo – allo scopo di arginarlo, e con loro taglieggiò Ascoli. Chiamato dai Chiaravalli a Todi, il 3 agosto fu acclamato signore della città, liberata poco prima dalla signoria di Malatesta Malatesta (Malatesta dei Sonetti). Da qui, fingendosi costretto ad assolvere la missione di paciere assunta mesi prima, il 21 settembre si recò a Orvieto, dove ricevette analoga acclamazione. Il 7 ottobre i Fiorentini si felicitarono con il M. ma, preoccupati della sua ascesa in apparenza inarrestabile, accreditarono presso di lui Filippo Magalotti col compito di spiarlo.
La reazione pontificia si manifestò con l’intervento armato d’Andrea Tomacelli, ancora rettore della Marca, e di Ugolino Trinci, signore di Foligno; il M. per tutta risposta nel marzo e nell’aprile 1396, insieme con Cecchino Broglia e Brandolino Brandolini, compì razzie nella piana di Foligno e Spoleto e pretese 12.000 fiorini per liberare i prigionieri. Eppure fin dal 24 marzo i rappresentanti del M. avevano sottoscritto con Bonifacio IX la pace, che prevedeva in favore del condottiero il vicariato su Todi, Orvieto e altri centri minori e una condotta per 500 lance, a disposizione del pontefice, remunerata con 2000 fiorini al mese.
L’inaffidabilità e l’aggressività del M. concentrarono su di lui il risentimento di tutti. La pace del 16 maggio fra molte Comunità e signori del Centronord, fra cui Firenze e il Visconti, riversò nella penisola centrale e meridionale mercenari senza soldo, fra i quali i famigerati bretoni di Bernardone de Serres, che il M. affermava di voler allontanare, ma d’esserne impedito dalla posizione equivoca del papa; non di meno si offrì come mediatore fra loro e le Comunità ricattate. In balia di eventi più grandi di lui, il M. ritenne vantaggioso dichiararlo e mostrarsi possibilista: così il 22 giugno replicava ai Senesi, sgomenti per l’arruolamento di molte truppe da parte di Firenze, che egli era stato costretto ad allinearsi con questa per non esserne travolto, ma che sarebbe stato felice di provvedere alla difesa di Siena e Perugia con un adeguato finanziamento da parte di Gian Galeazzo Visconti. Le trattative fra quest’ultimo e il M. indussero Firenze a scatenargli contro, senza più indugio, le compagnie di Bartolomeo da Prato, Ludovico Cantelli, Antonio degli Obizzi. Inascoltato da Siena e dal Visconti nella richiesta d’aiuto, il 1° settembre si vantava d’essere in grado di respingere l’attacco, ma il 12 sollecitava ai Senesi l’invio di Guido Guidi (Guido d’Asciano). Il 28 settembre avvisò i Senesi che la Comunità di Perugia e lui personalmente avevano concluso la pace con Firenze e che le compagnie di questa erano ora libere di riversarsi contro Siena; egli si dichiarava perciò disponibile a prestar loro aiuto, evidentemente senza disagio per la pace appena sottoscritta.
In realtà l’inizio del 1397 coglieva il M., Paolo Orsini e altri capitani minori al soldo del Visconti dislocati con 8000 cavalli nel Senese per distogliere Firenze dalla campagna intrapresa contro Pisa e il duca Gian Galeazzo Visconti, a sua volta impegnato di persona nel Mantovano. Firenze, che per l’impresa aveva assunto come capitano Bernardone de Serres e richiamato dal territorio senese le altre compagnie al suo servizio, nel mese d’aprile assoldò il M. e i suoi mercenari per l’eccezionale somma di 50.000 fiorini, che però non fu corrisposta. Cambi di fronte così repentini indussero tutte le parti a sospettare del M., il quale raggiunse Firenze come esigeva l’ultima convenzione ma, persuaso di rischiare la vita, alla metà di giugno fuggì alla volta d’Arezzo e di Città di Castello, dove il 19 gli furono resi onori.
Il 5 settembre Bonifacio IX, prendendo spunto dalla ribellione di alcuni castelli di Todi, creò Pandolfo Malatesta comandante supremo delle armi della Chiesa; l’8 settembre il Visconti invitava i Senesi ad accogliere i fuorusciti perugini, utili a combattere il traditore; proposte di riavvicinamento inoltrate dal M. a Firenze furono respinte con sdegno.
Probabilmente per allontanare tante minacce il M., introdotte in Perugia «per guardia della sua vita moltissime genti» (Cronaca della città di Perugia, p. 261), decise di proporsi ai potenti in rassicurante dimensione familiare, indicendo «feste e trionfi grandi per menar moglie» (ibid., p. 260) e dar così compimento agli sponsali con Giovanna, figlia dodicenne del conte Bertoldo Orsini di Sovana.
Il disegno parve riuscire: alla corte bandita e alle giostre che si protrassero per otto giorni – a partire dal 13 novembre, giorno d’ingresso in città della sposa, prima benedetta a Castel della Pieve dal vescovo Odoardo Michelotti –, parteciparono con splendidi doni non solo i rappresentanti delle città dominate dal M. e delle famiglie signorili dell’Italia centrale, ma lo stesso ambasciatore di Firenze, scortato da dodici giostratori, e quello di Venezia. Gli sposi presero dimora a Todi, nel cui contado si ribellarono alcuni castelli, seguiti poco dopo da altri due d’Orvieto. Rappresentanti fiorentini sul finire dell’anno rivelavano che il M. rifiutava di restituire Orvieto, richiesta dal papa come condizione di pace.
Il 24 genn. 1398 si parlava ancora a Firenze d’una situazione militare e politica non favorevole al M. che, pur detenendo – oltre Perugia – Todi, Orvieto, Assisi, Nocera, Gualdo Tadino, Trevi, Spello, Castel della Pieve, incontrava difficoltà a presidiare i relativi contadi tra loro non contigui. I primi di marzo il M., affidata Todi al fratello Ceccolino, tornò a Perugia, dove domenica 10 marzo, nella sua dimora di Porta Sole, fu ucciso da alcuni congiurati guidati dall’abate di S. Pietro, Francesco Guidalotti che, accolto amabilmente in casa, con un forte abbraccio offrì le spalle del M. ai pugnali dei sicari introdotti come uomini del suo seguito.
La notizia, gridata in piazza da Armanno di Golino per suscitare plauso, provocò solo sgomento; Sighinolfo, fratello dell’ucciso, e altri parenti massacrarono alcuni responsabili e i loro congiunti non ancora fuggiti, svuotando e incendiando le loro case.
Il corpo del M. fu seppellito la sera stessa nella chiesa di S. Francesco al Prato; solo il 18 marzo, come ricorda la Cronaca del Graziani (pp. 267 s.), furono celebrate le esequie solenni, cui intervennero la madre e la sposa, e in quella occasione nel palazzo del capitano del Popolo fu eretto un fastoso catafalco.
Si discute se il Guidalotti, di parte raspante come il M., compì l’azione di sua iniziativa o istigato dal papa: di certo crebbe nella considerazione di Bonifacio IX e della Curia. La morte tragica richiamò sul M. – vissuto di violenze, rapine e inganni – pietà e rimpianto. Goffo il tentativo di storici perugini campanilisti e anticlericali di accreditare il M. come difensore della libertà comunale contro l’invadenza pontificia.
Solo Sozomeno attribuisce al M. un figlio, certo naturale: il Guido dichiarato nipote di Ceccolino, il quale fu fatto prigioniero nella battaglia del luglio 1416, che rese Braccio signore di Perugia, e gettato nel 1419 dalla rocca di Narni.
Mezzo secolo dopo la morte del M., il 27 marzo 1448, una predica di fra Roberto Caracciolo contro la vanità dei nobili d’ornare le tombe familiari con distinzioni varie condannava la statua del M., «quale era a cavallo con una bachetta in mano, che stava nella capella sua de relievo» (Cronaca della città di Perugia …, p. 600), alla rimozione e alla dispersione in un «cimiterio» imprecisato. Certo frutto d’invenzione sono sia il ritratto del M. conservato nella Biblioteca Augusta, sia la scena del suo trionfo, dipinta nel 1874 sul sipario del teatro Morlacchi di Perugia.
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P.L. Falaschi