BIONDO Flavio
Nacque a Forlì da Francesca e da Antonio di Gaspare Biondi nel novembre o dicembre 1392. Il nome di famiglia, stabilito da più generazioni (cfr. la soscrizione "Blondus Antonii Blondi de Forlivio", in B. Nogara, tav. II; e la menzione di "avum... meum Gasparem Blondum",Hist., p. 366), fu tuttavia ripreso nel nome proprio "Blondus", da cui fu poi ricavata la designazione umanistica "Flavius", propria specialmente del periodo giovanile; "Blondus Flavius" fu la forma affermatasi, certo secondo l'intenzione dell'autore, nella tradizione manoscritta delle opere e, di qui, nelle antiche stampe. L'ipotesi di G. Mini (v. c. 30) di una discendenza dalla stirpe magnatizia fiorentina dei Biondi, banditi e trapiantati verso la metà del sec. XIV in Romagna, non appare inattendibile; e se la rivendicazione campanilistica di B. ai Biondi stabiliti a Castrocaro urta l'evidenza, nulla esclude che il ramo collaterale di Gaspare abbia parallelamente acquisito la cittadinanza forlivese (si noti il ricorrere nelle genealogie fiorentine relative dei nomi di Gaspare, Antonio, Biondo, ecc.).
Dotata di beni immobili, ma anche in difficili condizioni economiche (in una bolla di Niccolò V, 29 gennaio 1448, che sanziona la rinuncia dell'eredità, in favore di B., del fratello minore Matteo, sono ricordati i debiti lasciati dai genitori, pagati "ex eius laboribus et industria", cit. in G. Mini, c. 54), la famiglia non risulta dalle cronache come appartenente al novero dei maggiorenti cittadini; e la lacuna lasciata da Giovanni di Pedrino, là dove avrebbe dovuto indicarne la "parentela" (II, p. 397), nonché l'indicazione tardiva e senza altro riscontro del cronista forlivese di fine '400, A. Bernardi, "B. di Ravaldino" (Cronaca, Bologna 1895, p. 344), dovuta verisimilmente all'omonimia di un personaggio della nobile famiglia dei Ravaldini (cfr. Nogara, pp. XX s.), sembrano indicare che nell'ambiente forlivese già alla morte di B. il vero nome di famiglia fosse stato dimenticato. Motivo di distinzione familiare furono le capacità professionali del padre, il "providus vir ser Antonius Guasparini Blondi" (A. Zoli, p. 110), appartenente alla categoria di notai, cancellieri e amministratori che prestavano i loro servizi presso le comunità e corti signorili della Romagna. Lo troviamo presente alla corte di Rimini per le nozze di Galeotto Malatesta, fratello di Carlo, nel 1395; è inoltre attestata la sua funzione di "massaro" (tesoriere) del Comune di Bagnacavallo, "assumptum per magnificos dominos nostros de Polenta Oppizonem et Petrum fratres" negli anni 1402-06. Non senza rapporto, forse, con le benemerenze acquistate dal padre in questa, come presumibilmente in altre occasioni, è il privilegio, attestato per B. nel 1452, di "civis et habitator Ravenne"; e la sua fedeltà alla memoria degli antichi signori può essere indicata dall'aver egli acquistato, il 12 luglio 1455, il diritto di sepoltura per sé e la famiglia nel sepolcro dei Polentani nella chiesa di S. Pier Maggiore (v. S. Bernicoli; G. Mini, c. 64).
In quel di Bagnacavallo B., come si compiacque di ricordare, incontrò Alberico da Barbiano, impegnato nel recupero delle terre pontificie intorno al 1403 (Nogara, p. 171; A. Zoli, p. 116). Non senza influsso sulla sua opera e orientamenti futuri saranno gli eventi salienti del tempo: l'ascesa di Gian Galeazzo Visconti, di cui la Forlì di Pino Ordelaffi rappresentava una sorta di protettorato, esaltato poi da B. come meritevole del regno, con parole non dissimili da quelle del cronista forlivese (Annales Forolivenses, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XXII, 2, a cura di G. Mazzatinti, p. 78; Italia illustrata, p. 369; Nogara, p. 175); quindi il rapido sfacelo dello Stato visconteo e il disfrenarsi dei particolarismi e delle lotte faziose (fra cui la cacciata popolare di Cecco Ordelaffi nel 1405); le conquiste veneziane in terraferma, i cui echi giungendo in Romagna suscitavano nel 1405 un effimero tripudio a Forlì, alla voce di una possibile sottomissione (Chronicon f. Hieronymi de Forlivio, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XIX, 5, a cura di A. Pasini, p. 8); e infine l'energica opera per la restaurazione dello stato ecclesiastico del legato pontificio B. Cossa, entrato nel 1407 a Forlì, dove, a memoria del governo dell'Albornoz, rimaneva l'antico palazzo dell'erario, che, come ricorda B., "nos postea pueri ob facti memoriam invisere delectabat" (Hist., p. 370). La provenienza da un centro provinciale, ma politicamente nevralgico, e aperto perciò all'influenza dei maggiori stati, segnerà la carriera di B., e Milano, Venezia, oltre che, naturalmente, la corte romana, rappresenteranno i punti focali, così della sua vita come della sua opera storiografica; mentre, pur nell'affezione verso la piccola patria forlivese e in genere verso le terre della Romagna, e nei rapporti amichevoli, piuttosto che di natura cortigiana, intrattenuti con le piccole corti signorili, sembra essere rimasto estraneo a un municipalistico attaccamento al natio loco. Sintomatica al proposito è la radicata ostilità verso gli "archityrannuli" (Hist., p. 541) e le lotte faziose; e la riluttanza, che si nota nelle Storie, a chiamare per nome le divisioni di guelfi e ghibellini, indicate perlopiù come "partes", "studia partium" ecc., trova significativo riscontro nelle proibizioni di governanti energici, come l'Albornoz o i Visconti, di fare professione nelle città soggette di guelfismo e ghibellinismo. Per gli stimoli culturali che B. può aver ricevuto in patria, bisogna soprattutto guardare agli influssi dell'importante centro di Padova e della corte carrarese, dove si perpetuava e rinnovava l'eredità del Petrarca, in stretto contatto con il gruppo fiorentino, e in particolare alle personalità di P. P. Vergerio e Ognibene Scola, non a caso posti da B. alla testa del movimento culturale scaturito dall'insegnamento di Giovanni da Ravenna (figura che nelle sue pagine appare piuttosto emblematica, in omaggio alla patria adottiva, che concretamente storica, e in cui si confondono i due omonimi G. Malpaghini e G. di Conversino; v. It. ill., p. 346). Che il Vergerio, soprattutto, di cui sono noti i legami con la corte imolese, fosse stato un autore che aveva avuto per lui un particolare significato, lo testimonia B. stesso con ripetute menzioni nell'Italia illustrata, dove si compiace di citarne le lettere, e, a suo luogo, con un elogio insolitamente enfatico, "quod... supra saepenumero diximus, inter primos huius saeculi eloquentissimus" (p. 387; v. anche 345, 373).
B. seguì il corso di grammatica poetica e retorica del maestro cremonese Giovanni Balestrieri (cfr. It. ill., p. 362; si tratta di quello stesso "mº Zohane grande mº da la scola", che nel passo di Giovanni di Pedrino, I, p. 120, relativo al 1425, risulta godere di credito e notorietà a Forlì); né forse senza rapporto con la sua istruzione fu il passaggio per Piacenza, ricordato in It. ill., p. 358, in un periodo di poco successivo alle devastazioni del 1402-04. Qui, nonostante le gravissime devastazioni avvenute, era pur sempre la sede dello Studio generale, stabilito con privilegio su tutto il ducato da Giangaleazzo Visconti e che soltanto nel 1412 sarebbe stato trasferito a Pavia. Considerati anche i tradizionali rapporti scolastici tra Cremona, sede presumibile dell'insegnamento in quegli anni del Balestrieri, e Piacenza (cfr. F. Bartoli, Lo studio di Cremona, in Circolo di studi cremonesi. Atti e comun., I [1898], pp. 3-17), non sarà forse arrischiato supporre che in tale sede universitaria, cui erano annessi corsi di notariato, B. abbia conseguito il titolo: "publica auctoritate imperiali notarius ac iudex ordinarius"; né fa difficoltà la sua più tarda affermazione (Nogara, p. 130) di non essersi mai applicato allo studio professionale del diritto, essendo a quell'epoca la "practica tabellionatus" disgiunta dalla disciplina giuridica, e connessa, se mai, all'educazione grammaticale.
L'istruzione ricevuta in Lombardia, che in se stessa dovette avere una finalità piuttosto professionale che scientifica, fu per altro occasione di stabilire legami con esponenti della fiorente cultura viscontea. Ne sono indizio l'amicizia, attestata in età successiva, con membri della corte milanese come G. Corvini e P. C. Decembrio, e, ancora di più, la precisa conoscenza che B. dimostra di uomini e testi strettamente pertinenti all'ambiente, come per es. l'orazione "doctrina et rerum variarum copia redundantem" di Pietro Filargo, arcivescovo di Milano, per l'investitura ducale di Giangaleazzo (It. ill., p. 367). Né del resto a uno sconosciuto sarebbe stato affidato da copiare nel 1422 il codice ciceroniano di Lodi, nella quale impresa era impegnato il cremonese Cosma Raimondi.
Ben poco si sa del periodo trascorso da B. successivamente al ritorno in patria, all'incirca negli anni 1410-20. L'invito rivoltogli insistentemente da Muzio Attendolo, perché gli fungesse da segretario nelle Puglie (1412-13), suppone una notorietà acquisita, per servizi cancellereschi, o d'altra natura, presso comunità e corti locali; fra cui ricordiamo quella dei Malatesta di Rimini (la menzione relativa nell'It. ill., p. 242, testimonia di un'intrinseca conoscenza); quella, insediata a Castel Bolognese, di Bartolomeo Campofregoso e della moglie Caterina Ordelaffi, dei quali vanterà poi "l'amicizia e benevolenza" (Nogara, p. 61), e col cui figlio Giano rimarrà in corrispondenza, inviando una lettera di ammonimenti in occasione della sua nomina a doge di Genova (1448; la risposta in R. Sabbadini,Note umanistiche, pp. 301 s.); e, forse, quella di Mantova, dove nel 1410 Gian Francesco Gonzaga aveva sposato Paola di Malatesta dei Malatesti di Pesaro, della cui familiarità con B. sono testimonianza gli straordinari elogi con cui la ricorda nell'Italia illustrata (pp. 335, 361) e altrove (Nogara, p. 175).
I primi documenti diretti della sua attività culturale sono due note di possesso agli attuali mss. Vat. Ottob. lat. 61 (Liber B. forliviensis Dovadule habitus a ser Luca notario MCCCCXX; v. Nogara, p. XI); e Vat. Ottob. lat. 123 (Liber Blondi Antonii B. forl., quem habuit a M.ro Francisco ser Federici pro aliis libris sibi datis, Forlivii MCCCCXXI; v. G. Mercati,Codici lat. Pico-Grimani-Pio, Roma 1938, pp. 278 s.). Oltre l'interessante attestazione di un commercio librario fra notai e maestri di scuola locali, è notevole la seconda soscrizione, che lascia supporre un'attività scrittoria svolta da B., in apparenza confermata sia dalla sua scrittura dell'epoca, una semigotica "libera, svelta e corsiveggiante" (G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1954, p. 265), sia dall'inconsueta perizia nella decifrazione dei caratteri antichi, di lì a poco dimostrata nella trascrizione del codice ciceroniano di Lodi. Va inoltre rilevata la lettura filologicamente attenta del testo (v. gli emendamenti in Ottob. 123 [S. Agostino,Soliloquia], alle cc. 4r, 6r, 8r-v, 12v, 14v, 15r-v, 16r, 17v): un piccolo documento insomma di un'attività di studio perseguita così in ambiente illustre come umile, in un'applicazione continua e senza clamore, segno di un puntiglioso e indipendente impegno personale.
Dell'ottobre 1420 è l'episodio dell'incontro di B. con Guarino, che ne trasse impressione entusiastica ("quantus litterarum ardor, quantum ingenium!") e lo accolse nella sua amicizia (Ep., I, p. 306). B. era venuto a Verona presentato dall'umanista e patrizio veneziano, A. Giuliano, cui è diretta la lettera cit. di Guarino, 15 ott. 1420. Sappiamo ora per altra via (cfr. S. Troilo,Andrea Giuliano..., Genève-Firenze 1932, pp. 34-36) che nell'autunno di quell'anno, all'incirca fra agosto e novembre, il Giuliano aveva soggiornato a Mantova per sfuggire alla pestilenza. Argomento allora di discussione fra il Giuliano, Guarino e B. stesso era lo scritto indirizzato da Guarino a L. Migliorati nel settembre 1420, "eane vocanda sit oratio an epistula quam ad Ludovicum imperatorem dedi" (Ep., cit., p. 307). Quest'ultimo, capitano al servizio di Carlo Malatesta, e allora in procinto di affrontare il Carmagnola, come ricordato in Hist., p. 399, "venit... in Mantuanos", dove verisimilmente ricevette l'epistola-orazione di Guarino, che appunto lo felicita di avere in tal modo evitato il transito per il Veronese (Ep., I, pp. 300-03). Ciò giustifica il particolare interesse degli amici umanisti al soggetto, e costituisce un indizio di come B. avesse occasione di frequentare l'ambiente mantovano, dove si può supporre poté conoscere il Giuliano e per tale via accreditarsi presso Guarino. Dai rapporti col Giuliano, scolaro di G. Barzizza, e con Guarino B. fu indotto allo studio di Cicerone, prendendo da loro a prestito i commenti alle Orazioni di Cicerone di A. Loschi e di Asconio Pediano. Al Barzizza e agli studi ciceroniani riporta pure il già menzionato episodio di poco seguente, quando B., venuto a Milano nell'ottobre 1422 "publicis patriae tractandis negotiis", trasse copia del Brutus per Guarino e per L. Giustinian (oltre che, beninteso, per se stesso, cui rivendica l'appartenenza del codice, ora Vat. Ottob. 1592), parte dall'apografo eseguito per conto del Barzizza, parte direttamente dall'antico esemplare di Lodi. Insieme egli copiò l'allora recentissimo De militia di L. Bruni, episodio che rappresenta la sua prima presa di contatto a noi nota con un autore poi particolarmente influente su di lui, relativamente a un'opera dove, nella comparazione di istituti antichi e recenti, appaiono tracciate le linee da cui si sarebbe sviluppata la ricerca storico-antiquaria.
Già inserito nelle linee maestre dell'umanesimo settentrionale, B. trasse ulteriore beneficio dall'allontanamento forzato dalla patria nel 1423. Il bando, menzionato per la prima volta in lettere di Guarino dell'estate 1423 (Ep., I, pp. 372-75), coincide verisimilmente con la sommossa, guidata il 14 maggio dai principali cittadini forlivesi, contro il governo di Lucrezia Ordelaffi e degli Imolesi, che aprì le porte alla diretta ingerenza viscontea. Quale fosse la parte avuta da B. rimane oscuro. La spiegazione più probabile è che egli, piuttosto che per la partecipazione alle fazioni cittadine, si sia compromesso per i servizi prestati ai suoi signori, di cui è esempio l'ambasceria milanese (forse riconoscibile in quella, menzionata da Giovanni di Pedrino, I, p. 70, per chiedere un presidio al duca, contro le mire di Caterina Ordelaffi). È inoltre indicativo che subito dopo il bando si sia rifugiato a Imola (v. Guarino,Ep., I, p. 374). Appare tuttavia inesatto attribuire l'esilio a uno spirito anti-visconteo, mostrandosi B. nelle Storie altrettanto ostile alla fazione filo-fiorentina, su cui Lucrezia fu indotta ad appoggiarsi ("quibus fideret civium abiectioribus consilia credere coepit", p. 403), che i cronisti forlivesi coevi. Il decreto di bando gli fu revocato per disposizione ducale nell'ottobre 1425.
Entro lo stesso 1423 B. sposò la concittadina Paola di Iacopo Maldenti (v. A. Pasini, nota a Giovanni di Pedrino, I, pp. 485 s.), da cui ebbe poi dieci figli.
Vagante dapprima fra Imola e Ferrara, accreditato da Guarino e dalla sua cerchia (egli ricorda l'amicizia del giureconsulto veronese M. Maggi,It. ill., p. 376), B. entrò presto al servizio dei magistrati veneziani di terraferma. Segnalatosi alle dipendenze di F. Barbaro, podestà di Treviso nel 1423, lo seguì a Venezia, e fu quindi suo segretario nella podesteria di Vicenza (1424-25). In questa occasione, su istanza di F. Barbaro, gli fu concessa, insieme al fratello Matteo e ai legittimi discendenti, la cittadinanza veneziana "pro gratia de intus", per decreto del Maggior Consiglio, II nov. 1424 (documento cit. in G. Mini, cc. 4, 38, 68; v. lettera di F. Barbaro a N. Barbo, 25 maggio 1453, in A. M. Quirini, p. 305). Raccomandato nell'ott. 1425 a F. Barbarigo, capitano a Padova, non è accertato che accettasse l'impiego, pensando allora al ritorno in patria per lo scadere del bando ("Flavio locum ita cessit ut alia longe ei mens sit quam Patavium petere", Guarino,Ep., I, p. 496). Tuttavia egli era ancora al servizio veneziano dopo l'intervento della Repubblica nella guerra contro Milano. Nell'aprile 1427 è segretario al campo di P. Loredan, provveditore a Brescia, con cui collabora nella difesa militare della città. Ancora a Brescia nel giugno, aspirava al ritorno in patria, dove nel 1426 il governo della Chiesa era pacificamente subentrato a quello visconteo, e aveva perciò bisogno dell'autorizzazione dei magistrati veneti (in tal senso vanno interpretate le raccomandazioni di Guarino al capitano di Brescia, N. Malipiero,Ep., I, pp. 574 s.). Nel settembre era finalmente a Forlì, dove veniva assunto al servizio del governatore ecclesiastico D. Capranica.
Questa data segna la conclusione di un periodo della vita di B., del quale sono pure notevoli le notizie degli studi compiuti, giovandosi della circolazione e divulgazione di testi, di cui Guarino, era promotore. Lo vediamo così disporre di Plutarco,De liberis educandis, tradotto da Guarino (Ep., I, p. 375); delle Epistulae di Plinio, di cui trae copia (ibid., pp. 387, 473); degli Academica posteriora di Cicerone; del De doctrina christiana di s. Agostino (p. 465); di Giustino, di cui collabora con Guarino al restauro del testo (p. 469); e infine del De legibus di Cicerone. Circa la menzione di Guarino di un "inauditum ... opus de Caesaribus" (Ep., I, p. 374), a lui segnalato da B., l'identificazione del Sabbadini con i Caesares di Aurelio Vittore è stata contestata, sia per ragioni di tradizione testuale, sia perché non si ritrova altro indizio dell'uso di questo testo in B. (v. A. Momigliano,Secondo contributo..., pp. 182 s.). Da Guarino B. dovette pure essere invogliato allo studio del greco, come indicano termini greci talvolta intercalati nelle lettere (v. Ep., I, pp. 355, 373 s.)., ma tale applicazione rimase, come B. ammette (Hist., p. 43), di scarso profitto, anche se mai interamente abbandonata.
Se importanti, forse decisive, furono le acquisizioni culturali derivate dalla consuetudine con Guarino, non può dirsi per questo che dal maestro veronese ricevesse un più preciso indirizzo di studi e di opere, né che i rapporti di amicizia assumessero il carattere di un sia pur libero discepolato. In modo analogo le benemerenze acquisite presso esponenti del patriziato veneto non lo indussero a rinunciare alla propria libertà di movimento e di scelta, per un più stabile e politicamente responsabile impiego ai servizi della Repubblica. Alla partenza del Capranica da Forlì (gennaio 1430), le mire di B. erano ormai rivolte alla carriera curiale. La lettera di F. Barbaro che ce ne informa (22 giugno 1430, per invitarlo come segretario a Bergamo) è anche notevole per il patronato da questi rivendicato su B. e sulle sue decisioni future: "In qua re [sc. profectio in curiam romanam] ego fortunae tuae consulam, tu vero habebis rationem dignitatis meae" (Nogara, p. LV, n.). Quale fosse la sua destinazione negli anni 1430-31 si ignora; ma l'impegnativa funzione di segretario di G. Vitelleschi, governatore della Marca d'Ancona dal marzo 1432, in un periodo particolarmente denso di torbidi, attestata fino al 16 dicembre, presuppone un tirocinio curiale in veste non ufficiale, forse in coincidenza con il pontificato del veneziano Eugenio IV (3 marzo 1431). Verso la fine del 1432 B. era richiamato a Roma e nominato notaio della Camera apostolica, importante ufficio esecutivo delle deliberazioni politiche e amministrative della Chiesa. Quando, al principio del 1434, fu nominato segretario pontificio, cumulando i due uffici e mantenendo una particolare attinenza con il camerlengo, allora F. Condulmer, parente del papa ("Camere apostolice notarius, ss. d.ni nostri et camerarii secretarius", Ottenthal, p. 231; nel 1436 entrerà anche nella cancelleria come scrittore delle lettere apostoliche), egli era ormai divenuto uno dei più fidati collaboratori di Eugenio IV, facilitato in questa rapida ascesa dalle condizioni critiche in cui versava il suo pontificato, per il contrasto con il concilio di Basilea, la defezione dei cardinali e la disgregazione dello Stato ecclesiastico. Inviato nel febbraio a Bologna e nella Romagna - dove intimava a Guidantonio Manfredi la restituzione dei castelli occupati nell'Imolese -, agì quindi a Venezia come mediatore nella condotta stipulata dalla repubblica con Gattamelata da Narni, già al servizio pontificio, in un delicato gioco diplomatico, atto ad accordare gli interessi veneti con quelli del papa, impossibilitato d'intervenire direttamente, e in particolare a garantire la fedeltà di Bologna. Tornò in tempo per stipulare il patto di Calcarella con F. Sforza (25 marzo; i termini del trattato furono concordati, insieme a B., dal vescovo di Tropea, N. Acciapacci; opera di B. furono invece i successivi patti di condotta - "meo adinventa et excogitata ingenio", Nogara, p. 171 -, trattati a Todi e stipulati a Firenze, 29 novembre 1434, in L. Osio, III, pp. 120 ss.). Nel maggio B. era nuovamente a Venezia con l'Acciapacci, per vincere la riluttanza della Signoria a versare un contributo di denaro per la condotta dello Sforza (Eroli, p. 287); di ritorno, in giugno, fungeva da intermediario fra Venezia (di cui appare godere la fiducia, ibid., p. 273) e il governatore ecclesiastico di Bologna, la cui politica di attesa di fronte alla minaccia viscontea aveva allarmato il Senato. Ribellatasi Bologna, per il prevalere della fazione filomilanese dei Cannetoli, egli partecipò, apparentemente con funzione di commissario di campo, allo sfortunato tentativo dei capitani veneziani di recuperare la città e le rocche romagnole (Hist., p. 480). Rientrato nella Curia, ora riparata a Firenze, lo vediamo assistere il papa e il camerlengo negli atti fondamentali, spirituali e politici, del pontificato. Tra gli estensori del trattato di pace del 16 agosto 1435, e della susseguente bolla, 26 gennaio 1435, che lo denuncia (Libri commemoriali, IV, pp. 191, 202), svolse un'attività particolarmente intensa durante la preparazione e lo svolgimento del concilio di Ferrara-Firenze.
Il 20 luglio 1437 egli autentica l'accreditamento dell'imperatore e del patriarca degli inviati greci G. Bissipato e E. Tarcagnota (Conc. florentinum, I, fasc. I, pp. 84 ss.); l'anno stesso presenzia alle riunioni del Concistoro, dando lettura delle dichiarazioni di Eugenio IV, e delle bolle di convocazione del concilio e di condanna dei Basileesi (ibid., III, fasc. 2, pp. 31 s.); redige in nome del camerlengo i capitoli con Niccolò III d'Este e quindi con la Signoria di Firenze per il trasferimento del concilio nelle rispettive sedi (ibid., III, fasc. I, pp. 17 ss., 50 ss.); sottoscrive, o redige, il decreto di condanna del concilio di Basilea, 4 sett. 1439, e quindi il solenne anatema dei principi conciliari indirizzato da Eugenio IV all'università di Montpellier, 21 apr. 1441 (ibid., I, fasc. 2, pp. 101 ss.; fasc. 3, p. 35); sottoscrive infine, solo fra i segretari, la "Bulla unionis Graecorum" (ibid., I, fasc. 2, p. 77; Hist., p. 551; v. Conc. fl., III, fase. I, p. 79, per lo speciale versamento della Camera apostolica a B. per tale atto), e così pure quelle susseguenti di unione dei Copti (4 febbr. 1442) e dei Maroniti (7 ag. 1445; ibid., I, fasc. 3, pp. 63, 65, 105). Il 31 ag. 1441, presentatosi al concilio l'abate Andrea, inviato del patriarca nestoriano Giovanni XI, ne tradusse il discorso, volgarizzato dall'originale "ydiomite Syrorum", in eloquente latino (testo ibid., III, fasc. 3, p. 62).
Tra gli atti seguenti si distinguono le istruzioni diplomatiche, "date... per me Blondum, de mandato S.D.N. Eugenii IIII, cuius Sanctitas eas viderat et relegaverat, 1442 22 maii", per la legazione al re di Francia di Pietro del Monte, vescovo di Brescia, intimanti il ritiro della prammatica sanzione e dell'appoggio al concilio, e preludenti all'abbandono del sostegno papale a Renato d'Angiò nel Regno di Napoli (testo in A. Lecoy de la Marche, II, pp. 245 ss.); e si possono pure menzionare i sondaggi sulla disposizione dei Bulgari verso il cattolicesimo e la crociata, probabilmente nel 1443 (v. Nogara, p. 44: "quae mihi dudum pro magno Eugenio agenti exploratissima fuere"). Vicino a Eugenio IV fu pure in una delle sue attività peculiari, la riforma e riorganizzazione dei conventi. Ciò risulta non solo dalle frequenti soscrizioni di bolle e brevi relativi (un es. significativo in Libri Commemoriali, IV, p. 276), ma specialmente dalle commendatizie a lui indirizzate da F. Barbaro (28 luglio 1435, per i gerolimini di Verona), e Alberto da Sarteano (20 genn. 1446, per l'istituzione di un Ordine di clarisse a Brescia). Profittando della posizione, B. promosse la carriera ecclesiastica del fratello Matteo (v. bolla di Niccolò V, 29 genn. 1448, cit., sui benefici conseguiti "ex procuratione, industria et sollicitudine prefati Blondi"), dapprima assicurandogli la pieve di S. Reparata a Castrocaro, non senza una delicata vertenza con la Signoria di Firenze (bolla di Eugenio IV, 7 apr. 1435, cit. in G. Mini, c. 54), e quindi facendolo nominare, consacrato monaco benedettino, abate di S. Maria della Rotonda a Ravenna (bolla di Eugenio IV, 24 nov. 1440, cit. in G. Mini, c. 51), occupandosi anche, "propriis pecuniis", del restauro degli edifici (bolla di Niccolò V, cit.).
Segno dell'influenza acquistata in Curia da B. sono ancora richieste di raccomandazione di personaggi eminenti, quali il legato apostolico in Inghilterra, Pietro del Monte (lett. a Marco da Pistoia, 13 ag. 1440, per essere richiamato; v. J. Haller,Piero da Monte, Roma 1941, p. 177) e il cancelliere del re d'Inghilterra, Thomas Bekynton (lettera del 27 apr. 1441 per ottenere il vescovado di Bath; v. Official Correspondence, p. 172). L. Bruni, inoltre, trovava in lui la persona idonea, per posizione e congenialità di intenti, per accreditare la dedica a Eugenio IV della versione della Politica di Aristotele (v. anche risposta di B., 8 marzo 1437: "Non parvi etiam erit faciundum, qua re nostros fortassis aliquando superstitiosos cum gentilium philosophis in gratiam redire facies", Nogara, p. 94).
Né ciò andava senza suscitare inimicizie, dentro e fuori la Curia, sia per motivi di rivalsa politica - come il sequestro dei suoi beni, ordinato nel 1434 dal signore di Forlì, Antonio Ordelaffi, per essere egli "bono servidore" di papa Eugenio -, sia anche per ragioni più personali, favorite da certa sua rigidezza di carattere e consapevolezza di sé ("troppo spiacevole", appariva a un postulante fiorentino; ed egli stesso, in diversa occasione, attesta come gli venissero rimproverate "tum elationem, tum rusticitatem"; v. G. Mancini, p. 200; Nogara, p. 193). L'autorità acquisita da B. e insieme le insofferenze suscitate appaiono da un documento, risalente agli anni 1436-37 del soggiorno della curia a Bologna: "...indomita cervice ferox,... ordinas et disponis... Nunc autem domina ambitio ad crimen ariolatus et ydolatrie per inobedientiam te compellit" (Mathias dei gratia Linconiensis filius regis Anglie Blondo s.d., Bergamo, Bibl. Com., cod. Δ, V, 25, c. 48 r-v; dal contesto il personaggio appare agire come procuratore della Chiesa a Parigi e Oxford, ed aspirare, mediante i buoni uffici che B. avrebbe promesso e non mantenuto, a un beneficio che lo liberasse del gravoso incarico).
A simili accuse, indipendentemente dalle beghe che potevano occasionarle, non doveva esser disgiunto il proposito di colpire l'altro, fondamentale aspetto della personalità di B., quello dell'umanista. Salito nella carriera curiale attraverso un tirocinio essenzialmente politico, B. aveva trovato nell'ambiente di Firenze l'occasione propizia per un'affermazione autonoma. Autore in precedenza di piccole composizioni, destinate a non uscire da una cerchia di amici (a certi suoi versi allude un epigramma anonimo: Flavio vati historico claroque, 1437 c.: "Iam legi quam dulcis sit tibi fistula", Brescia, Bibl. Com., cod. A, VII, 7, c. 191v), ora poteva non solo collaborare a imprese rilevanti, come gli emendamenti a Livio, patrocinati dal card. Prospero Colonna, ma soprattutto misurarsi con gli umanisti fiorentini, in particolare con il più illustre, L. Bruni, cogliendo i frutti di una lunga preparazione, forse più eclettica, ma anche più vasta e meditata. Ciò è palese sin dal suo primo scritto importante, il trattatello De verbis romanae locutionis (1º apr. 1435), sorto da una discussione tra segretari apostolici, e in cui B. sceglie come interlocutore il Bruni.
Contro la supposizione di questi e di altri (C. Rustici, A. Loschi) della sussistenza di un bilinguismo di dotti e indotti, "ut nunc est", nell'antica Roma, B., appoggiandosi su di una serie di testimonianze di fatto (specie dal Brutus ciceroniano), nonché sull'osservazione di sopravvivenze dialettali latine, afferma la sostanziale unicità della lingua, concepita quale stabile istituzione dello stato romano, e quindi corrottasi soltanto con le invasioni barbariche. Ma più che nella tesi in se stessa, una singolare originalità è dimostrata nella coerenza metodica di attenersi a un ordine di argomentazioni storiche e documentarie, in piena indipendenza dalle nozioni scolastiche, grammaticali e retoriche, che avevano non poco contribuito a confondere i termini della discussione. Per questo appaiono importanti la distinzione fra gradi differenti di cultura e di proprietà di linguaggio e i tre tradizionali stili della retorica (Nogara, p. 125), e quella analoga fra grammatica intesa come scienza, e grammatica come proprietà comune di ogni linguaggio (p. 128). Lo scritto è altresì significativo nell'economia della produzione complessiva di B., come scoperta consapevole di un campo autonomo di attività rispetto alla ricerca della "eloquentia", valore precipuo degli "humanitatis studia". L'insufficienza stilistica stessa, da B. confessata (p. 116), non è in realtà che un adeguamento, in una studiata e caratteristica complessità espressiva, all'inconsueta preoccupazione di motivare e soppesare i giudizi, di tener conto, per quanto possibile, dell'insieme dei dati relativi alla questione in esame. Carattere infine già qui ravvisabile, e comune poi ai suoi lavori maggiori, è la tendenza ad allargare l'ambito dell'indagine, per cui il risultato conseguito diviene spunto per nuova ricerca, vale a suggerire audaci e precorritori, se non sempre realizzabili, temi di studio. Alla questione della lingua B. pensava ancora nel 1445, proponendo al benedettino Girolamo Aliotti come a sviluppo del suo trattatello, l'argomento inedito di una storia della latinità corrotta fino alla recente rinascita ("ut declinationem linguae latinae postquam fluere in deterius coepit eiusque propagationem a paucis retro annis... adgrediar scribere", in H. Aliottus, Epistolae et opuscola, Arezzo 1769, I, p. 148). E basterà accennare alla continuità di simili interessi nelle Decades, nell'Italia illustrata, nella Roma triumphans, dove il fatto linguistico appare compiutamente risolto nella sua realtà storica, istituzionale, consuetudinaria.
Nel 1435 o poco oltre B. poneva mano a una più ampia impresa, le storie del suo tempo. Quella dello storico era per lui vocazione antica ("ab ipsa adolescentia", come egli ricorda; v. Nogara, p. 31); ma ciò che lo indusse a darle forma fu ancora l'esempio di L. Bruni, allora impegnato nella stesura delle Storie fiorentine, non a caso ricordate nel De verbis rom. locutionis; né ovviamente meno determinante era la capacità di personale indipendenza e di accertamento dei fatti, che gli aveva garantito l'alta posizione in Curia. Cominciando dalla morte di Martino V (l'attuale libro V, decade III, v. Nogara, pp. 103, 146), e progettando un ordinamento per "decennali", egli rendeva nota una prima parte in quattro libri nella primavera 1437; tra i primi a prenderne visione furono F. Barbaro, il vecchio segretario e diplomatico di F. M. Visconti, Giovanni Corvini, e Leonello d'Este. Informa di questa prima fase del lavoro l'epistola indirizzata a B. da Lapo di Castiglionchio, Bologna, 10 apr. 1437 (Vat. Ottob. lat. 1667, cc. 208v-217r), importante anche perché, in forma encomiastica, lo scrivente ripete le idee programmatiche che aveva udito da B. stesso.
La disciplina storica, nonostante il suo grande pregio, era andata trascurata dai moderni, ed era quindi tanto maggior merito applicarvisi, che non alle tradizionali scienze della filosofia, geometria, musica e astrologia. Vero è che Leonardo Aretino l'aveva trattata da par suo: "tamen is patriae tantummodo res gestas complexus est", mentre B. aveva colmato la lacuna, narrando i fatti "ex universa Italia", con proposito di giovare non soltanto agli eruditi, "verum etiam multitudini". Tendenza moderna era di rivolgersi esclusivamente alle cose antiche, dove era vano gareggiare con i grandi autori, mentre B. aveva ritenuto altrettanto degni i fatti moderni, "si quis in lucem proferre vellet", rivolgendosi così "ad ea illustranda", "ut intelligerent homines huius aetatis si qua strenue recteque aut contra nequiter et perperam facerent, ea non modo vivos latere non posse, sed etiam nota posteritati fore". Infine, in ossequio al principio della veridicità della storia, aveva scrupolosamente vagliato le testimonianze: "Nam et plerisque ipse... interfuisti rebus gerendis, et quibus minus interfuisses, eas investigando et percunctando ab his apud quos gestae essent didicisti, e quibus locupletissimis testibus niterentur pro veris probasti, quae vero sermonem vulgi auctorem rumoremque haberent, ut falsa ac ficta omisisti". E ancora, attuando i classici precetti ("ordinem temporum, locorum descriptiones, tum consilia, acta, eventus"), particolare cura aveva prestato nel rispettare le ragioni dei singoli, "unicuique servata personarum dignitate". L'Italia aveva così trovato il suo nuovo storico, "inter veteres illos praestantissimos rerum scriptores non immerito collocandus".
In un secondo tempo, scartato il piano dei decennali, B. dava nuova disposizione alla materia, che si era ampliata, prendendo come punto di partenza il principato di Filippo Maria Visconti (1412), e, con procedimento a lui caratteristico, elinunava dalla circolazione la parte dapprima composta ed edita. Nel 1440 erano pronti nove libri (non però ancora definitivi), mentre un decimo, poi soppresso, comprendeva "multa... vetustissima veteribus ac novis immixta historiis" (Nogara, p. 104), segno di un'esuberante erudizione, incapace di tenersi nei limiti dei precetti storiografici. Il lavoro di revisione e completamento si protraeva fino al principio del 1443, quando erano distribuiti 11 dei 12 libri composti, con scrupolo di sottoporli a personalità politiche e culturali delle principali capitali: Guarnerio da Castiglione e P. C. Decembrio a Milano, F. Barbaro a Venezia, L. Bruni a Firenze, e infine a Leonello d'Este, che aveva patrocinato fin dal principio il lavoro.
A quest'epoca era già incominciata la nuova parte dell'opera, "ab inclinatione romani imperii", di cui inviava i primi 8 libri ad Alfonso d'Aragona (giugno 1443), accreditato da P. C. Decembrio e dal Valla, e in concorrenza, ancora una volta, col Bruni, suo costante termine di paragone, che l'anno precedente aveva inviato al sovrano il suo De bello italico adversus Gothos ""nihil plus habet quam Procopius",Hist., p. 43). Il nuovo disegno - anche se non va presa alla lettera la giustificazione a posteriori di B., di avere cominciato "praepostero ordine" per timore di non giungere a narrare i fatti recenti (lett. al re Alfonso, 13 giugno 1443 Nogara, p. 148) - fu concepito abbastanza precocemente, probabilmente prima del 1440, se egli afferma di essersi procurato Procopio direttamente da qualche dotto bizantino ("nostra industria nuper habuit Italia",Hist., cit.), prima che il Bruni si accingesse alla riduzione latina. Tracce del lavoro preparatorio sono in Vat. lat. 1795, sec. XIII-XIV, silloge di cronache medievali (fra cui, Gesta regum francorum, Paolo Diacono,Hist. Langobardorum, Roberto Monaco,Hist. gestorum in concilio claremontensi), che dai fogli di guardia, contenenti annali cittadini di fine sec. XIV, appare di provenienza forlivese; e le numerose postille autografe, di tempi diversi e relative anche a testi non adoperati (come Darete Frigio), lasciano pensare a un interesse più antico rispetto alla composizione delle Storie.
Non si trattava, dal punto di vista di B., di un salto qualitativo rispetto al primitivo programma, bensì dello sviluppo dell'idea affermata nell'epistola di Lapo, di coprire il campo lasciato aperto dagli scrittori antichi, a cui ora si ricollega dal punto stesso in cui cessava il loro racconto, indottovi indubbiamente dalle buone accoglienze ricevute e dal sentimento sempre più alto del valore della propria opera. Tuttavia egli non poteva tacere, in sede di introduzione, dei problemi affatto nuovi di composizione e struttura che gli si erano presentati (discontinuità di narrazione, ricorso a testi inadeguati e alla testimonianza di scrittori "etiam aliud quam res gestas dicere intendentium",Hist., p. 4). L'ambito stesso dell'opera rimaneva incerto: da una parte era la storia dell'"inclinatio" imperiale, e della relativa sequela di sventure; dall'altra l'interesse si volgeva alle origini e vicende dei popoli moderni, in particolare d'Italia, verso cui la narrazione doveva convergere. Divulgando nel 1446 un'edizione provvisoria dei primi 11 libri, in una lettera a un prelato (probabilmente Ermolao Barbaro) B. insisteva sull'aspetto, diciamo, negativo dell'"inclinatio" (v. lett. di B., 1446, Nogara, pp. 161 s., importante anche per la discussione sostenuta sulle ragioni della durata e decadenza dell'impero, intorno a cui il corrispondente avrebbe voluto un maggiore ossequio alle concezioni agostiniane); in una epistola dedicatoria inedita, di poco seguente, a Leonello d'Este, l'accento batte invece sulla varietà inopinata e istruttiva dei casi posti in luce (Modena, Bibl. Est., cod. Lat. 237, memb., 1446-47; contiene 11 libri e parte del dodicesimo; risulta di qui come non fosse ancora contemplato l'ordinamento per decadi).
Solo nel 1453, o poco prima, l'opera era compiuta ed edita, con il titolo Historiarum ab inclinatione romani imperii decades (decade I, dal 412, - data posta per il sacco di Roma di Alarico del 410, forse per gusto di artificiose concordanze cronologiche - al 754; decade II, fino al 1402; decade III, 1412-1439; decade IV, libri I-II, 1440-41; l'ultimo libro era annesso all'edizione per quanto incompiuto, tanto da non essere compreso nella prima distribuzione delle Storie contemporanee nel 1443).
Nonostante le sproporzioni evidenti, si trattava pur sempre per B. di un testo unitario, nell'idea a lui cara del grande corpo storico in cui i popoli moderni potessero imparzialmente riconoscersi, e nella cui attuazione egli vide con orgoglio uno dei maggiori motivi di gloria della sua epoca (It. ill., p. 350). Le linee direttive sono quelle indicate dalle concezioni umanistiche, così per l'oggetto di indagine - le tradizioni romane, l'Italia, l'Europa civile o Cristianità occidentale -, come per il sentimento della rinascita e l'impegno culturale che ne consegue. In ciò la frattura con la concezione ancora vigente della storia universale non potrebbe essere più netta. La discussione sopra menzionata su s. Agostino mostra come la massiccia impresa storiografica di B. non andasse esente dal proporre delicati quesiti filosofici, e come tutt'altro che pacifica fosse una sua completa accettazione. In effetti per B. il problema di un rapporto con la concezione biblico-provvidenzialistica neppure sussiste. Per quanto egli possa menzionare miracoli e appellarsi al volere divino, la sua rimane essenzialmente una storia positiva di fatti, personaggi, istituzioni umane, nel termine costante di paragone con la più maestosa delle istituzioni umane, l'impero romano (su questo punto, v. in particolare Nogara, p. 162). La discussione stessa sulla "inclinatio", dove distinguendo il "principium" - irruzione dei Goti - dalle "causae" dell'avvenimento può accantonare, pur riferendole, sia la spiegazione "repubblicana" del Bruni, sia quella etico-religiosa di Orosio, è istruttiva, ed esclude l'ipotesi (S. Mazzarino, pp. 78 s.) di un'incidenza nel termine di concetti biblici. Privo di un autentico sentimento provvidenzialistico, B. è ugualmente poco disposto a concedere alla fortuna: al centro della sua storia è un robusto senso della capacità e responsabilità umana, che si traduce talvolta in duri giudizi verso chi ne prescinda (per es. addita l'errore di Filippo Maria Visconti nel licenziare il Carmagnola, "ut qui ingentes rerum moles mirandum in modum vel attollere vel deprimere fortunam culpamus, alieno id errato quam coeco, ut ferunt, versatilique illius ductu saepius fieri intelligamus", p. 419; lo spunto è suggerito dalla fonte usata, il cronista milanese A. Biglia: "eodem tempore... fortuna aliud signum dedit", in L. A. Muratori, Rerum Italic. Script., XIX, Mediolani 1731, col. 74). Da buon umanista, B. non manca di assegnare un fine propedeutico alla storia; tuttavia egli evita studiatamente l'accezione retorico-moralistica, intendendola essenzialmente come scuola di prudenza politica, donde anche la dignità rivendicata allo storico di fronte ai potenti (v. dedica cit. a Leonello d'Este, e anche le modificazioni recate al Proemio dapprima scritto da F. Barbaro per l'Italia illustrata: questi encomia la storia, "propter singularem utilitatem quam habet privatim et publice ad bene beateque vivendum"; B.: "prudentia et exemplorum copia gerendis imperii rebus"). Nel contesto della narrazione si ravvisa una certa rigidità di valutazione etica, o per giudizio acquisito (per es. su Bonifacio VIII), o per motivi di avversione personale e politica (per es. riguardo al Vitelleschi); né son evitati termini convenzionali di riprovazione, come "perfidia", "iniquitas", ecc. (per es. verso le città ribelli al papa, o più generalmente verso i "nemici del nome latino": gli imperatori tedeschi e quelli bizantini, per non dire dei "barbari", dei saraceni e dei turchi). Ma confrontando d'altra parte le Storie di B. con le cronache, antiche e contemporanee, con cui si trova a che fare, si ha la misura di quanta parte dei consueti moralismi sia da lui deliberatamente bandita. Le passioni e le rivalità umane vengono accolte come dato di fatto, di cui lo storico deve tener conto. Tale appunto è il pregio delle "universale historie" su quelle "particulare", "perché la natura de li homini è sempre stata de havere invidia et vuluntiera supprimere laude d'altri, in tanto che fradelli l'uno de l'altro et figliuoli, che li parà valere, de padri occultano la gloria" (Nogara, p. 211). Di qui anche lo studio, caratteristico nelle Storie contemporanee, di prescindere dagli intenti propagandistici, di cui era intessuto il materiale documentario adoperato. Ed anche nel caso isolato del solenne encomio di F. Barbaro, difensore di Brescia nel 1439 (sollecitatogli dallo stesso interessato, con l'invio dei commentarioli di E. Manelmi, suo segretario, da cui B. dipende; cfr. E. Manelmi,Commentariolum de obsidione Brixiae, Brescia 1728, p. 13; Hist., p. 547), egli risolve la propaganda del magistrato veneto su di un piano più generale, come modello del buon governo di un saggio, "ut intelligant hoc exemplo populi quanta sit foelicitas sapientes viros et bonis praeditos artibus publicis praefectos esse muneribus" (p. 547).
A informare i giudizi di B. è essenzialmente il comune clima di opinione formatosi nella sodalità umanistica; così per es. nella condanna della milizia contemporanea, che ripete uno spunto di L. Bruni (pp. 394, 488); o, contradittoriamente, nel compiacimento per la sud periorità delle razionali tecniche di guerra degli Italiani rispetto al "furore" dei transalpini (es. p. 469); o ancora, in altro campo, nel caratteristico atteggiamento di sufficienza verso il clero contemporaneo, ignaro dei suoi doveri (es. p. 435; Hay, p. 121). Motivo di fondo del racconto, come di tanti altri testi contemporanei, è l'aspirazione pacifista. Storico in larga misura di battaglie, a un certo punto B. lamenta di aver speso troppe parole, "pro parva rerum dignitate", nelle interminabili guerre che affliggevano da un capo all'altro l'Italia (p. 514). La stessa storia dell'"inclinatio" è in primo luogo quella di uno stabile e pacifico assetto lacerato per catastrofe da una serie di sventure, fino alla pressoché completa estinzione. Correlativo è quindi l'ideale di un'effettiva autorità di governo, che valga a proteggere dai tirannelli, dalle lotte faziose, dalle invasioni esterne, e a incrementare le ricchezze e le buone arti. In tal forma è presentato, per bocca del legato veneto, il principato di Filippo Maria (pp. 422 ss.); biasimevole di contro gli appare la situazione del Napoletano, conteso da due re in balia dei rispettivi baroni, e sul disonore di tale "potentatus exilitas" B. prova persino ritegno ad indugiare (pp. 569, 497, 552). Proiettato nel passato, lo stesso ideale è riconosciuto, non senza influenza sulla storiografia futura, in personaggi come Teodorico e Carlo Magno, o in papi come Gregorio Magno e Adriano I (pp. 111, 154 s.).
Si comprende di qui che, come storico del passato - non diciamo medioevo -, B. è svincolato da tradizioni ideologiche e cronistiche, intendendo anzi, storiograficamente parlando, inaugurare una tradizione nuova. L'impero all'incoronazione di Sigismondo è giudicato ormai "collapsum" (p. 469); ma già la fatidica deposizione di Romolo Augustolo gli suggerisce i termini di "imperii romanorum non magis inclinationem quam occasum" (p. 30). Procedendo oltre, la "translatio imperii" gli pare convalidata non soltanto dall'investitura papale, ma dai suffragi dei popoli di tutt'Italia (p. 184). Non per questo perde di vista l'impero orientale, e i contrasti tra questo e quello d'Occidente sono ritenuti causa prima "inclinantis pridem imperii funditus evertendo" (p. 166). Più sensibile alle situazioni di fatto che a concezioni universalistiche, vede ben presto uscire dall'ambito imperiale, e quindi dalle direttive della sua storia, le antiche province, in quanto "sui iuris factae" (pp. 100, 133). D'altra parte, in un singolare impasto di antico e moderno, il Sacro Romano Impero è ben presente nel corso delle Decadi: per es. alla sua "vacatio", dopo Federico II, "quo ad rem italicam", è attribuito il fenomeno delle usurpazioni signorili (p. 340). Nelle lotte con gli imperatori germanici, B. è naturalmente con la Chiesa e i Comuni. Ma non per questo può essere detto "guelfo", non soltanto perché rappresenta in un'accorata invettiva le lotte di guelfi e ghibellini alla stregua di un'infezione sociale, disseminata da Federico II in poi per tutt'Italia (pp. 288 s.), ma soprattutto in quanto considera la fioritura cittadina quale fenomeno, politico ed economico, autonomo rispetto alla Chiesa (p. 30; It. Ill., p. 349), pur negli alterni vincoli di alleanza. Storico in larga parte dei papi (e così pure, per ovvie preoccupazioni contemporanee, delle crociate), B. guarda alla Chiesa con l'occhio del funzionario curiale laico, e cioè in quanto organismo disciplinare, organizzativo e politico (v. per es. Hist., p. 391, sul decreto di Bonifacio IX di riserva sulla collazione di tutti i benefici: "rerum novam... quae successores suos non minus orbis christiani quam Romae dominos reddidit"; v. di contro p. 237, dove B. rileva con stupore l'impotenza politica dei papi medioevali in Roma).
L'interesse dell'opera di B. sta in una, non sempre armonica, combinazione di salde convinzioni acquisite, di ampiezza di interessi e curiosità culturali e di scrupolo documentario. Di qui quelli che sono ad un tempo i suoi pregi e limiti di storico. Con caratteristico procedimento di obbiettivazione, egli mira a registrare fedelmente la notizia, raramente avventurandosi in apprezzamenti più generali, nella misura in cui questa gli è resa accessibile, e quindi via via a verificarla e arricchirla di nuovi riferimenti, e a inserirla in una sempre più ampia serie di vicende. In tal modo la sua ricerca viene ad accrescersi su se stessa, per dir così, a macchia d'olio, secondo direttive un po' casuali, entro schemi prefissati che, nonostante i suoi sforzi, rischiano di rimanerle estrinseci.
Circa l'uso del materiale documentario e la sua tecnica narrativa, nella parte contemporanea è evidente la preoccupazione di estrarre e concentrare (anche dal punto di vista stilistico) l'essenziale, evitando amplificazioni (nello scrupolo, per es., dei dati numerici) e particolari di colorito o interesse puramente locali. Storia di fatti, tende a far risaltare plasticamente situazioni e ragioni obbiettive, ma concede ben poco all'osservazione psicologica. In quanto "storia d'Italia", la parte avuta dai potentati transalpini compare solo di riflesso, non senza pregiudizio per la comprensione dell'insieme. L'oggetto è, secondo le regole, militare e diplomatico, con gusto tuttavia per particolari concreti, come per es. sullo stato d'animo delle popolazioni (Hist., pp. 551, 565), o sul deprezzamento del debito pubblico a Venezia, per il timore della defezione di F. Sforza (p. 575). Abbastanza raramente il racconto si distende in squarci narrativi (come per la fuga di Eugenio IV, una delle primissime parti composte) o oratori (per es. in occasione del dibattito per l'entrata in guerra di Venezia nel 1426), e sobriamente son trattate le concioni di rito dei capitani. Circa le questioni ecclesiastiche, per lo più risolte nel contesto politico, parte a sé hanno, oltre un cenno sui decreti di Costanza e l'ovvia condanna dei Basileesi, le digressioni sul concilio di Firenze, ove riporta il decreto di unione delle Chiese, il discorso di Pietro Diacono, legato del patriarca copto (Nogara, p. 20; Conc. florentinum, III, fasc. 3, p. 63), ragguaglia sulle credenze religiose degli Armeni (Hist., p. 548) e sulla condizione e sito degli Etiopi, così da colmare una lacuna della geografia tolemaica (Nogara, pp. 22 ss.).
Per quanto riguarda le due prime decadi, l'intento critico risulta anzitutto tenendo presente quanto delle tradizioni medioevali sia taciuto, come non meritevole di discussione. Per esempio circa la mitica origine troiana dei Franchi, B. aveva annotato a Gesta regum francorum, in Vat. lat. 1795, c. 10 r: "somnia"; ma nelle Decadi si limita a scrivere: "Franci et ipsi Germani" (p. 12); lo stesso, fra l'altro, si osserva per la donazione di Costantino.
Nell'uso della fonte narrativa, B. si attiene perlopiù al procedimento consueto della perifrasi letterale, raramente confortata da citazione, integrando ove possibile con particolari desunti altrove. Là dove egli più decisamente innova è nella ricerca sistematica di tutti i testi accessibili (a volte anche redazioni diverse dello stesso testo: v. Buchholz, p. 85, per il Liber pontificalis); nel conseguente postulato metodico della preferenza da accordarsi all'autore più vicino cronologicamente e geograficamente al fatto (per es. al Liber pontificalis sui compendi del XIII-XIV sec.), donde anche la predilezione per epistolari illustri, ampiamente citati (s. Girolamo, Cassiodoro, Gregorio VII, Petrarca, ecc.); nella ricerca di attribuzione di fonti anonime (come quella a "Petrus Guillermus bibliothecarius" del Liber pontificalis, p. 140); nel ricorso infine alla più ampia gamma di documentazione sussidiaria come monumenti e pitture, il Decretum Gratiani e norme consuetudinarie (p. 163, per Rimini), privilegi, trattati (pp. 238, 269, e Nogara, p. 34), e, per l'età più recente, a tradizioni orali e memorie di famiglia. È interessante inoltre che, nonostante la condanna globale degli autori medioevali, di fatto egli gradui la valutazione culturale della fonte ("Pandulphus... historiam diligenter scripsit", "Ptolomaeus, alioquin vir doctus...", "Martinus Polonus errorum ecclesiasticae historiae fomes", ecc., cfr. pp. 239 s.); e, per altro aspetto, che si proponga quesiti non ovvi, per es. sul governo di Roma nel sec. IX (p. 172). S'intende come in tale raccolta B. oltrepassi la concreta possibilità di un vaglio metodico e organizzato dei dati; la sua stessa diffidenza critica tende inoltre a trarlo in errore (per es. in modificazioni proposte alla serie dei papi, p. 140). Segno del carattere precorritore dell'opera sono i suoi stessi scompensi letterari, del resto da B. stesso riconosciuti (v. Introd. a decade I), che approdano a un compromesso fra una storia di tipo erudito, che inaugura, e una narrativa, retoricamente atteggiata, da cui prende l'avvio (v. D. Hay, p. 124). Ma per B., in particolare, un risultato importante era stato raggiunto. Partendo, nelle sue storie contemporanee, dalla rivendicazione della "dignitas" riconoscibile alle cose moderne, e trattandole con puntuale scrupolo documentario, egli era uscito dal puro ambito così di una narrazione retorica come di una storia strettamente politica, contando soprattutto, al di là delle vicende alterne di successi e insuccessi, il quadro di civiltà in cui esse si svolgevano, alle cui più significative manifestazioni (la saggezza di F. Barbaro e le ricchezze di Cosimo de' Medici, la cupola del Brunelleschi e le prove di bravura oratoria, la bombarda e il galeone veneziano, ecc.) non era mancato il debito risalto. Rivoltosi al passato, l'attenzione veniva a vertere in eguale misura sui fatti narrati e sulla loro eterogenea documentazione, testimonianza in se stessa dei mutamenti sopravvenuti rispetto all'antico, istituzionali, ambientali, di consuetudini, denominazioni, non senza compiacimento per le innovazioni moderne (lo sviluppo delle città, la polvere da sparo, ecc.). Per questo, nel congiungere la prima alla seconda parte delle Storie, B. rivendica il diritto di usare nomi "barbari", in quanto "rerum singularum, quas omnino ut sunt intelligi oportet, vocabolorum mutatio talis est facta, ut si vetusta illis exponendis attulero, mea ipse relegens scripta non intelligam" (p. 393). In altri termini, l'indagine medioevale aveva avuto il valore di rafforzare la coscienza di un'Italia "nova" (p. 396) rispetto all'antica, volgendo l'interesse ai vari elementi che costituiscono gli aspetti di una civiltà. Ma al momento in cui B. pubblicò le Decadi, tale sparsa documentazione aveva già trovato una sistemazione più libera e adeguata nel contesto descrittivo dell'Italia illustrata, per il tramite dell'indagine archeologico-antiquaria della Roma instaurata.
All'origine della Roma instaurata (pubblicata sulla fine del 1446) è il clima creato dal ritorno della curia a Roma nel 1443, e le susseguenti esigenze di riordinamento amministrativo e urbanistico della città. Gli interessi archeologici di B., già attestati in un passo delle Decadi relativo al 1434 (p. 479), erano inoltre stimolati dalla sua frequenza nel circolo del card. Prospero Colonna, che accompagna e istruisce nell'ispezione delle rovine. Una di queste gite è narrata in una lettera a Leonello d'Este (13 nov. 1444), che anticipa passi delle opere, e che si conclude con l'affermazione che tali e tanti sono i monumenti di Roma e dintorni da riempire "libri magnitudinem, vel parcissima narratione" (Nogara, p. 159). Tra i precedenti di tali indagini si possono menzionare gli interessi archeologici ed epigrafici di Poggio e della sua cerchia, ma probabilmente non, come si scrive di solito la descrizione di Roma nel De varietate fortunae, edito solo nel 1448, in cui sono forti indizi di dipendenza dalla Roma inst. (per es., circa la contiguità delle terme Alessandrine al Pantheon, Poggio afferma semplicemente: "scimus", Opera, Basilea 1538, pp. 135 s.; la posizione è dimostrata da B. in base al presunto Sesto Rufo, l. II, par. 77; Poggio riconosce le terme di Domiziano nell'area della chiesa di S. Silvestro, in base a quanto "scriptum in vita pontificum adverti"; la menzione estesa della Vita di Silvestro è in B., II, 12; il paragrafo sugli acquedotti appare una riduzione della sezione relativa di B.; analoghe corrispondenze si notano a proposito del Colosseo, dell'Agone, delle Terme).
Presupposto fondamentale dell'opera è l'esperienza coeva delle Decadi, per l'analogia stessa dell'intento sistematico di ricostruzione storica, in piena autonomia dalla tradizione, in questo caso quella ancor vigente dei Mirabilia urbis. La novità consiste appunto nella ricerca di dipanare l'antico dalle successive trasformazioni ed edificazioni, l'attenzione per le quali non va disgiunta dallo studio del materiale più propriamente archeologico (e forte risalto assume nell'insieme l'assetto monumentale della città moderna). Frequente è pertanto il ricorso a testi medievali (Lib. pontificalis, martirologi, Gregorio Magno, Beda, ecc.), in un caso anche all'archivio di una basilica (SS. Apostoli, III, 79).
Guida alla ricerca è il Regionario da B. attribuito a Sesto Rufo, sulla base del codice scoperto a Montecassino; la scoperta riguarda l'attribuzione, non il testo, già altrimenti noto; cfr. I, 18; e R. Valentini-G. Zucchetti, I, pp. 200, 204; IV, p. 251). Tuttavia l'opera non si limita a una trattazione topografica in senso stretto, tendendo di frequente a sconfinare nel campo più ampio delle istituzioni (particolarmente ampia la digressione sui comizi, II, 67-72), o delle rievocazioni storiche, antiche e anche medievali, secondo lo spunto offerto dai singoli luoghi e monumenti. Anche per questo, le fonti letterarie, adoperate con tutta la consueta larghezza di repertorio, finiscono per avere la prevalenza sui dati archeologici ed epigrafici, pur attentamente considerati.
La prima parte dell'opera, pur con numerose digressioni, segue un ordine topografico, passando in rassegna le porte (13 riconoscibili sulle 23 antiche) e i colli (libro I), le terme e le regioni delle Carinae, Suburra, Tabernola e Sacra Via; quindi (II, 40 ss.) dà alla trattazione un'organizzazione sistematica secondo istituzioni (religione, governo e, nel libro III, spettacoli pubblici); infine (III, 67 ss.) considera in ordine sparso singole rovine e monumenti, rispondendo a quesiti che gli erano stati posti, e confutando pregiudizi correnti (per es. sulla formazione del Testaccio, III, 74). Notiamo le ampie disquisizioni sulle terme, sui giochi, in particolar modo sul teatro, dove lamenta l'avvilimento dei moderni istrioni rispetto all'onorata professione antica (II, 116); il compiacimento per supposte continuità di usanze (sui giochi Apollinari, III, 39); i ragguagli su recenti scavi, come per es. quelli lateranensi o la scoperta dell'iscrizione del teatro di Pompeo (I, 86; II, 109). Evidente è ovunque la preoccupazione di rifuggite, non soltanto dalle credenze volgari, ma anche dall'ovvio o da opinioni assodate dei dotti (per es. sul termine "trophaeum", II, 23; v. anche III, 56, sul "Marforio"). In quest'ordine di considerazioni è la digressione sulla rovina degli acquedotti, attribuita non già ai Goti, a torto calunniati, ma al venir meno di una tutela amministrativa e alle susseguenti demolizioni, il cui perpetuarsi al presente è motivo di alta deplorazione (II, 98-101; III, 7). Verso il termine B. dichiara lo scrupolo metodico, "ne ignota impudenter asserere aut impossibilia vane et leviter conari compelleremur", per cui lascia la descrizione delle rovine anonime a coloro "quibus fortassis curae erit hanc describere quam nostrum habet saeculum. Romam" (III, 77, 84). Nella nota conclusione, insieme al riconoscimento della grande superiorità civile della Roma antica su quella moderna, B. non manca di prestare ossequio alla Roma cristiana e ai suoi luoghi sacri, per cui essa può ancora dirsi capo del mondo. In questa pagina non è solo da sottolineare l'aspetto polemico verso un classicismo irriverente, ma anche la sua studiata posizione nell'economia del lavoro, per cui distingue la menzione delle mete di pellegrinaggio dall'oggetto fondamentale, di ricostruzione storica e descrizione monumentale, della ricerca, marcando in definitiva, senza offendere la sensibilità di papa Eugenio, dedicatario dell'opera, il distacco dalla tradizione dei Mirabilia.
Recentemente è stata segnalata (da G. Scaglia) la stretta corrispondenza, per monumenti e didascalie, con la Roma inst., della pianta archeologica del cod. Laurenz. Redi 77 (1471), copia di un prototipo anteriore al 1450, da cui furono ricavate le illustrazioni di mss. tolemaici di Piero del Massaio (1452). L'ipotesi che fosse stata una carta adoperata da B. è senza dubbio erronea, trattandosi chiaramente del rapporto inverso; ma è comunque documento interessante di quanto precocemente l'opera si fosse imposta, sia in campo archeologico e letterario che, subordinatamente, geografico e artistico.
L'opera riconosciuta come la più personale di B., l'Italia illustrata, fu anche l'unica sua che abbia avuto origine da una commissione. Se bene intendiamo l'allusione, nel 1447 Alfonso d'Aragona gli aveva richiesto, attraverso il vescovo di Modena Giacomo Antonio della Torre, un catalogo degli uomini illustri del tempo, secondo un intento probabilmente analogo a quello poi realizzato da B. Facio (v. il Proemio di F. Barbaro, in Quirini,Diatriba, p. CLXXII: "Unde peragrare ac lustrare Italiam, coepi,ut non solum cum praesentis aevi hominibus in Italia nunc essem,quod a principio quaesiveram, sed... intermortuam culpa temporum memoriam cum doctissimis hominibus huius aetatis in lucem revocarem"; corsivo nostro). Un modello in tal senso gli era offerto dall'Itinerarium di Ciriaco d'Ancona (1443), che è, a suo modo, una rassegna dei dotti nelle varie città, la cui scelta corrisponde abbastanza da vicino a quella di B. Ma lo schema si era subito modificato nei termini a noi noti della descrizione geografica, archeologica e storica di tutt'Italia. A tal fine egli era soccorso dalla contemporanea fioritura di studi geografici e cartografici (ovvio e documentato è il suo interesse in materia nelle Decadi, per cui richiese nel 1443 al re Alfonso di inviargli delle carte; l'idea stessa dell'"Italia nova" gli era suggerita da termini cartografici: "tabulae novellae", per es. "Italia novella", "Palestina novella" ecc., era la designazione tecnica delle carte moderne aggiunte alle tolemaiche; v. G. Uzielli,P. dal Pozzo Toscanelli, p. 141). Vi era inoltre l'esempio di descrizioni storico-topografiche, quali quelle di Creta e delle isole dell'arcipelago di C. Buondelmonti, o la stessa Descriptio orae ligusticae di G. Bracelli, che, già composta nel 1442, egli si procurava nell'aprile 1448, attraverso i buoni uffici del legato genovese a Roma, B. Imperiale (sulla data di composizione, v. la lettera del Bracelli di presentazione dell'opera a A. Giustiniani, 10 apr. 1442, in C. Braggio, p. 44; e la menzione nel testo al dogato attuale di Tommaso Campofregoso, 1437-43; nella lettera di presentazione a B., 1º apr. 1448, in Braggio, pp. 287 s., il Bracelli fa intendere di aver composto la Descriptio per soddisfare la sua richiesta, ma si tratta evidentemente di una ricerca di benemerenza dell'autore più oscuro rispetto al più illustre). Ma a segnare un salto qualitativo, rispetto ai precedenti, era l'opera stessa precedentemente compiuta da B.: la ricerca dell'Italia illustrata rappresentava per lui la prosecuzione di quella della Roma instaurata, e su tutto stava il grande quadro storico delle Decadi, "per eam quam sum nactus Italiae rerum peritiam" (St. ill., p. 293).
La stesura dell'opera si lega strettamente con l'episodio della temporanea disgrazia di B. presso la Curia di Niccolò V. Le difficoltà dovevano già essere cominciate nel 1448, se B. avvisava il doge di Genova, Giano Campofregoso, che gli richiedeva i suoi buoni servizi in Curia, che i "tempora et vivendi... modus" andavano cambiando (v. lett. del doge a B., 22 apr. 1448, in Braggio, p. 26); e se, verisimilmente per una riduzione degli emolumenti, egli aveva bisogno di procurarsi i favori di Alfonso d'Aragona, attraverso un complicato giro di raccomandazioni, a iniziativa di P. C. Decembrio per il tramite di Iñigo d'Avalos e quindi del Bessarione (v. lett. di Iñigo al Bessanone, 1448, Bibl. univ. di Genova, cod. C, VII, 46, cc. 15r-16v). Dispersasi la Curia per la pestilenza scoppiata a Roma, e ritiratosi il papa a Fabriano con pochi collaboratori (15 maggio 1449), B. vi anticipava il ritorno in agosto, "ansioso di guadagno" (Poggio, lett. a A. Fiocchi, 12 ag. 1449,Epistolae, III, Firenze 1861, p. 10). Ancora presente in settembre (v. lett. di F. Barbaro a B., 15 sett. 1449), poco dopo egli abbandonava l'ufficio, forse in coincidenza col ritorno del papa a Roma (29 settembre), e si ritirava quindi successivamente nelle sue dimore di Romagna (a Monte Scudo, presso Rimini, v. It. ill., p. 342), di Ferrara (a San Biagio presso Argenta aveva acquistato [1443] un podere; nel 1457 B. è attestato come "civis ferrariensis"; v. G. Mini, c. 58) e di Ravenna. In cerca di favori o unici, si recò inoltre a Milano, dove aveva come fautore il Filelfo, probabilmente in occasione dell'insediamento di F. Sforza (marzo 1450), e a Venezia (estate 1451), dove incontrò i legati di Alfonso d'Aragona, A. Panormita e L. Despuig, attraverso i quali fece pervenire al sovrano la parte composta dell'Italia illustrata, accreditata dalla dedica scritta da F. Barbaro. Nel 1452 era alla corte di Napoli, e alla presenza dell'imperatore Federico III, in aprile, pronunciò una solenne orazione per esortare alla crociata, nella dignità che gli proveniva dall'essere lo storico dell'Europa e dell'Occidente latino (Oratio coram serenissimo imperatore Frederico et Alphonso Aragonum rege inclito Neapoli in publico conventu habita, in Nogara, pp. 107-114). Ritornato a Roma verso il principio del 1453, dava ancora il suo contributo ai progetti caldeggiati per la crociata con il trattatello De expeditione in Turchos, indirizzato ad Alfonso d'Aragona il 1º ag. 1453 (Nogara, pp. 31-51), in cui passa in rassegna la situazione dei popoli soggetti nella Grecia e nei Balcani; e inoltre, frequentando il card. D. Capranica, ne assecondò la missione diplomatica a Genova (nov. 1453) con un indirizzo al doge Pietro Campofregoso (Ad Petrum de Campofregoso illustrem Genuae ducem, in Nogara, pp. 61-71), per esortare alla pacificazione interna, condizione per collaborare alla causa comune. Tuttavia soltanto il 1º ottobre egli era riammesso dal papa in carica (v. lett. a F. Barbaro, 26 ott. 1453, in Nogara, pp. 166 ss.; un breve sottoscritto da B., in data 5 ott. 1453, è in Arch. di Stato di Milano, Sforza Pot. Est., 40).
La disgrazia di B. ebbe sicuramente uno sfondo politico, e insieme dei motivi più strettamente personali. La testimonianza di Enea Silvio (De Europa, cap. LVIII), che fosse venuto in disfavore di Niccolò V perché favorito dal predecessore, è quella che, debitamente precisata, più ci accosta al vero. La carriera di B. si identificava col pontificato di Eugenio IV, ed era, giova ricordarlo, una carriera essenzialmente politica, come sottolineato dall'attinenza mantenuta con la Camera apostolica e il camerlengo. La funzione di segretario pontificio mancava tuttora di una precisa configurazione e, così come variava nei compiti e nelle responsabilità, era ampiamente soggetta a un potere discrezionale. Si capisce come B., già personaggio influente, venisse con la morte del papa a trovarsi, per dir così, allo scoperto, e compromesso nei mutamenti di indirizzo politico. Egli stesso lamenta esplicitamente il danno derivatogli dall'amicizia dei Veneziani "apud hostes et aemulos suos", senza un'apprezzabile contropartita (lett. a F. Barbaro, cit., in Nogara, p. 167). Possiamo ricollegare l'affermazione con l'allusione di Poggio al fatto che B. aveva concepito grandi speranze, poi deluse, "ex alterius amplitudine quae certa sibi futura videbatur" (lett. al Fiocchi, cit.); allusione che va con buona probabilità riferita al card. camerlengo Ludovico Trevisan, potentissimo e ritenuto papabile al conclave, e poi messo in disparte da Niccolò V, proprio in coincidenza con l'allontanamento di B. (v. P. Paschini,L. card. camerlengo, Roma 1939, p. 151). D'altra parte B. incontrò la particolare e accanita ostilità di un alto personaggio, sulla cui identificazione con il card. vicecancelliere F. Condulmer possono sussistere ben pochi dubbi (nella lett. a F. Barbaro, 26 ott. 1453, B. discorre del suo "nemico" come morente; il Barbaro, il 6 nov., ne attesta la morte: F. Condulmer morì il 30 ottobre; esso era "notissimum" al Barbaro, del quale il Condulmer si professava "compater", Quirini, App. p. 27; nei rimaneggiamenti alla prima edizione dell'Italia illustrata, insieme alla dedica e menzioni per Niccolò V, sono "accuratamente" soppresse quelle per il vicecancelliere: Nogara, pp. 217, 224; in una lettera a G. Bracelli, 10 dic. 1454, Nogara, p. 168, B. attribuisce la sua disgrazia ad alcuni "ex maioribus atque supremis e al vicecancelliere spettavano le sanzioni disciplinari). Quali fossero le ragioni di tale avversione, rimane oggetto d'illazione; certo è soltanto, da quanto B. dichiara al Bracelli, che la sua attività di studio influì negativamente, in quanto giudicata, per pretesto o meno, incompatibile con l'ufficio. Nell'insieme la spiegazione più plausibile dell'episodio sembra essere che B., visti compromessi il suo prestigio e i suoi emolumenti, abbia cercato volontariamente fortuna altrove, incorrendo in sanzioni, che egli stesso e i suoi sostenitori stentarono in seguito a sanare.
La redazione dell'Italia illustrata seguì varie fasi, nella successiva rielaborazione dei dati che B., direttamente o coll'aiuto altrui, andava raccogliendo. Con procedimento già sperimentato nelle Decadi, egli inviò parti singole a personaggi eminenti (come documentato per P. Colonna e Malatesta Novello, signore di Cesena, v. A. Campana,Passi inediti), con dediche atte a procurargli collaborazione e sovvenzioni, destinate peraltro a scomparire a opera compiuta. Di tale metodo ci ragguaglia egli stesso, nella lettera a B. Facio, sett. 1451 : "in hoc: ... opere singulos rogare et petere convenit, si quid sciant audiverintque in patria aut suae originis regione", posto che "rudis et litterarum ignarus in soli patrii loco melius noverit quam ego litteris copiosior" (Nogara, p. 106). Alle ricerche collaborò F. Barbaro, per cui richiesta il canonico udinese Iacopo Simeoni compose il trattatello De nobilitate et antiquitate civitatis aquileiensis (1448 c.; ed. in Miscell. di varie operette, II, Venezia 1740, pp. 105 ss.), e che cointeressò anche Guarnerio d'Artegna (lettera a Guarnerio, 20 maggio 1451 c., in A. M. Quirini, App., pp. 114 s.). Della fase preparatoria è documento superstite il ms. della Romandiola segnalato dal Campana; del testo presentato ad Alfonso d'Aragona nel 1451, ancora privo delle regioni meridionali, resta la dedica scritta dal Barbaro; ancora patrocinata dal Barbaro ("de Italia quod monuisti faciam", Nogara, p. 167) era la redazione dedicata a Niccolò V nel 1453, da cui B. con le modificazioni su esposte e qualche correzione (Nogara, pp. 219-224) ricavava il testo poi passato alle edizioni a stampa (per qualche più tardo ritocco al testo, v. Nogara, pp. 225-227).
La struttura dell'opera deriva dall'intento di "accomodare" la configurazione dell'Italia augustea al presente assetto, e la suddivisione delle 18 regioni continentali ("Liguria sive Genuensis; Etruria; Latina sive Campania Maritima; Umbria sive Ducatus Spoletanus; Picenum sive Marchia Anconitana; Romandiola sive Flaminia et Aemilia; Gallia Cisalpina sive Lombardia; Venetiae; Italia Transpadana sive Marchia Tarvisina; Aquileiensis sive Foroiuliana; Istria; Samnium sive Aprutium; Terra Laboris sive Campania vetus; Apuliae; Lucania; Salentini sive Terra Hydrunti; Calabria; Brutii"; realizzate solo le prime 14), pur tenendo per base la descrizione di Plinio, risulta un compromesso di antico e moderno. Nell'incertezza delle denominazioni attuali, B. tiene presente l'uso della Chiesa (per es. p. 295, per la qualifica di "civitas") e comunque si attiene a quello storicamente affermato, anche se, come nel caso della Marchia Tarvisina, il nome gli paia barbaro e assurdo (p. 374). Lo schema di descrizione è in genere abbastanza libero, anche in conseguenza della varità dei testi usati (Plinio, Strabone, Tolomeo, Pomponio Mela, Solino, Anonimo Ravennate, ecc.), e alla menzione dei confini ed estensioni, dei monti e fiumi, di città e castelli, si aggiungono all'occasione ragguagli sulle colture e prodotti, sulle bellezze naturali, sulle strade, e quindi via via su memorie e episodi, sugli uomini notevoli passati e presenti, su opere d'arte, su luoghi sacri, in una parola su quanto in un determinato luogo appaia meritevole d'attenzione. L'Italia illustrata non è tuttavia solo lavoro di compilazione, ma anche di cernita critica. L'interesse di B. è volto in primo luogo a definire i mutamenti avvenuti (nell'introduzione premette la considerazione della situazione demografica e urbanistica, per cui non ritiene l'Italia presente ragguagliabile a quella antica); per questo cerca di verificare e aggiornare i dati dei geografi antichi (come nel caso della rotta del Po a Ficarolo, non registrata nelle carte, p. 355; v. anche pp. 351 s.), e talora di correggerli (per es. Plinio, sulle fonti del lago Fucino, p. 320). L'opera vuol essere in egual misura una guida alla conoscenza dei luoghi e un prontuario per intenderne la storia ("non parvae partis historiarum Italiae breviarium", p. 294). Per questo le denominazioni moderne sono scrupolosamente rispettate, non senza intento polemico verso il classicismo degli autori contemporanei (v. Hist., pp. 294 s.). Di particolare interesse sono gli excursus sull'origine delle città, dove è più sensibile il distacco di B. dalle opinioni correnti e dalle tradizioni municipalistiche. Il suo senso del concreto si nota, per es., a proposito delle origini di Genova, quando, scartate le leggende etimologiche, a cui ancora il Bracelli indulgeva, non ne ammette l'esistenza prima della menzione di Livio al tempo della seconda guerra punica, e, nonostante il favorevole retroterra, la ritiene sviluppata solo in età medioevale (p. 297); un'osservazione analoga è su Venezia, che riassunse la funzione giàavuta nei traffici adriatici da Spina, Adria e Aquileia (p. 385). A proposito di Siena, egli ricorre a documenti originali (del monastero di S. Giorgio in Alga a Venezia, p. 307), e, per l'Aquila, a tradizioni orali verificate su fonti scritte (p. 396).
La menzione dei personaggi, oltre i termini convenzionali di elogio, appare spesso sfumata e frutto di meditato giudizio; in alcuni casi si tratta di preziosi riconoscimenti precoci (come sul valore poetico del giovane Pontano, p. 330). Pur ispirato ai criteri di valutazione umanistici, B. non pone rigide preclusioni, ed elenca per es. fra i dotti Pietro Loredan, per il suo trattato della navigazione (p. 373). Debito risalto trovano le più significative opere e iniziative culturali del tempo, fra cui la fondazione della biblioteca medicea di S. Marco e della Malatestiana di Cesena; e così pure le realizzazioni tecniche, come nel passo celebre sull'invenzione amalfitana della bussola. Nei singoli luoghi è reso omaggio alle corti signorili, famiglie patrizie e uomini di chiesa, con studiata preoccupazione d'imparzialità; non mancano peraltro giudizi assai severi, per es. sul saccheggio di Piacenza del 1447 da parte delle compagnie di F. Sforza (p. 359). Spunto critico d'altro genere, influente sulla storiografia successiva, è quello sull'"absurda consuetudo" dell'incoronazione imperiale di Monza (p. 364). Caratteristica dell'opera sono le digressioni, a cui motivi occasionali danno frequentemente pretesto (per es. sulle "empie" consuetudini dei fraticelli, apprese da Giovanni di Capistrano, pp. 337 s.). Le più importanti sono quelle della Romandiola, dove, con compiacimento patriottico, B. mira a trarre il succo della civiltà del suo tempo: così, a proposito di Giovanni diRavenna, egli delinea gli sviluppi dell'umanesimo, considerato negli aspetti tangibili del diffondersi delle scuole e della circolazione libraria; e, alla menzione di Alberico di Cunio, ripercorre la storia d'Italia, che, grazie all'iniziativa del grande condottiero, era giunta a darsi armi proprie, limitando i danni della guerra e la fuoruscita delle ricchezze, sì da godere ora di una relativa prosperità, sconosciuta ai secoli precedenti (v. anche introd.: "saeculum nostrum quod... quae ante patrum nostrorum aetates fuerunt saeculorum respectu felix appellari potest", p. 294). Notevole interesse riveste pure la digressione sui Longobardi (nella Marchia Tarvisina), considerati i veri eversori della civiltà romana, anche riguardo alla lingua, contrariamente a quanto era affermato nel De verbis romanae locutionis (è qui, p. 374, l'importante specificazione degli elementi dell'antica civiltà andati perduti, così poi parafrasata da Machiavelli nelle Storie fiorent., I, 5: "le leggi, i costumi, il modo di vivere, la religione, la lingua, l'abito, i nomi"). Non c'è dubbio che l'Italia sia sentita da B. come un'unità viva; ma, nonostante la delimitazione geografica, tale è per lui soprattutto l'Italia centro-settentrionale. Giunto alle regioni del Regno, ammette egli stesso un senso di estraneità ("maius solito negotium"), dando un sommario della sua storia a partire dai Normanni, proprio in quanto ritenuta poco nota (p. 389). Di fatto la descrizione di questa parte appare più spoglia delle precedenti, limitandosi perlopiù ai dati geografici e archeologici (per Napoli e dintorni); e se egli omise le ultime regioni, avendo appena cominciata la Puglia, la vera ragione fu in un difetto di conoscenza intrinseca, piuttosto che nella giustificazione contingente poi addotta, di avere anticipato la pubblicazione a rimedio di un'edizione abusiva (Nogara, pp. 227 s.).
Il significato dell'opera era sintetizzato da B. stesso nella Prefazione (ancora modificando il testo del Barbaro), nell'immagine del grande naufragio della storia, da cui trarre pazientemente a riva i relitti, "supernatantibus aut parum apparentibus tabulis": non più un sentimento vago del mutare delle umane cose, ma i due saldi, perché culturalmente qualificati, punti d'orientamento del presente e dell'antichità, tra i quali era aperto il campo per una consapevole e concreta indagine.
Dopo il ritorno in Curia, B., pur reintegrato nel collegio dei segretari, non svolse effettivamente che un'attività ridotta. Dal 1454 non sembra che il suo nome compaia più nei brevi pontifici (v. i numerosi originali presso l'Arch. di Stato di Milano), e si riscontra soltanto in certe bolle (p. es. 27 apr. 1455, 22 apr. 1460, nella Bibl. Com. di Forlì). Un breve di Callisto III, che gli prolunga un permesso d'assenza "quamdiu libet", è indizio ulteriore di tale disimpegno (Milano, Bibl. Ambros., cod. N 54 sup., c. 36v). A Roma è ricordato come frequentatore dei circoli e delle biblioteche dei cardinali Capranica e Bessarione. Tra i viaggi compiuti è notevole un soggiorno presso la corte di Urbino (1456 c.), con cui B. si dimostra in rapporti confidenziali (v. Roma triumph., p. 193; Nogara, p. 175); nell'estate e autunno 1456 dimora a Ravenna. La lettera a Nicodemo Tranchedini, datata da Firenze, 28 febbr. 1457 (ma 1458, se, come possibile, adotta lo stile locale) - in cui sollecita l'ambasciatore sforzesco a Firenze ad accorrere "pro negotiis et necessitate illius fratris mei domini Cosmi", alludendo a una situazione che "in dedecus ipsius domini Petri et omnium nostrorum redundare posset" - fa pensare, piuttosto che ad "affari privati" (Nogara, p. 169), a una sua collaborazione politica con i Medici, in un momento di crisi del regime (v. N. Rubinstein,The governm. of Florence under the Medici, Oxford 1966, pp. 88 ss.; cfr. anche la lettera di Latino Orsini a Lorenzo de' Medici, Roma, 20 apr. 1473, commendatizia per Matteo, "già fratello de messer Biondo da Forlì, secretario apostolico, quale, come dovete sapere, fu caro amico de la bona memoria de Cosmo et degli altri vostri", Arch. di Stato di Firenze, MAP XLVI, 221).
Nel luglio 1454 B. pubblicava un ristretto di storia veneziana fino al 1291 (De origine et gestis Venetorum, dedicato a F. Foscari), sia per soddisfare a richieste pervenutegli (v. Nogara, pp. 167 s.), che per esortare alla crociata. Ma questi anni furono soprattutto dedicati all'ultima grande opera, la Roma triumphans.
Il precedente più notevole era il De potestatibus romanorum di A. Fiocchi (1424 c.). Ma l'innovazione è sostanziale, non solo per la considerazione di parti da questo trascurate (per es. l'età imperiale), ma perché non vuole essere un manuale ("commentariolum") delle magistrature sacre e profane, ma una ricostruzione sistematica della vita pubblica e privata romana; non un sussidio alla lettura degli storici, ma un'indagine indipendente di aspetti da questi non espressamente trattati. Qui trova la sua più matura affermazione l'assunto metodico di B., per nulla ovvio al tempo, di perseguire l'accertamento del fatto, indipendentemente da enunciazioni retoriche, filosofiche e giuridiche, nel punto stesso in cui egli ha a che fare con oratori, filosofi e giuristi (la distinzione è posta da B., pp. 54, 167, 181). Al solito è fatto ricorso a tutto il materiale accessibile, latino e, se possibile, greco, "uno specimen... della coltura storica e filologica dell'Italia verso la metà del Quattrocento" (Nogara, p. CLV). Il modello di Varrone gli è ovviamente presente, ma, almeno in forma dichiarata, B. non sembra richiamarvisi specificatamente (il termine stesso di "antiquitates", che si afferma più tardi, non è espressamente enunciato); del resto, come in tutte le sue opere, pur nella generica imitazione degli antichi, egli si riserva ampio margine per un'organizzazione personale della materia. Questa è divisa secondo lo schema quadripartito, divenuto poi istituzionale: religione (libri I-II: divinità, sacerdozi, culto, cerimonie); amministrazione (libri III-V: magistrature; governo provinciale, comizi, senato, cariche amministrative, diritto e procedimenti penali, cittadinanza, condizione dei servi, ordinamento fiscale); milizia (libri VI-VII: composizione e gradi dell'esercito, disciplina militare ricompense e privilegi ai soldati, congedo, ordinamento di battaglia, insegne, flotta, ecc.); istituzioni private (libri VIII-IX: matrimonio, divorzio, educazione, agricoltura, edifici urbani e rustici, suppellettili, vesti, strade, mezzi di trasporto; per il l. X, v. oltre).
L'esposizione segue un metodo minutamente analitico, partendo, al modo dei giuristi, dall'esposizione dei termini, dell'etimologia e del significato, per poi procedere a più ampia disamina, adducendo il passo della fonte opportuna, confrontato e discusso con altri testi. I passaggi da un argomento all'altro appaiono spesso fortuiti, si da creare tensione fra l'intento sistematico e la ricerca in atto. L'esposizione è qua e là ravvivata da digressioni metodiche, per es. dove B. denuncia l'irresolubile difficoltà nel ragguagliare sul sistema monetario romano (pp. 112 s.), oppure dove, a proposito della sontuosità delle abitazioni private romane, tanto superiore alla presente e testimonianza della ricchezza diffusa, esprime tutto l'entusiasmo di una personale scoperta. Al caso cita ampiamente testi poco noti, come Erodiano (sul culto imperiale, pp. 44 s.) e Onosandro (sull'ottimo generale, pp. 152 ss.), nelle versioni recenti di Ognibene Leoniceno e Niccolò Sagundino. Un'ampia citazione di Giovanni Crisostomo gli serve a far risaltare le realizzazioni civili dell'impero, rispetto ai disagi dei tempi dei patriarchi (pp. 201 s.).
L'ordinamento sistematico non gli impedisce di tener conto dell'evoluzione degli istituti, specie nel trapasso dalla repubblica all'impero. L'uso delle fonti è, almeno in via di principio, informato a questo criterio ("ratio temporis et locorum", p. 187); per es. Vegezio non è considerato testo valido per la milizia repubblicana se non quando segue Sallustio (p. 128). Lo stesso si osserva nell'uso del Digesto, ampiamente confrontato con le autorità storiche e letterarie. Importanza talora determinante ha il ricorso alle iscrizioni (per es. p. 33, sui legati ai collegi sacerdotali). In un luogo notevole B. trova conferma a Livio, sul numero dei senatori, in Maccabei, I, 8, 15. Più di una volta discute testi antichi (Valerio Massimo, Gellio, pp. 41, 74, 83), e anche in Livio ravvisa oscurità e contraddizioni (p. 60, sulla distribuzione censitaria e i primi conii del denaro). Nel campo delle consuetudini private è attento alla sopravvivenza di tradizioni popolari (pp. 173, 181, ecc.); in un'occasione ricorre per questo a un antico strumento dotale (p. 174).
Il libro VII, a conclusione della parte sulla milizia, contiene una rapida sintesi della storia romana, rimasta esclusa dalle Deche superstiti di Livio, e quindi un ragguaglio delle fonti dell'età imperiale e della successione degli imperatori, fino al terminus ad quem della "inclinatio". Fedele all'intento di registrare fatti e non di pronunciare giudizi, B. evita di manifestare una preferenza per la repubblica o l'impero (p. 148, su Cesare: "Nec satis scimus neque etiam nostri propositi est discernere plus ne boni an mali rebus attulerit romanis sua... opinio principatus"). Di fatto la natura dell'opera non consente un'interpretazione coerente dell'una o dell'altra età; tuttavia è manifesto che la rappresentazione di Roma di B. converge verso l'età imperiale, specie nella sua esaltazione della concessione universale della cittadinanza, considerata come il massimo frutto della civiltà romana (pp. 2, 106, e passim). Tra le opere positive degli imperatori sono inoltre ricordate la sollecitudine per le province, l'assistenza al popolo, la disciplina militare (pur deplorando per altro la sediziosità dei pretoriani).
Il decimo e ultimo libro è dedicato ai trionfi, simbolo della grandezza romana, e termina vagheggiando un trionfo cristiano, modellato all'antica, a conclusione della crociata contro i Turchi, e riaffermando quindi l'idea della Chiesa quale vera erede dell'universalità di Roma. Di qui proviene il titolo dell'opera, che B. accredita con l'autorità di s. Agostino, il quale avrebbe desiderato assistere a un trionfo ("qualem beatus Aurelius Augustinus triumphantem, videre desideravit", p. 2; "quam [formam triumphi] inspexisse Aurelium Augustinum optasse refertur", p. 212; non è chiaro a che B. precisamente alluda).
È tuttavia evidente che non soltanto lo spunto conclusivo rimane estrinseco rispetto alla sostanza dell'opera, ma che il ricorso al nome di s. Agostino è pretestuoso. Una visione globale di Roma antica, additata a modello ai popoli partecipi della sua eredità, non poteva non opporsi alla concezione che di essa si era perpetuata nella tradizione cristiana dalle pagine del De civitate Dei. Trattare in particolare della religione, significava ricostituire Varrone al di là di s. Agostino; ed è palese in questo caso lo sforzo di B. di giustificare i Romani, attribuendo ad es. le credenze più riprovevoli a culti esterni, che già gli antichi saggi condannavano (pp. 10, 23; in implicita discussione con Agostino, B. asserisce inoltre la credenza nell'immortalità, in base ai legati testamentari a istituti sacri, p. 34). Attenzione è prestata agli aspetti umani e sociali del culto, proponendo alcuni parallelismi con rituali cristiani (pp. 18, 28); analogamente le entrate dei collegi sacerdotali vengono equiparate ai proventi del clero moderno, con uno spunto non privo di intenzioni polemiche (pp. 31 ss.; più, esplicitamente, p. 15). I temi dell'apologetica cristiana in B., come in altri testi umanistici del tempo, non sono ritenuti pertinenti nell'apprezzamento dell'antichità. Per es., a proposito del valore delle lettere di assegnare lodi e biasimo, egli cita s. Agostino, che, se non apprezzò le lodi "ex christianae religionis institutis", "vituperationes tamen evitandas... innuit" (p. 100). Su questo punto cruciale, - l'"amor laudis", tacciato da Agostino come "unum vicium" su cui riposavano le virtù gentili - la polemica diventa esplicita. Giunto a trattare delle virtù pubbliche e private alla base della buona amministrazione di Roma, "vix solis philosophis per aetatem nostram relictae" (p. 120), B. non manca di attestare il dissenso dei più dei suoi contemporanei, i quali, "solis philosophantes verbis, cum re ipsa longe a vera absint philosophia" (p. 117), lodavano i Romani a denti stretti, rattenuti dalla condanna dell'amore di gloria. Per B. al contrario lo stimolo della gloria e l'amore della virtù "propter se ipsam" valevano come condizione per la salvaguardia del vincolo sociale, e, nonché di pregiudizio, erano di vantaggio per la salute stessa dell'anima. Come già nelle Decadi, non si pone problema di conciliare antichità e cristianesimo in una visione storica generale; anzi la menzione di Paolo Diacono come "primo degli storici cristiani" (p. 70) sembra indicare una più decisa esclusione della storia ecclesiastica dal rango della storia propriamente detta. L'accordo stava in sostanza nelle personali convinzioni etiche, a cui B. riconduce la pur sincera devozione religiosa. Ciò è espresso con particolare vigore nelle due lettere che scrisse a Galeazzo Maria Sforza (22 nov.; 12 dic. 1458, Nogara, pp. 170-178; 179-189, sull'educazione umanistica e religiosa del principe), interessanti anche per quel che attestano della vivace reazione di ambienti ecclesiastici alle sue concezioni. In lui l'educazione cristiana è intesa, non differentemente da quella degli "humanitatis studia", come guida alla virtù sugli esempi illustri del passato. È in questo contesto che egli accenna a una significativa condanna delle tradizioni agiografiche leggendarie (sull'esiguità del numero dei martiri, "certis ab auctoribus"; v. Nogara, p. 182).
Gli ultimi anni di B. furono amareggiati dalle persistenti strettezze economiche, sì da indurlo, mal ripagato dai lavori maggiori, a comporre e a progettare nuove opere, che potessero far valere il suo talento e la sua reputazione presso i potenti del momento.
Di questa natura è il trattatello Borsus sive de militia et iurisprudenzia - praticamente un sunto delle questioni trattate nella Roma triumphans -, occasionato alla dieta di Mantova dalle tradizionali dispute sulla preminenza dell'uno o dell'altro ordine (su cui cfr. G. Salvemini,La dignità cavalleresca nel comune di Firenze, Firenze 1896, pp. 43-49) e indirizzato al marchese estense il 10 gennaio 1460 (Nogara, pp. 130-144).
Analogamente nel 1462 egli dedicava a Pio II un libro di supplemento all'Italia illustrata (Additiones correctionesque Italiae illustratae, Nogara, pp. 227-239), per la gran parte a celebrazione dei fatti notevoli del suo pontificato, al fine di ottenerne il patronato per un'eventuale riedizione dell'opera intera, ove fosse colmata la lacuna delle regioni meridionali (v. Nogara, p. 228). La medesima ricerca di favori è ravvisabile nei trattatelli epistolari d'argomento archeologico indirizzati a uno dei più vicini collaboratori del papa, Gregorio Lolli (12, 18, 30 sett. 1461; Nogara, pp. 193-207). Verso B., tuttavia, - legato al card. P. Barbo e a prelati veneti come E. Barbaro e D. Domenichi - Pio II ebbe piuttosto considerazione di stima che una reale familiarità (la lettera di D. Domenichi a E. Barbaro, 1º febbr. 1462, cit. in Nogara, p. CLXXIV, sui mancati aiuti a B., indica come le più tarde accuse del Filelfo non mancassero di qualche fondamento).
Un disegno d'altro genere, non andato in porto, fu una storia "navigationum expeditionumque atlanticarum" dei Portoghesi, rivelatrice di cose ignote agli antichi, richiestagli, attraverso il legato a Roma G. Fernández, dal re Alfonso V, senza che poi venisse inviato il materiale opportuno (lett. ad Alfonso, 1º marzo 1459, e a G. Fernández, 30 genn. 1461, in Nogara, pp. 190-193).
Un altro progetto, a cui pensò di applicarsi, fu la storia di Venezia, facendo eccezione ai suoi principi di storico "generale". Alla dieta di Mantova egli pose la sua candidatura ufficiale, in concorrenza con retori come Mario Filelfo, Giorgio Trapezunzio e Pietro Perleoni, legati alla repubblica da condotte di insegnamento e pertanto, come risulta, più graditi al senato (v. lettera di L. Foscarini a B., Udine, 1º luglio 1462; Treviso, Bibl. Com., cod. 85, cc. 464 ss.). Appoggiato da patrizi come il Foscarini e G. Barbarigo, nonché da E. Barbaro, B. si accinse sul principio del 1462 al lavoro, per cui aveva anche richiesto l'accesso agli archivi (v. lett. del Foscarini, cit., c. 467: "maioribus officiis... coeptis tuis favebo, quam, tu studiis ex annalibus, etiam, ut plerumque dixisti, ex archiviis senatus res venetas perquisiveris"). L'opera tuttavia non andò oltre una breve trattazione delle origini, che dà modo a B. di insistere sul pacifismo delle tradizioni veneziane (Populi veneti historiarum liber primus, Nogara, pp. 77-89; è notevole peraltro che dal frammento di B. prenda spunto la storia delle antichità venete di B. Giustinian).
Ma l'impegno maggiore fu riservato al compimento delle Decadi, a cui pensava già da tempo (v. lettera a G. Bracelli, 10 dic. 1454, per avere cronache genovesi), e a cui era spinto da richieste insistenti degli interessati, fra cui Luigi XI di Francia (v. Nogara, p. 212). In particolare B. fu in trattative con F. Sforza, che mise a disposizione il materiale documentario relativo alla sua ascesa al ducato (lettera a B., senza data, in F. Gabotto, p. 101). Al principio del 1462 B. aveva composto un libro, che incominciava "dai tempi di papa Bonifacio IX", e lo inviava a Ermolao Barbaro con il titolo di Nosce teipsum, a sottolineare il crescente senso di sfiducia e disillusione (v. lettera di D. Domenichi a E. Barbaro, cit., Vat. Ottob. 1035, c. 36r-v; v. anche Roma triumph., p. 216: "si eos qui ad clavum sedent rei publicae christianae principes se ipsos nosse et quam susceperint curam mente et animo considerare meliori solito Dei munere contingeret"). Nel gennaio 1463 era in trattative con lo Sforza per il compenso (notevole il cenno sprezzante alla storiografia cortigiana, le "frappe vane de le quali vi vogliono vestire alcuni", Nogara, p. 212, che si riferisce probabilmente alla Sforziade del Filelfo). Le trattative si prolungarono fino alla morte di B., avvenuta a Roma il 4 giugno 1463 (v. Arch. di Stato di Milano, Sforz. Pot. Est., 55, n. 217, dispaccio dell'oratore Ottone del Carretto, 17 giugno: "A d. Biondo non farò l'ambasciata, imperoché egli è andato a l'altro mondo, et io per adesso non mi curo andarli adietro").
Questa parte, considerata come smarrita o mai scritta, è invece conservata nel volgarizzamento del fiorentino Andrea Cambini, in Bibl. Naz. di Firenze, cod. II, III, 59. Il Cambini, che volgarizzò entro il 1491 l'intero corpo delle Decadi su commissione dei duchi di Ferrara, dove era stato agente diplomatico nel 1482-83 (v. G. B. Picotti,La giovinezza di Leone X, Milano 1927, pp. 254, 287; Bibl. Naz. di Firenze,Fondo ms. Ginori-Conti, 29, n. 22), si attribuisce abusivamente non solo le parti aggiunte, ma, ignaro del testo vulgato, anche il libro XXXI con cui terminano le edizioni a stampa (ed. princ., Venezia 1483), che appare peraltro ritoccato in qualche punto ("libro adgiunto da A. Canbini", cc. 101-102, dopo la decade II, anni 1402-1417; "Libro primo, libro secondo adgiunto da A.C. alla storia di messer Biondo da Furlì", cc. 284-320, dopo la decade III, anni 1440-1450, preceduti da un Proemio). Risulta pertanto evidente che il traduttore disponeva di una redazione in cui il nuovo materiale (compreso il libro I, dec. IV) appariva separato dal resto, che si può identificare con quella predisposta da Gaspare Biondi per un'edizione poi non realizzata (v. dedica a D. Domenichi, 10 dicembre 1474, all'ed. princ. dell'It. Ill., Roma 1474: "quam [historiam] tribus et triginta libris usque ad sua tempora scripsit"). L'appartenenza a B. di detti libri è confermata da ulteriori prove interne ed esterne, che chi scrive si riserva di documentare in sede di edizione del testo. Si accennerà soltanto che essi furono noti agli autori contemporanei; per es. L. Crivelli, scrivendo di B. nel 1464, si riferisce a "tribus decadibus suis iam magna ex parte editis" in L. A. Muratori,Rerum Italic. Script., XIX, Mediolani 1731, col. 629); e sopratutto furono ampiamente sfruttati dal Platina (Vitae pontificum) e da G. Simonetta, che nei suoi Commentarii sulla vita di F. Sforza rifuse in blocco tutta la parte aggiunta, a partire dal novembre 1440 (libri V-XX).
La prima parte delle nuove storie, senza dubbio quella di cui parla il Domenichi, e destinata a colmare la lacuna cronologica fra la seconda e la terza decade, comincia dalla morte di Giangaleazzo Visconti, e si sofferma in particolare sulle vicende dello scisma e del concilio di Costanza, sulla conquista veneziana di Padova e su quella fiorentina di Pisa; più di sfuggita sono trattati i fatti di Milano e della Lombardia. Le fonti principali sono le cronache fiorentine dell'Anonimo (P. Minerbetti) e di D. Buoninsegni, e il Liber pontificalis; ma è pure fatto ricorso a vari testi sussidiari, non sempre identificabili, e forse anche a memorie personali.
Nei piani di B. era un completamento della decade IV, perlomeno fino alla pace di Lodi (v. lettera a F. Sforza, 28 genn. 1463, cit., p. 212: "dicte due parti [sc. la vittoria a Napoli di Alfonso e la spedizione lombarda di Renato d'Angiò, 1453]... haveranno a essere in la quarta deca"). A tal fine rielaborò la materia già trattata, scartando il libro XXXII dell'edizione del 1453 (che forse per ciò è escluso dalle edizioni a stampa), e proseguendo il libro XXXI, sulla falsariga della documentazione sforzesca, fino al matrimonio di F. Sforza e la pace di Cremona (novembre 1441; cc. 304v-320r). Il libro II termina con l'insediamento del nuovo duca a Milano, e qui l'opera rimane incompiuta, verisimilmente ancora bisognosa dell'ultima revisione.
La narrazione appare assai spoglia, senza alcuna concessione alla retorica e all'encomio, a singolare contrasto con la storiografia cortigiana del Simonetta, che l'avrebbe di lì a poco rielaborata. Ciò che sta al centro degli interessi dell'ultimo B. è, potremmo dire, il problema del potere: la sua, così per il principio del secolo come per i fatti più recenti, è essenzialmente una storia, disincantata e senza simpatia, di atti, spogliazioni, delitti politici. Non a caso, vantando le proprie benemerenze storiografiche allo Sforza, egli sceglieva l'esempio di Ezzelino da Romano, "crudele tiranno": "pur mo sanno molti chi et como ello fo grande et tenuto in Italia" (Nogara, p. 211).
La diffusione dell'opera di B. fu immediata e d'ambito europeo. Quella che incontrò maggiore favore fu la Roma instaurata, unita spesso all'Italia illustrata; le Decadi, divulgate più spesso parzialmente che intere, ebbero la maggiore area di penetrazione: le ritroviamo in biblioteche principesche, vescovili, monastiche, in case borghesi. Personaggi come J. Hinderbach, vescovo di Trento, o H. Schedel ne posseggono l'opera intera. Come già accennato, Gaspare B. curò l'edizione degli scritti paterni negli anni 1470-74 c. (v. Pomponio Leto, dedica a G. B. dell'edizione di Nonio, Roma 1472), sotto il patrocinio del Domenichi; solo per le Decadi, uscite per ultime, sembra non sia stato rispettato tale piano editoriale, forse per gli interessi di chi si era appropriato dell'ultima sezione composta.
Un altro figlio, Gerolamo, chierico e dottore in legge, raccolse una silloge di scritti minori e di lettere, che tuttavia rimase senza eco.
L'uso delle opere di B. come testo primario ha la durata di circa un secolo. La Roma instaurata (di cui si conoscono gli esemplari postillati da G. Marcanova e dal circolo pomponiano: G. Valentinelli,Bibl. mss. adS. Marci Venetiarum, VI, p. 103, e V. Zabughin, P. Leto, Roma 1909, I, p. 208) fu compiutamente superata dalla seconda edizione della Topografia antiquae Romae (1544) di B. Marliani; così l'Italia illustrata era soppiantata dalla fortunata Descrittione di tutta l'Italia (1550) del domenicano bolognese L. Alberti (un filone particolare della fortuna di B. presso i domenicani di Bologna è desumibile dalla Chronica... civitatis Bononiae [1497] di G. Borselli, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XXIII, 2, a cura di A. Sorbelli, p. 4). Fuori d'Italia l'opera offriva il modello per l'impresa di K. Celtis e degli umanisti tedeschi di riconoscere l'identità nazionale nella somma delle sue tradizioni. La Roma triumphans, d'ambito troppo vasto per essere direttamente ripresa, influenzava disquisizioni storiche sul diritto romano (Aimar du Rivail, A. d'Alessandro), e a partire dalla metà del sec. XVI era sostituita da trattati su particolari settori antiquari (Panvinio, Sigonio, Ciacconio, ecc.). Le Decadi contribuirono potentemente al fiorire della storiografia umanistica tra la fine del sec. XV e il principio del XVI.
Ancora in circolazione sul principio del '700 (Voltaire annotava nei suoi taccuini inglesi, 1726: "Quaere Romam triumphantem de autore Flavio",Notebooks, I, Genève 1959, p. 45), B. estende la sua influenza anche quando i suoi testi erano ormai divenuti ampiamente inadeguati. G. Voss, nel definire la scienza antiquaria rispetto alla "historia iusta", parafrasa il proemio dell'Italia illustrata: "Antiquitates sunt reliquiae antiqui temporis, tabellis alicuius naufragii non absimiles" (De Philologia, 1650; v. A. Momigliano,Ancient history, p. 76); la prima ricerca medievistica del Muratori, De corona ferrea (1698), prende spunto dal giudizio di B. sull'"absurda consuetudo" di Monza (v. S. Bertelli,Erudizione e storia in L. A. Muratori, Napoli 1960, p. 45); Gibbon, se non altro, gli deve il titolo della sua storia.
In età romantica e positivistica B. fu riconosciuto, nei rispettivi ambiti, "quodammodo parentem" (W. A. Becker, 1842) delle moderne discipline scientifiche. Si tratta tuttavia di un apprezzamento a posteriori, che vale a suggerire una continuità di sviluppi, che non fu nella realtà. Resta da spiegare la sproporzione fra l'effettiva importanza dell'opera e i riconoscimenti saltuari, raramente disgiunti da riserve, che sin dal suo tempo gli furono tributati, nonché il rapido affievolirsi della memoria dell'uomo.
Autodidatta introduttore di schemi culturali nuovi, egli si affermò piuttosto collateralmente che al centro del movimento culturale umanistico. Già alla morte appariva fuori moda; il severo giudizio di Pio II, di aver badato più alla quantità che alla qualità, rispecchia tale situazione, e non è sostanzialmente dissimile da quello, pur di più equo riconoscimento, di P. Cortesi. Pomponio Leto, salvo che in dediche precoci a Gaspare B., ne evitò un'esplicita menzione; a Raffaele Volterrano non appariva abbastanza raffinato ("non admodum cultus"). All'organizzazione sistematica si preferisce ora l'agile manuale, la pubblicazione e commento di testi, la raccolta miscellanea, il calco sull'antico. I più tardi trattati sistematici raccolgono i risultati di tali indagini specializzate, prescindendo ormai dalle precoci sintesi di B., che continuano peraltro a circolare, grazie a un fortunato rilancio editoriale, come testi indipendenti.
In sede storiografica le nuove esigenze retoriche e precettistiche lasciano scarso margine per un apprezzamento di B. ("Quid attinet vera scribere, si omnia obscure perturbaveris?": P. Cortesi, p. 228). D'altra parte, nel prevalere delle storie "particulare", cortigiane, dinastiche, cittadine, non è raro il compiacimento di coglierlo in fallo (v. per es. Platina, Hist.... Mantuae, o B. Giustinian). In P. Prisciani la sua stessa materia diviene oggetto di curiose contaminazioni astrologiche. Nell'ambito della storia generale, dove più B. fa testo, i suoi materiali e spunti vengono assunti negli schemi più tradizionali della biografia (Platina), della cosmografia e storia universale (Enea Silvio, Sabellico), dell'enciclopedia (Raffaele Volterrano). Le Decadi (prima e seconda) furono più lette nella fortunata Abbreviatio diPio II (di cui si serve il Platina) che nell'originale, venendo così smembrate della parte storiograficamente più valida delle storie contemporanee.
La fama di B. si consolidò con la fioritura cinquecentesca in Italia di studi archeologici e antiquari, e fu appunto essenzialmente fama di archeologo e antiquario. Per il Giovio suo reale titolo di gloria era la Roma instaurata; un antiquario, Lucio Fauno, ne curò la traduzione delle opere presso lo stampatore veneziano M. Tramezzino. Su B., come storico d'Italia, pesò inoltre la stroncatura del Sigonio,De regno Italiae (1574), che influenzò il Muratori, il quale, forse anche per questo, lo escluse dalla raccolta dei Rerum Italicarum Scriptores.
Come per la produzione umanistica in genere, il corpus intero dell'opera di B. fu affidato alle stampe transalpine. Due eruditi transalpini, J. J. Boissard e G. Voss furono tra quelli che ne trattarono più compiutamente. Nel nuovo interesse settecentesco per il "rinascimento delle lettere", notevoli contributi bio-bibliografici su B. furono offerti da A. Zeno e G. Tiraboschi. Ma fu solo nel sec. XIX che venne rivendicata la sua importanza storiografica, cioè essenzialmente come storico precoce del medioevo; tra i primi, al solito, Burckhardt. Alla scuola di J. Voigt si deve la prima indagine sulle Decadi, nonché la prima monografia sull'autore; per l'Italia ricordiamo, sotto questo riguardo, i nomi di G. Carducci, P. Villari, G. Romano. Mancarono tuttavia indagini dell'ampiezza di quelle dedicate ad altri umanisti, e il nome di B. rimase per lo più legato a tradizioni erudite locali. Lo stesso ampio studio di B. Nogara, più che da un interesse specifico, fu occasionato dallo spoglio dei fondi mss. vaticani. Osservazioni importanti, pur di carattere marginale, su B. si trovano in opere di storia della storiografia o su singoli problemi storiografici; nuovo interesse ha inoltre incontrato in più recenti studi di storia dell'antiquaria.
Iconografia: dal ritratto, che secondo Vasari (Vita di Frate Giovanni da Fiesole) Giovio avrebbe tratto dagli affreschi del Beato Angelico nella distrutta cappella del Sacramento, fu ricavata l'incisione in P. Giovio,Elogia virorum literis illustrium, Basileae 1577, p. 27, anche altrove riprodotta (Boissard, Graevius); e la copia, commissionata da F. Borromeo, ora in Pinacoteca Ambrosiana, con la didascalia Blondus Historicus (v. E. Müntz,Le Musée des portraits de P. Jove..., in Mémoires de l'Académie des Inscriptions et Belles lettres, XXVI, [1900], 2, p. 237; Guida sommaria per il visitatore della Biblioteca Ambrosiana e collezione annessa, Milano 1907, p. 127; G. Mini, cit., c. 1); per il ritratto perduto di G. Bellini nella sala del Maggior Consiglio di Venezia, v. P. Gothein, F. Barbaro..., Berlin 1932, p. 139.
Fonti e Bibl.: Le citaz. dal testo sono tratte dall'ediz. di Basilea,De Roma triumphante libri decem... Romae instauratae libri tres,Italia illustrata; Historiarum ab inclinato Romano imperio decades tres. Omnia multo quam antea castigatiora, Froben 1531, 1559 (è compreso anche il De origine gestis Venetorum; le Decadi hanno numerazione di pagine autonoma, e si trovano anche in volume separato; l'impaginazione non varia nelle ristampa del 1559). Le opere minori e le lettere sono raccolte in Scritti inediti e rari di B.F., con introduzione di B. Nogara, in Studi e testi, XLVIII, Roma 1927 (la numerazione araba è relativa ai testi, quella romana all'introduzione). Supplementi all'epistolario sono in: T. Bekynton,Official Correspondence, I,Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, in Rolls Series, London 1872, pp. 169 s., 172 s.; A. Pasini,Un'ignota lettera di B. F..., in Atti e mem. della Deput. di st. patria per la Romagna, s. 4, XXIII (1933), pp. 282 s. La lettera alle pp. 101-104 è data in redazione migliore da A. Wilmanns, in Göttingische gelehrte Anzeigen, 21 (1884), pp. 874-877.
Passi della Roma instaurata sono editi criticamente in R. Valentini-G. Zucchetti,Codice topografico della città di Roma, IV,Fonti per la storia d'Italia, XCI, Roma 1953, pp. 237-255. La sezione inedita delle Decadi è in corso di pubblicazione per un "Quaderno" della rivista Rinascimento.
Edizioni antiche: Decades: Venetiis, Octavianus Scotus Modoetiensis, 1483; ibid., Thomas de Blavis, 1484. Roma instaurata: Romae 1470-71 c. (con De romana locutione; Hain, 3242; Gesamtkatalog der Wiegendrucke, 4422); Veronae, Boninus de Boninis, 1481-82 (con De origine et gestis Venetorum e Italia illustrata; v. C. Perpolli,L'"Actio Panthea" e l'umanesimo veronese, in Atti e mem. dell'Accad. di agricoltura,scienze e lettere di Verona, s. 4, XVI [1915], p. 21); Venetiis, B. Venetus de Vitalibus, 1503 (stesse opere); ibid., G. De Gregoriis, 1510. Italia illustrata: Romae, Philippus de Lignamine, 1474; e inoltre, Augustae Taurinorum, Bartholomeus Sylva, 1527 (a cura di G. Bremio). Un compendio,Flavius de locis et civitatibus Italiae, in P. Victor,P. Laetus,Fabricius Camers,Raffaeles Volterranus de Urbe Romae scribentes…, Bononiae, Hieronimus de Benedictis, 1520 (a cura di G. B. Pio). Roma triumphans: s. l. e d. (Brescia, Georgius et Paulus Theutonici, 1473-75 c.: Hain, 3244,Gesamtkatalog, 4424; v. U. da Como,In brixianam editionem principem librorum de Roma triumphante a F. B. conscriptorum brevis adnotatio, Bologna 1927); Brixiae, Bartholomaeus Vercellensis, 1482; ibid., A. Britannicus, 1503; Venetiis, P. Poncius, 1511; Parisiis, S. Colinaeus, 1533.
La silloge di Gerolamo Biondo è descritta dallo Herschel, F. B., in Serapeum, XV (1854), pp. 225-228, ed edita per la prima volta da O. Lobeck, in Zeitschr. für vergl. Literaturgesch., X (1892), pp. 223-248; XI (1893), pp. 513-541; e in Programm des Gymnasiums zum heiligen Kreuz, Dresden 1892, pp. VII-XXII.
Riduzioni: Decades: Abbreviatio Pii II pontificis maximi supra decades Blondi ab inclinatione romani imperii usque ad tempora Iohannis vigesimi tertii pontificis maximi (1463; ed. princ., Romae 1481; v. Hain, 259); per l'epitome della decade III aggiuntavi da Albino Lucano, v. T. de Marinis,La biblioteca napoletana dei re d'Aragona, Milano 1947, I, p. 102; per l'aggiunta analoga di un sunto incompiuto della decade III, per opera o per conto di D. Domenichi, nel 1476, v. G. Valentinelli,Bibl. Mss. ad S. Marci Venetiarum, Venezia 1873, VI, p. 103. Roma instaurata: per l'epitome di A. Ivani, dedicata nel 1481 a Lorenzo de' Medici, v. R. Valentini-G. Zucchetti,Codice topografico, vol. cit., p. 253. De origine et gestis Venetorum: un sunto di E. S. Piccolomini, in Opera inedita, a cura di G. Cugnoni, in Mem. Acc. Lincei, CCLXXX (1882-83), pp. 482-94.
Volgarizzamenti: Andrea Cambini volgarizzò le intere Decadi (v. Proemio, cit.); il cod. Il, III, 59 della Bibl. Naz. di Firenze, evidentemente il vol. II dell'opera, comincia dal libro VIII, decade II; la traduzione autografa della decade I è in cod. Laurenz. Ashburn. 541. Per la traduzione cinquecentesca del forlivese A. Numai, v. F. Cavicchi,La prima delle Historiarum decades di F. B. volgarizzate da A. Numai, in Atti e mem. della deputaz. di storia patria per la Romagna, s. 4, VIII (1918), pp. 281-296. Una traduzione completa recente delle Decadi èquella di A. Crespi, a cura del comune di Forlì, 1963 (ma 1964).
Le traduzioni di Lucio Fauno uscirono nel seguente ordine: Le Historie di B. da la declinatione di Roma insino al tempo suo (che vi corsero circa mille anni) ridotte in compendio da papa Pio e tradotte in buona lingua volgare…, Venetia, Michele Tramezzino, 1542, 1543, 1544, 1547; Seguito delle Historie del B. tradotte, 1544; Roma ristaurata et Italia illustrata, 1542, 1543, 1548, 1558; Roma trionfante, 1544, 1548, 1549, 1588.
Per le biografie antiche si rimanda a A. Masius,F.B. Sein Leben u. seine Werke, Leipzig 1879 (v. anche U. Chevalier,Répertoire des sources historiques du moyen âge, I, Paris 1905, s.v.); la trattazione più esauriente è di B. Nogara, op. cit. pp. VII-CXCIII. Per notizie e documenti biografici particolari: [A. M. Quirini],Diatriba praeliminaris..., Brixiae 1741; Francisci Barbari et aliorum ad ipsum epistolae, ibid. 1743,passim (e inoltre R. Sabbadini,Centotrenta lettere inedite di F. Barbaro, Salerno 1881, pp. 101 s.; V. Branca, Un codice aragonese scritto dal Cinico. La silloge di epistole di F. Barbaro offerta dal figlio Zaccaria a re Ferrante, in Studi di bibliografia e storia in onore di Tammaro de Marinis, Verona 1964, I, pp. 214 s.); A. Wilmanns, rec. a Masius, in Göttingische geleherte Anzeigen, 2 (1879), pp. 1478-1499; C. Braggio,Giacomo Bracelli e l'umanesimo dei Liguri al suo tempo, in Atti della Società ligure di storia patria, XXIII (1890), pp. 188 ss. dell'estr. e passim; F. Gabotto,Alcune idee di F.B. sulla istoriografia, in La Biblioteca delle scuole italiane, II (1891), pp. 99-103; R. Sabbadini,Note umanistiche. F.B., in Giornale ligustico, XVIII (1891), pp. 301-309; Id., rec. a O. Lobeck, in Giornale storico della lett. italiana, XXI (1898), pp. 425-429; A. M. Kemetter,F.B.'s Verhältnis zu Papts Eugen IV., in Jahresbericht des K. K. Staats-Gynmasiums im VI. Bezirke von Wien,für das Schuljahr 1895-96, Wien 1896, pp. I-XXXVII; L. Colini-Baldeschi,Studio critico su F.B., Macerata 1896; Id.,F.B. segretario del vescovo G. Vitelleschi legato della Marca anconitana, in Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, X (1899), pp. 122-125; A. Zoli,Bagnacavallo dall'anno 1392 al 1408, in Arch. storico italiano, ss, XXI (1898), pp. 110 ss.; S. Bernicoli,F.B. in Ravenna, in Il Ravennate. Corriere di Romagna, n. 278, 14 dicembre 1900; R. Rocholl,Bessarion. Studien zur Geschichte der Renaissance, Leipzig 1904, pp. 103, 164 (e L. Mohler,Kardinal Bessarion, Padeborn 1923, pp. 252, 330); J. Guiraud,La Chiesa e le origini del Rinascimento, trad. it., Siena 1905, pp. 108 ss., 156, 186 s.; G. Mancini,La vita di L. B. Alberti, Firenze 1911,passim; G. Mini,Lo storico F.B. di Castrocaro... ? Studio storico-genealogico-critico (1912), Bibl. com. di Forlì, ms. Piancastelli IV, 58; Epistolario di Guarino Veronese, a cura di R. Sabbadini, Venezia, 1915-19,passim (v. anche A. Momigliano,Per una nuova edizione dell'"Origo gentis romanae", ora in Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp. 182 s.); A. Campana, rec. a Nogara, in La Romagna, XVI (1927), pp. 487-498; Giovanni de M.º Pedrino depintore,Cronica del suo tempo, a cura di G. Borghezio-M. Vattasso, note storiche di A. Pasini, in Studi e testi, L, Roma 1929,passim; LXII, ibid. 1934,passim. Per contributi minori, v. A. Vasina,Cento anni di studi sulla Romagna. Bibliografia storica, Faenza 1963, II, pp. 184 s.
Per l'ambiente d'origine, v. J. Larner,The Lords of Romagna, New York 1965. Per l'ufficio e l'attività diplomatica in Curia, v. A. Lecoy de la Marche,Le roi René. Sa vie,son administration,ses travaux artistiques et littéraires, Paris 1875, II, pp. 245-251; Documenti diplomatici tratti dagli archiji milanesi, a cura di L. Osio, III, Milano 1877, pp. 120 ss.; G. Eroli,Erasmo Gattamelata da Narni, Roma 1879, pp. 236-273; E. von Ottenthal,Die Bullenregister Martin V. und Eugen IV., in Mittheil. des Instit. f. Oesterreich. Geschichtsforschung, Ergänzungsband I, 3 (1885), pp. 431 ss. (v. anche G. Mercati,Ultimi contributi alla storia degli Umanisti,Studi e testi, XC, Città del Vaticano 1939, p. 105); I libri commemoriali della repubblica di Venezia, a cura di F. Predelli, IV, Venezia 1896,passim; W. von Hofmann,Forschungen zur Geschichte der kurialen Behörden, Rom 1914, I, pp. 271 s.; II, p. 111; L. von Pastor,Storia dei papi dalla fine del medioevo, trad. it. A. Mercati, nuova edizione, I, Roma 1931,passim; Epistolae pontificiae ad concilium Florentinum spectantes, a cura di G. Hofmann, in Concilium Florentinum,Documenta et Scriptores, serie A, I, 1-3, Romae 1940-46,passim; Acta Camerae Apostolicae et civitatum Venetiarum,Ferrariae,Florentiae,Ianuae de concilio florentino, a cura di G. Hofmann,ibid., III, 1, Romae 1950,passim; Fragmenta,Protocolli,Diaria privata,Sermones, a cura di G. Hofmann,ibid., III, 2, Romae 1951, pp. 30 ss.; Orientalium documenta minora, a cura di G. Hofmann,ibid., III, 3, Romae 1953, p. 62.
Gli inediti citati nel testo sono segnalati in: F. P. Luiso,Studi sull'epistolario e le traduzioni di Lapo di Castiglionchio juniore, in Studi italiani di filologia classica, VII (1899), pp. 245 s.; p. O. Kristeller,Iter italicum, I, London-Leiden 1963, pp. 11, 33, 245, 335.
Opere. De verbis romanae locutionis: R. Fubini,La coscienza del latino negli umanisti: "an latina lingua romanorum esset peculiare idioma", in Studi medievali, s. 3, II (1961), pp. 505-550, e bibl. ivi cit. Decades, studi specifici: P. Buchholz,Die Quellen der Historiarum Decades des F.B., Naumburg 1881; D. Hay,F.B. and the Middle Ages, in Proceedings of the British Academy, XLV (1959), pp. 97-125; v. anche G. Arnaldi,Come nacque l'attribuzione ad Anastasio del Liber pontificalis, in Bullettino dell'Ist. Stor. Ital. per il Medio Evo, LXXV (1963), pp. 334 ss. Per un inquadramento: G. Romano,Degli studi sul Medioevo nella storiografia del Rinascimento in Italia, Pavia 1892; W. Rehm,Der Untergang Roms in abendländischen Denken, Leipzig 1930, pp. 50 ss.; G. Falco,La polemica sul medioevo, Torino 1933, pp. 19 ss.; E. Fueter,Storia della storiografia moderna, trad. it., Napoli 1944, I, pp. 128-132; W. K. Ferguson,The Renaissance in historical thought, Boston 1948, pp. 20 ss.; B. B. Reynolds,Latin historiography: a survey, 1400-1600, in Studies in the Renaissance, II (1955), pp. 10 ss.; S. Mazzarino,La fine del mondo antico, Milano 1959, pp. 77 ss.; A. Tenenti,La storiografia in Europa dal Quattro al Seicento, in Nuove questioni di storia moderna, II, Milano 1964, pp. 1002 ss. Italia illustrata: G. Uzielli,Paolo dal Pozzo Toscanelli iniziatore della scoperta dell'America, Firenze 1892, pp. 141 ss.; Id.,La vita e i tempi di P. dal Pozzo Toscanelli, Roma 1894,passim; J. Clemens Husslein,F. B. als Geograph des Frühhumanismus, Würzburg 1901; A. Campana,Passi inediti dell'Italia illustrata, in La Rinascita, I (1938), pp. 93-97; Id.,Due note su Roberto Valturio; Valturio e B.F., in Studi riminesi e bibliografici in onore di Carlo Lucchesi, Faenza 1952, pp. 12-17. Roma instaurata e Roma triumphans: Chr. Callmer, F. B., in Skrifter utgivna av Svenska Institutet i Rom, XVIII (1954), pp. 39-49; R. Weiss,B. F. archeologo, in Studi romagnoli, XIV (1963, ma 1965), pp. 335-341; per un inquadramento: G. F. Savagnone,Gli umanisti italiani e la storia del diritto romano, in IlCircolo giuridico, XXIV (1903), pp. 257-281, 291-306; A. Momigliano,Ancient history and the Antiquarian (1950), ora in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 69-77; D. Maffei,Gli inizi dell'umanesimo giuridico, Milano 1956, pp. 114 ss. (rec. di A. Momigliano, ora in Secondo contributo, cit., p. 418 s.); R. Weiss,Lineamenti per una storia degli studi antiquari in Italia dal XII secolo al sacco di Roma nel 1527, in Rinascimento, IX (1958), pp. 162 ss.; E. Mandowsky-C. Mitchell,Pirro Ligorio's Roman antiquities..., in Studies of the Warburg Institute, XXVIII, London 1963, pp. 12 ss.; Per la Roma inst. v. anche G. Scaglia,The origin of an archeological plan of Rome by Alessandro Strozzi, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XXVII (1964), pp. 137-159.
Per giudizi indicativi di contemporanei: B. Fonzio,Oratio in historiae laudationem, in Orationes, s.l. e d. (ma Firenze 1490 c.: Hain, n. 7227), pp. non numerate; R. Maffei (Volterrano),Commentariorum urbanorum libri, XXI, Lugduni 1552, p. 640; E. S. Piccolomini (Pio II),Commentarii rerum memorabilium, Romae 1584, p. 766; L. Crivelli,De vita rebusque gestis Sfortiae bellicosissimi ducis ac initiis filii eius Fr. Sfortiae Vicecomitis Mediolanensium ducis commentarius, in L. A. Muratori,Rerum Italic. Script., XIX, Mediolani 1731, col. 629; B. Sacchi (Platina),Historia urbis Mantuae,ibid., XX, Mediolani 1731, coll. 814 s.; P. Cortesi,De hominibus doctis, a cura di G. C. Galletti, Florentiae 1847, pp. 228 ss.; Vespasiano da Bisticci,Vite di uomini illustri del secolo XV, Bologna 1892, II, pp. 232-234; per un giudizio di A. Patrizi, v. R. Avesani,Per la biblioteca di Agostino Patrizi Piccolomini,vescovo di Pienza, in Mélanges Eugène Tisserand, VI,Studi e testi, CCXXXVI, Città del Vaticano 1964, pp. 26 s. Per saggi sull'uso dei testi di B.: V. Rossi, rec. a G. Lesca,I Commentari di E. S. Piccolomini, in Rassegna bibliografica della letter. italiana, II (1898), pp. 185 s.; L. La Rocca,Il primo libro delle Storie fiorentine di N. Machiavelli e del parallelismo con le Decadi di F. B., Palermo 1904, R. Bersi,Le fonti della prima Decade delle "Historiarum venetarum" del Sabellico, in Nuovo Arch. Veneto, n.s., XIX (1910), pp. 422 ss.; XX (1910), pp. 115 ss.; G. Gayda, prefazione a B. Platina,Liber de vita Christi ac omnium pontificum, in Rerum Italic. Script., 2 ed., III, 1, a cura di G. Gayda, pp. XXXV ss.; F. Guicciardini,Le cose fiorentine, ora per la prima volta pubblicate da R. Ridolfi, Firenze 1945, pp. XXX ss. e passim; A. Rotondò,Pellegrino Prisciani, in Rinascimento, XI (1960), pp. 102 ss.; N. Rubinstein,Poggio Bracciolini cancelliere e storico di Firenze, in Atti e mem. dell'Accademia Petrarca di lettere,arti e scienze di Arezzo, n.s, XXXVII (1958-1964) pp. 230 s.