Biofisica
di Mario Ageno
Biofisica
sommario: 1. Oggetto e limiti della biofisica. 2. Fisica e biologia. 3. Strumenti teoretici disponibili. 4. Il problema centrale della biofisica. 5. Prospettive per il futuro. □ Bibliografia.
1. Oggetto e limiti della biofisica
Forse nessuna delle nuove discipline scientifiche, fondate o proposte negli ultimi decenni, merita la qualifica di ‛scienza del Novecento' quanto la biofisica. La ragione di ciò sta nel fatto che, a differenza di altre, la biofisica può essere definita come corpo di conoscenze organizzate e come campo di ricerca naturalistica, delimitando perfettamente una problematica sua esclusiva e individuandone metodi e strumenti concettuali; problematica, metodi e strumenti che solo a partire dal quarto decennio di questo secolo si sono potuti effettivamente incontrare, permettendoci di passare dalla genericità delle prolusioni accademiche alla concreta fondazione di una nuova disciplina.
Abbiamo detto: ‟può essere definita". In effetti, manca fino ad oggi un accordo generale sul significato da attribuire alla parola ‛biofisica' e l'affermazione precedente, più che come constatazione di un fatto, va intesa come risultato di un'analisi critica, diretta a prevedere la logica conclusione di un movimento di pensiero di per sé ancora notevolmente incerto e confuso. Quale sia in realtà la situazione attuale, lo si può dedurre da un rapido esame dei principali scritti di carattere generale (voci di enciclopedie e trattati specializzati) che sono stati dedicati nell'ultimo quindicennio alla biofisica. Ci limiteremo a pochissimi esempi. Secondo l'Encyclopaedia Britannica (1960), la biofisica comprenderebbe quei campi di ricerca scientifica specializzata che si occupano di quegli aspetti degli organismi per il cui studio e la cui comprensione si richiede una competenza specialistica nella fisica contemporanea". E, a chiarimento di questo punto di vista, si porta l'esempio delle ricerche di microscopia ottica, che avrebbero fatto parte della biofisica ai tempi in cui i pionieri della microscopia fabbricavano essi stessi i loro microscopi, e avrebbero cessato di farne parte da quando (tale fabbricazione essendo passata a ditte specializzate) ci si è potuti fidare ad usare un microscopio, pur senza nulla sapere dei relativi metodi di progettazione e di realizzazione su piano industriale. Per l'Enciclopedia universale Rizzoli-Larousse (1964), ‟la biofisica studia i fenomeni biologici dal punto di vista e con i metodi della fisica": di essa farebbe parte, tra l'altro, la biologia molecolare. L'Enciclopedia della scienza e della tecnica (19664) concepisce la biofisica come quella parte della biologia che si occupa dei problemi al limite tra chimica-fisica e biologia e il cui aspetto fondamentale è l'impiego di metodi e di idee proprie della chimica e della fisica, per studiare e comprendere le strutture degli organismi viventi e i meccanismi dei processi biologici". Ma sin dal 1958, con lo Study program in biophysical science (Boulder, Colorado; pubblicato poi nel 1959 nelle Reviews of modem physics" e come volume a sé stante dall'editore J. Wiley, New York) un diverso orientamento, meno superficiale e più critico, si andava affermando. Lo Study program è stato progettato in modo da vedere i problemi biologici come attraverso gli occhiali del fisico e da studiarli facendo uso dei concetti e dei metodi della fisica. L'accento si sposta dalle apparecchiature alle idee generali; prendere in considerazione quegli aspetti dei fenomeni biologici che si prestano all'impiego delle idee e dei metodi propri della fisica e della chimica, non è più considerato sufficiente: ci si avvia ormai a saltare il fosso, ad affrontare il fenomeno biologico considerandolo sotto ogni aspetto un fenomeno fisico.
Nei non molti trattati di biofisica non specializzati pubblicati negli ultimi anni (ci limitiamo a citare quelli di Setlov e Pollard, di Ackerman, di Casey, di Snell, Shulman, Spencer e Moos) le ambiguità e gli equivoci delle voci enciclopediche si ripresentano e nella scelta dei temi e nella presentazione delle idee generali. E non diversa è, di solito, la situazione per ciò che riguarda i corsi universitari di biofisica, nonché l'elenco lungo ed eterogeneo dei temi ammessi ai congressi internazionali di tale materia (Stoccolma, 1961; Vienna, 1965; Cambridge, Massachusetts, 1969; Mosca, 1972), elenco che viene spesso usato, a fini pratici, come una definizione implicita della parola ‛biofisica', mentre la discussione su che cosa sia la ‛biofisica' si riaccende puntualmente a ogni riunione di ricercatori che lavorano in questo campo. Tale dunque la situazione, caratterizzata tuttavia da una certa tendenza a un progressivo approfondimento critico e dal graduale emergere di definizioni individuanti una problematica sempre meno eterogenea.
Così stando le cose, non si può evitare di porsi un certo numero di domande di carattere generale, formulando esplicitamente alcuni problemi di metodo. Ha un senso, innanzi tutto, al di fuori dell'ambito strettamente scolastico e di informazione culturale, la ricerca di una definizione per una disciplina scientifica, o non si tratta invece di una questione di rilevanza pressoché nulla, sempre superata dalla realtà e concretezza dei problemi di ricerca che, di fatto, ci troviamo davanti? Fissare esplicitamente il significato che intendiamo dare a una parola è semplicemente una convenzione e tutte le convenzioni sono arbitrarie. Tuttavia, le varie convenzioni possibili sono in pratica, quali più quali meno, utili come strumenti per pensare e per dirigere le nostre azioni. Se la convenzione in parola deve precisare i contenuti e i limiti di una disciplina scientifica, essa non può non corrispondere a una riflessione approfondita sui dati obiettivi che si offrono alla nostra osservazione e alla nostra indagine e, insieme, a una precisa presa di coscienza delle nostre intenzioni: deve da un lato portare alla individuazione di una problematica precisa e omogenea e dall'altro a un esame attento degli strumenti concettuali di cui disponiamo e a una scelta di quelli di cui intendiamo servirci. In tal modo, la definizione diventa di fatto un primo passo verso la costruzione della disciplina in questione: fissarla significa incominciare ad aggredire una certa categoria di problemi scientifici, attraverso la scelta di un preciso orientamento per la loro risoluzione.
La discussione su che cosa si debba intendere per biofisica non è dunque semplicemente un'oziosa discussione di tipo scolastico e non è neppure una di quelle dietro le quali si celano semplicemente interessi materiali di gruppi accademici (cattedre, fondi per ricerca e così via): apre in un certo senso la strada a una decisione circa l'impostazione che intendiamo dare allo studio dei rapporti tra fisica e biologia. Coglierne gli orientamenti che sembrano oggi sul punto di prevalere, cercare di portarli alle loro logiche conclusioni, non significa pestare acqua in un mortaio, ma dare uno sguardo a quelli che saranno, presumibilmente, i problemi di ricerca del futuro. Per questo riteniamo che valga la pena di riesaminare attentamente la questione.
Rifarsi al significato etimologico della parola ‛biofisica' è troppo vago e generico per essere utile; nè ricorrere all'elenco dei temi di ricerca ammessi ai congressi internazionali di biofisica rappresenta un criterio ragionevolmente fondato, ma solo un compromesso di carattere pratico, che non riesce a nascondere e tanto meno a superare il circolo vizioso, implicito in una scelta del genere.
Il parlar di biofisica quando, nel portare avanti una ricerca biologica, si renda necessaria una competenza specialistica nella fisica contemporanea, offre il fianco a critiche di vario tipo, che dimostrano l'inconsistenza di una simile posizione concettuale. Se la competenza specialistica riguarda le apparecchiature e più in generale le tecniche sperimentali di cui si è portati a far uso, è chiaro che qualunque apparecchiatura, dal cilindro graduato al microscopio elettronico, dalla lente di ingrandimento alla ultracentrifuga analitica, è di carattere fisico e che l'uso corretto e proficuo di un termometro a quarzo o di un microcalorimetro può richiedere una competenza specialistica nella fisica contemporanea diversa ma non inferiore a quella richiesta da un apparecchio di risonanza magnetica o da uno spettropolarimetro. Si può dire che non vi sia oggi ricerca sperimentale che non richieda l'impiego di apparecchiature complesse, usate ai limiti delle loro possibilità. Per l'uso pratico di queste apparecchiature il ricercatore biologo è costretto molto spesso ad affidarsi a un tecnico specializzato di formazione fisica, col quale instaura quindi una collaborazione. Questa collaborazione può naturalmente anche indurre il tecnico ad approfondire gli aspetti biologici della sua attività e il biologo a riflettere sui principi fisici su cui sono basate le tecniche di cui fa uso. È tuttavia chiaro che l'impiego di queste tecniche, sia pure accompagnate da una conoscenza approfondita, non è di per sé sufficiente a caratterizzare il campo cui il lavoro di ricerca in atto effettivamente appartiene. Non sono le tecniche, in altre parole, ad assicurare l'omogeneità della problematica: nessun problema scientifico complesso (come lo sono di fatto i problemi biologici) può esser oggi affrontato con successo, se non facendo uso contemporaneamente di molte tecniche sostanzialmente diverse, nessuna delle quali trova impiego esclusivo in campo biologico.
Molte di queste tecniche, d'altra parte, sono correntemente usate anche nelle discipline biologiche ‛classiche', per le quali esistono da tempo una definizione e un nome, che sarebbe veramente assurdo voler cambiare soltanto a causa dei più recenti sviluppi. Basti citare come esempio la microscopia elettronica, che trova impiego nei più svariati campi di ricerca biologici e non biologici, e in particolare nello studio delle strutture dei tessuti sia normali sia patologici: perché mai dovremmo chiamare ‛biofisica' i più recenti sviluppi dell'istologia? In generale, possiamo dire che al riconoscimento di una verità scientifica, alla scoperta di un fatto, alla formulazione di una legge si può giungere per molte strade diverse: la collocazione che poi il fatto o la legge assumono, nel quadro ordinato della conoscenza scientifica, non ha una diretta relazione coi procedimenti che hanno portato per la prima volta a essi, ma dipendono dal modello della realtà naturale che noi abbiamo adottato in base all'intero complesso dei dati dell'osservazione e dell'esperienza.
Se invece la competenza specialistica nella fisica contemporanea - che sarebbe richiesta perché di fronte a un problema biologico di ricerca si possa parlare di biofisica - è una competenza che riguarda essenzialmente l'apparato concettuale e le leggi fondamentali della fisica, allora è necessario fare un discorso del tutto diverso. Gli organismi viventi sono, anche e innanzi tutto, sistemi materiali; si verifica quindi in essi una quantità di fenomeni, non particolarmente legati alla loro qualità di ‛viventi', per spiegare i quali è necessario e sufficiente ricorrere (come si fa per tutti gli altri sistemi materiali non viventi) a concetti e leggi della fisica. Ciò facendo, si assumono, come date direttamente dall'esperienza, l'esistenza e la struttura dei sistemi in questione e si rimane sempre nell'ambito di ben note discipline scientifiche classiche: non sembra davvero necessario fare uso della parola biofisica quando si tratti di spiegare la caduta del gatto o di studiare il comportamento osmotico di una membrana cellulare. La fisiologia fa uso sistematico di concetti e leggi della fisica per descrivere i processi che avvengono negli organismi viventi e non si vede una ragione per cambiarle nome. Quella che viene da taluni chiamata ‛biofisica non molecolare' non è in realtà, per la maggior parte almeno, che pura e semplice fisiologia.
Accettata come un dato di fatto l'esistenza della fisica e della biologia come discipline fondamentali, l'introduzione tra queste di una nuova disciplina richiede dunque, ovviamente, due distinte precisazioni. Da un lato occorre delimitare il campo della disciplina in questione, la categoria di fenomeni naturali di cui la nuova scienza intende occuparsi; d'altro lato, occorre chiarire a quale livello conoscitivo ed esplicativo essa intenda collocarsi. In altre parole, è necessario dire che cosa essa si proponga di studiare e di spiegare, e quali siano le conoscenze fondamentali ch'essa ritiene acquisite e alle quali intende riportare i nuovi fatti accertati.
Vediamo dunque dove ci portano questi criteri, applicandoli al caso della biofisica. È chiaro che, se vogliamo non tradire completamente il significato etimologico della parola, il carattere interdisciplinare della biofisica deve necessariamente accordarsi con un complesso di problemi e domande che appartengono al campo proprio della biologia. Biofisica non potrà dunque essere altro che un certo modo di organizzare e di interpretare, o spiegare, i fatti biologici, o almeno una parte di essi.
Premesso questo punto fondamentale, resta naturalmente da chiarire in che cosa la biofisica si differenzi dalla ordinaria biologia (e dalle singole scienze biologiche particolari). A questo fine può guidarci il secondo dei criteri precedentemente considerati. La condizione necessaria per caratterizzare la biofisica, sia come campo di ricerca, sia come complesso di conoscenze scientificamente organizzate, risulta evidentemente in rapporto diretto, a livello esplicativo, con la fisica e i suoi principi fondamentali.
Se vogliamo dunque rimanere fedeli da un lato ai principi metodologici che abbiamo discusso e dall'altro al significato etimologico della parola biofisica, dobbiamo precisare i contenuti e definire i limiti della disciplina in questione dicendo che la biofisica assume come dati di partenza conosciuti i principi generali della fisica (e tutte le note conseguenze che da essi derivano per via deduttiva) e si propone di spiegare in base a essi la possibilità dell'insorgere di sistemi quali gli organismi viventi, nonché l'intera complessa fenomenologia cui questi danno luogo".
Si osservi che tra la biofisica così definita e la fisiologia c'è la stessa differenza che corre tra la odierna teoria della struttura della materia e la chimica classica: quest'ultima accettava come dato primitivo sperimentale l'esistenza dei vari tipi di atomi e le loro capacità di combinazione, mentre la prima ‛spiega' come si vengono a costituire i vari oggetti fondamentali della chimica, con tutte le loro proprietà, a partire da pochi tipi di particelle fondamentali. In modo analogo, la fisiologia dà per scontata l'esistenza degli organismi viventi e si sforza di spiegarne le proprietà e le caratteristiche facendo uso dei principi della fisica e della chimica. La biofisica, invece, si propone di spiegare come tra gli innumerevoli sistemi fisici possibili ve ne siano taluni dotati delle proprietà e caratteristiche tipiche degli organismi viventi. Come la teoria atomica e molecolare della materia ha portato a una completa ‛fisicalizzazione' della chimica sul piano concettuale, in quanto la chimica ha trovato nei principi della fisica la giustificazione di tutte le sue assunzioni fondamentali, così ciò che la definizione precedente propone è una completa ‛fisicalizzazione' della biologia.
Sarebbe tuttavia molto ingenuo credere di aver con ciò risolto un qualsiasi problema. Quel punto di vista, per quanto sembri l'unico capace di assegnare alla biofisica una problematica definita e omogenea indipendente da quella di tutte le altre discipline preesistenti, anziché dare una risposta conclusiva alla nostra domanda iniziale, pone tutta una serie di altri interrogativi che non si possono certamente ignorare, se si vuole che la definizione abbia un senso. Bisogna, in altre parole, dimostrare che la biofisica così definita rappresenta un campo di ricerca alla cui esplorazione ci si puo', in concreto, dedicare e che di essa fa già parte un certo complesso di cognizioni scientifiche suscettibile di essere organizzato in vista degli obiettivi proposti: a tal fine è necessaria un'analisi approfondita delle caratteristiche strutturali generali della fisica e della biologia, scienze così diverse tra loro.
2. Fisica e biologia
La possibilità di una completa ‛fisicalizzazione' della biologia rappresenta un'idea oggi molto diffusa in campo biologico. I grandi successi della biologia molecolare hanno spinto molti a considerare questa possibilità ovvia e anzi addirittura scontata.
È necessario però dire che la situazione non è così semplice, come vorrebbe fare apparire questa corrente di pensiero piuttosto superficiale, e che di fatto vi sono, come vedremo tra poco, anche altre correnti di pensiero orientate in modo del tutto diverso. L'orientamento ‛fisicalista' in biologia prende spunto, implicitamente, dall'esempio costituito dal processo di ‛fisicalizzazione' della chimica, cui abbiamo già accennato; processo avvenuto intorno agli anni trenta, quando la meccanica quantistica riuscì a dar conto della struttura e della stabilità degli atomi e delle molecole. Ma le relazioni tra fisica e biologia sono assai meno semplici e, sul piano teorico, assai meno ovvie di quelle tra fisica e chimica.
Possiamo rendercene conto facilmente, osservando che la fisica si basa essenzialmente sui risultati di esperimenti, descritti mediante un appropriato sistema di concetti. Eseguire un esperimento significa in sostanza prendere un certo gruppo di oggetti, o corpi materiali, metterli in condizioni tali che il loro stato non venga a dipendere (per quanto possibile) dalle contingenze di spazio e di tempo in cui ci troviamo ad operare, eseguire su di essi un intervento perfettamente controllato e osservare quali cambiamenti ne derivano. Con ciò, la fisica opera una netta distinzione tra le condizioni iniziali dei sistemi che considera e le leggi universali cui tali sistemi eventualmente sottostanno: la fisica si propone di enunciare tali leggi per qualunque possibile scelta delle condizioni iniziali. Queste ultime non fanno dunque parte della teoria fisica vera e propria. Nei casi concreti, cui potrà essere via via applicata, esse rappresentano i dati del problema: fatti speciali in cui è confinato ogni elemento contingente, mentre il corpo della teoria, formato dalle leggi universali, ha carattere astratto ed essenzialmente astorico. Lo spazio e il tempo che compaiono nelle leggi universali della fisica non sono lo spazio e il tempo reali, ma solo parametri descrittivi dei risultati che si ottengono mediante l'impiego degli artefatti sperimentali. Un discorso del tutto analogo si poteva fare per la chimica classica sorta e sviluppatasi a partire da principi propri, ancora indipendenti da quelli della fisica. Ma la situazione è del tutto diversa per ciò che concerne, ancor oggi, la biologia.
Una teoria fisica ha sempre la forma di un sistema logico-deduttivo che si sviluppa, a partire da pochi concetti fondamentali e da alcune leggi universali di carattere estremamente generale, fino a formulare le leggi sperimentalmente valide di tutti i fenomeni che la teoria riesce a spiegare. Se una tale teoria deve essere in grado di inquadrare anche tutti i fenomeni biologici, alla biologia stessa si deve poter dare la forma di un sistema logico-deduttivo. Può effettivamente la biologia assumere la forma di un sistema logico- deduttivo? Questa è la domanda fondamentale alla quale bisogna prima di tutto dare una risposta.
Ma dare una risposta fondata non è facile. Come la fisica, anche la biologia è una scienza sperimentale, nel senso che anche in essa l'esperimento ha un'importanza fondamentale e che solo attraverso esso possiamo renderci conto di come gli organismi viventi sono strutturati e di come funzionano. Tuttavia l'importanza che assume l'esperimento in biologia è assai minore che in fisica. Gli organismi viventi sono dei sistemi estremamente complessi ed estremamente improbabili, che nascono e muoiono. Le specie evolvono, si modificano lentamente col succedersi delle generazioni. Il biologo che si trova davanti una struttura tipica di una specie vivente, o un fatto biologico generale in una certa categoria di organismi, non può senz'altro dire: ‟sono in presenza di una legge che deve potersi inserire nel sistema logico-deduttivo della teoria fisica". Al contrario, egli sarà portato prima di tutto a riflettere sul come le soluzioni adottate dagli organismi odierni siano condizionate dalle soluzioni precedentemente adottate da altre specie oggi estinte. E quand'anche il biologo fosse riuscito a ricostruire tutta la strada seguita dall'evoluzione, non ne saprà alla fine molto di più circa la possibilità di inserire i fatti biologici nel sistema deduttivo della fisica. Il fatto è che in questo campo l'esperimento ha possibilità limitate: non possiamo fare l'esperienza dell'estinzione dei dinosauri. Così, mentre la fisica colleziona classi di fatti ripetibili, la biologia, come la storia umana, resta costituita da una successione, in tempo reale, di eventi singoli che non possiamo controllare o ripetere. La biologia è, di fatto, essenzialmente una scienza storica.
L'analogia con la storia umana (e si tratta forse di qualche cosa di più di una semplice analogia) mette chiaramente in luce quale sia il carattere del legame che collega tra loro i successivi eventi mutazionali di cui è costituita la storia evolutiva di una specie. Un'opera storica (historia rerum gestarum) è costituita dalla narrazione di una successione di eventi, ciascuno dei quali crea le condizioni perché il successivo possa verificarsi: capire la storia, significa prima di tutto riuscire a rendersi conto di questo legame, di come ciascun evento sia appunto reso possibile dai precedenti. Ma ciò non significa che questi siano la causa di quello, nel senso in cui la parola ‛causa' è generalmente usata in campo scientifico. Più propriamente, possiamo dire che ciascun evento della successione ha nel precedente (o nei precedenti) la sua ‛causa occasionale', mentre resta del tutto impregiudicata la questione della eventuale esistenza di ‛cause efficienti', la questione del determinismo o indeterminismo nelle azioni umane. In modo perfettamente analogo, il legame che noi constatiamo alla base della storia evolutiva di una specie è un legame di cause occasionali, non di cause efficienti. Molte considerazioni sul carattere deterministico dell'evoluzione biologica (v. Rensch, 1960; v. Dobzhansky e Boesiger, 1968) sono in realtà fondate sull'identificazione talora inavvertita e acritica, talora intenzionale ed esplicita, di causa occasionale e causa efficiente. Certamente, noi possiamo, con Darwin, affermare il carattere rigorosamente deterministico dell'evoluzione: ciò facendo, ci ricolleghiamo alla cosmologia della fisica classica, concependo, con Newton e Laplace, il mondo come costituito da particelle materiali in movimento regolate da leggi universali e immutabili. Ma ciò non ha alcun fondamento nell'esperienza e non inserisce il fatto evolutivo nel sistema deduttivo della fisica: ricollega l'intera evoluzione non alle leggi universali, ma alle condizioni iniziali, a quei fatti speciali che, come abbiamo già detto, non fanno propriamente parte della teoria scientifica, ma semplicemente giustificano ciò che oggi in concreto osserviamo nel mondo che ci circonda. E, inoltre, una tale concezione deterministica, se da un lato riconduce il fatto dell'evoluzione biologica al normale operare delle leggi universali del mondo fisico, dall'altro fa giustizia della stessa teoria darwiniana, distruggendone le fondamenta: la selezione naturale non risulta più essere un effettivo meccanismo, così chiaro e intuitivo, capace di giustificare l'evoluzione, ma soltanto un nome dato alla nostra reale incapacità di analizzare il modo d'agire estremamente complesso delle leggi naturali, a partire da condizioni iniziali già contenenti in nuce l'intera evoluzione. Se poi rifiutiamo ogni concezione deterministica per l'evoluzione biologica, allora la selezione naturale riacquista tutto il suo significato di reale, efficace meccanismo di adattamento della specie all'ambiente, ma contemporaneamente i fatti evolutivi divengono fatti storici, cioè singoli, irripetibili e cade ogni possibilità di collegamento con le condizioni iniziali del mondo.
La teoria fisica vera e propria si disinteressa, come abbiamo detto, di tutti gli aspetti contingenti, storici, evolutivi dei sistemi che considera e quindi anche del mondo in cui viviamo, lasciandoli ad altre scienze, in particolare alla cosmologia. Una simile operazione in biologia, prima ancora che priva di senso, sarebbe impossibile, proprio perché la biologia non è basata esclusivamente sul risultato di esperimenti, per cui manca fin dall'inizio la possibilità di una separazione sistematica tra condizioni iniziali (da noi prescelte) dei sistemi sperimentali in istudio e risposta di tali sistemi alle sollecitazioni introdotte. Non sembra possibile capire le strutture biologiche che oggi si osservano e i processi che in esse si svolgono se non in una prospettiva che comprenda anche strutture ed eventi del passato, cioè appunto in una prospettiva essenzialmente storica.
Così la biologia, come scienza storica, si inserirà piuttosto in una concezione generale cosmologica, e la fisica, anziché fungere per essa da scienza di base (com'è oggi per la chimica), non potrà che fornire a essa strumenti esplicativi (così come li fornisce appunto alla cosmologia) utili per descrivere in modo semplice e prevedere l'esito di complicati processi, operanti tuttavia sempre su una realtà di fatto esterna alla teoria fisica stessa.
Queste considerazioni, sulla struttura della fisica e della biologia e sulle relazioni tra le due discipline, ci suggeriscono quale potrà essere, nelle sue linee generali, il modus operandi della biofisica.
Ciò che non bisogna dimenticare è che la teoria biologica è una rappresentazione (sia pure parziale) del mondo, concepita in termini di spazio e di tempo reali, una teoria scientifica dell'uomo nel mondo che lo circonda. Ciò che con essa può venir messo a confronto, in vista di un accordo e di una unificazione finale, non sono le teorie logico-deduttive (astratte e astoriche) della fisica, ma necessariamente una rappresentazione cosmologica in cui leggi universali e fatti particolari sono fusi in una unità irripetibile, descritta anch'essa in termini di spazio e di tempo reali.
Quali possano essere i caratteri essenziali di questa rappresentazione cosmologica dipende dal tipo di teoria fisica che noi riteniamo idonea a inquadrare, accanto ai fenomeni del mondo inanimato, anche quelli che si verificano negli organismi viventi o a cui comunque partecipano tali organismi. Se, per esempio, ritenessimo che la teoria fisica valida nel campo dei fenomeni macroscopici, cioè in sostanza la fisica classica, sia sufficiente allo scopo, dovremmo partire dalla considerazione che, in essa, l'andamento di ogni singolo processo o fenomeno è rappresentabile mediante equazioni differenziali. Si tratta dunque di una teoria da cui discende direttamente una rappresentazione del mondo del tutto analoga a quella newtoniana, particelle in moto regolate da leggi universali e immutabili, altrettanto rigidamente deterministica quanto la rappresentazione del mondo di Laplace. Il divenire del cosmo è concepito come un'unica illimitata catena di eventi, ciascuno dei quali è l'unica conseguenza possibile dei precedenti, tutti quindi implicitamente contenuti nelle condizioni iniziali dell'universo e in base a queste quindi, in linea di principio, calcolabili e prevedibili.
Ma se, invece, concludessimo che la teoria fisica idonea a rappresentare e descrivere anche i fatti biologici è la meccanica quantistica non relativistica, la rappresentazione cosmologica precedente dovrebbe essere respinta come non valida e anzi priva di senso, in un mondo in cui le condizioni iniziali classiche del moto di una qualsiasi particella (cioè posizione e velocità iniziale) non possono di fatto essere mai assegnate, comportando una tale assegnazione una violazione del principio d'indeterminazione. Quale rappresentazione cosmologica dovremmo in tal caso mettere a confronto con la teoria biologica, in vista di una possibile unificazione delle due? Il, quadro teoretico disponibile non escluderebbe ovviamente la meccanica classica, ma la comprenderebbe come caso limite, valido per i sistemi a livello macroscopico, mentre gli eventi elementari a livello degli atomi e delle molecole sarebbero essenzialmente dominati dal principio d'indeterminazione e dalle sue conseguenze. La teoria sarebbe dunque ancora una teoria deterministica, in quanto sviluppantesi ancora mediante l'impiego di equazioni differenziali, ma deterministica solo al livello della distribuzione della probabilità tra i vari esiti alternativi a priori possibili per ciascun processo, mentre a livello del singolo evento elementare la scelta effettiva sarebbe del tutto imprevedibile.
In un tale quadro teoretico, gli aspetti fondamentali per una rappresentazione cosmologica valida, sembrano essere: a) il secondo principio della termodinamica, da cui discende che nessun processo macroscopico può prodursi, se non è in qualche forma disponibile dell'energia libera che possa, nel corso del processo stesso, essere dissipata in forma di energia termica; b) il principio d'indeterminazione, in conseguenza del quale non è possibile prevedere un evento a livello atomico o molecolare in base alla conoscenza degli eventi precedenti; per esempio, non è possibile prevedere l'esito dell'urto tra due particelle, conoscendo tutto ciò che è possibile conoscere sullo stato del sistema da esse costituito prima dell'urto; c) l'esistenza di sistemi amplificatori, capaci di portare a livello macroscopico le conseguenze di un singolo evento elementare, quali per esempio un contatore di Geiger capace di rivelare il passaggio di una singola particella elementare attraverso il suo volume sensibile o una lastra fotografica in cui un elettrone veloce rende sviluppabili i singoli cristallini di bromuro d'argento che gli accada di attraversare. Questi sistemi amplificatori o dispongono di una riserva di energia libera allo stato metastabile (per es. la sorgente di differenza di potenziale che alimenta il contatore di Geiger o l'energia potenziale chimica delle sostanze presenti nello strato sensibile della lastra fotografica) o sono attraversati essi stessi da un flusso continuo di energia libera in via di degradazione nel corso dei processi che in essi si svolgono, flusso che dall'evento elementare in questione può essere bruscamente deviato da un canale a un altro.
La rappresentazione cosmologica che ne deriva può essere utilmente messa a confronto con quella deterministica di Laplace. L'unica illimitata catena di eventi causalmente determinati della cosmologia laplaciana risulta ora - in un ambiente, come la biosfera terrestre, che disponga di convenienti sorgenti di energia libera - spezzata in tante catene analoghe, tutte di eventi macroscopici causalmente collegati, tutte completamente indipendenti e non correlate tra loro: ciascuna di esse ha inizio in un evento elementare casuale le cui conseguenze vengono trasferite a livello macroscopico dal sistema in cui tale evento si verifica; ciascuna di esse dispone di una certa riserva di energia libera ed è, a norma del secondo principio, sempre di lunghezza finita, la fine essendo appunto determinata dalla dissipazione totale dell'energia libera disponibile.
Questi due esempi richiamano la nostra attenzione su un aspetto assai importante comune a ogni tentativo di ‛fisicalizzazione' della biologia, sul quale ritorneremo brevemente in seguito. Quando una teoria scientifica è elaborata in forma di un sistema logico-deduttivo basato essenzialmente sui risultati di esperimenti (sia pure opportunamente schematizzati e idealizzati), è relativamente facile mantenerla esente o quasi da elementi metafisici spuri. Ma una rappresentazione del mondo, ne siamo o no consapevoli, contiene sempre molto di più del risultato degli esperimenti; al di là delle schematizzazioni e delle idealizzazioni inevitabili, ci induce a muoverci in una certa direzione, ci mette di fronte a problemi di natura diversa da quella che siamo abituati a conoscere e che siamo soliti affrontare nell'ambito proprio ed esclusivo della ricerca scientifica.
3. Strumenti teoretici disponibili
Abbiamo così fatto vedere quale sia l'unico significato che si può dare a qualsiasi programma di ‛fisicalizzazione' della biologia. Con ciò non abbiamo tuttavia esaurito l'elenco dei problemi che automaticamente si pongono quando si accetta come definizione di biofisica quella a cui siamo pervenuti alla fine del primo capitolo, e verso cui sembra si stia orientando sempre più il pensiero critico dei ricercatori. Adesso è necessario dimostrare che tale definizione ha sul terreno pratico un senso. In primo luogo, dobbiamo far vedere che esiste effettivamente ed è a nostra disposizione una teoria fisica, cioè un complesso integrato di principi generali e un conseguente schema logico-deduttivo, che possa prestarsi a inquadrare, nel senso precedentemente chiarito, accanto ai fatti del mondo inorganico, anche tutti i fenomeni biologici. In secondo luogo, dopo aver dimostrato che la biofisica è, in linea di principio, possibile, dovremo anche far vedere che essa non è più oggi una scienza totalmente vuota, che si riduce cioè a un titolo e a delle buone intenzioni, ma che è ancora di fatto completamente priva di contenuti.
Per ciò che riguarda il primo punto, possiamo condensarlo nella seguente domanda precisa: siamo noi già in possesso di strumenti concettuali adeguati, utili non soltanto a descrivere in modo razionale i fatti fondamentali della fisica e della chimica, ma anche tali da permettere almeno di avviare l'inquadramento dei fenomeni della vita?
La principale fonte di dubbio in relazione a questa domanda sta nel fatto che non siamo attualmente in possesso di nessuna teoria fisica che si sia dimostrata capace di inquadrare, almeno in linea di principio, tutti i fenomeni fisici conosciuti. Tutte le nostre attuali teorie hanno una validità limitata e la fisica delle particelle elementari (sia essa o no la presunta matrice dei postulati fondamentali di ogni teoria scientifica dei fenomeni naturali) è ben lontana dall'aver raggiunto una qualsiasi sistemazione logicamente coerente e ragionevolmente completa. Dovremo dunque contentarci di vedere se, tra le teorie approssimate, parziali, di cui disponiamo, non ve ne sia una che possa fondatamente ritenersi idonea a descrivere approssimativamente anche i fenomeni della biologia. Non potrà tuttavia trattarsi che di una soluzione approssimata e provvisoria del problema. È questa senza dubbio una riserva necessaria, di cui non si può non tener conto.
Ma anche al di fuori, e al di là, di tali riserve, le opinioni relative alla utilizzabilità degli strumenti teorici di cui disponiamo, ai fini di una eventuale ‛fisicalizzazione' della biologia nel senso sopra chiarito, sono assai discordanti. È singolare che le maggiori riserve in proposito non vengano, come sarebbe naturale attendersi, da biologi, ma soprattutto da fisici. Numerosi fisici (e tra essi vi sono nomi di primissimo piano, come quello di E. P. Wigner) hanno espresso in proposito opinioni che, facendo riferimento a una antica disputa relativa alla natura dei fenomeni della vita, possono definirsi neovitalistiche. Ciò che sembra soprattutto influenzare in modo determinante il pensiero di questi fisici, orientandolo appunto verso concezioni neovitalistiche, è da un lato il carattere evolutivo della vita (intesa qui come processo globale), che procede dagli organismi più semplici verso organismi sempre più complessi, con l'affermarsi di sempre nuove qualità e caratteristiche soggette a leggi ‛emergenti' di nuovo tipo; e, d'altro lato, la convinzione che dei fenomeni della vita fa parte anche l'umana consapevolezza di sé, la coscienza (v. Wigner, 1961), di cui non si saprebbe come fare una teoria, nei termini dell'attuale apparato concettuale della fisica. Questa corrente di pensiero in fisica può mettersi in relazione, come vedremo, con un ampio movimento di idee che tende a rimettere in discussione l'interpretazione probabilistica della meccanica quantistica (la cosiddetta ‛interpretazione di Copenaghen'), partendo dal presupposto, ovviamente di carattere metafisico, che solo una teoria fisica sanamente deterministica possa essere intellettualmente soddisfacente. Si tratta in ambedue i casi del ritorno, sia pure con argomenti e prospettive in parte nuovi, a posizioni che si ritenevano ormai definitivamente superate (v. cibernetica).
D'altra parte non è che le posizioni neovitalistiche non offrano il fianco a critiche, in realtà anche troppo facili. L'idea che l'evoluzione, sia pure attraverso molteplici tentativi falliti, deviazioni e ritorni, finisca tuttavia sempre col portare da organismi più semplici verso organismi più complessi, dotati di qualità e capacità sempre nuove, è in effetti in linea di principio discutibile: vi è certamente un limite alla complessità che un organismo può raggiungere con vantaggio evolutivo, un optimum di carattere chimico-fisico oltre il quale ogni possibile aumento di complessità rappresenterebbe uno svantaggio e una perdita, sul piano evolutivo. La necessità di introdurre nuovi concetti, per la descrizione di sistemi molto più complicati di quelli che si considerano solitamente nella fisica del mondo inanimato, non rappresenta di per sé un ostacolo all'impiego, per la comprensione dei fenomeni biologici, di una teoria fisica. Questa potrà benissimo richiedere di essere ampliata in proporzione alla complessità dei sistemi a cui la si vuole applicare, senza che per questo il nucleo dei concetti e dei postulati fondamentali, a partire dai quali il sistema deduttivo si sviluppa, venga sostanzialmente alterato. Quanto poi all'idea che una ‛fisicalizzazione' della teoria biologica comporti necessariamente una teoria oggettiva, in termini di concetti fisici, della consapevolezza di sé, si tratta soltanto di uno strano equivoco che dipende in sostanza dal confondere i modelli mentali, a cui noi ricorriamo per ordinare i dati empirici e che ci aiutano a pensare, a prevedere e a regolare le nostre azioni, con la stessa realtà. Mente e mondo esterno, così come ordinariamente ce li raffiguriamo, non sono che modelli parziali della realtà costruiti in modo da escludersi a vicenda: chiedere di ritrovare e ridefinire nell'uno una parte della realtà che ne è stata esclusa all'inizio per comprenderla nell'altro modello è una richiesta che comporta contraddizione. Ma su questo punto ritorneremo nell'ultimo capitolo.
Alla corrente neovitalistica si contrappone poi una corrente molto vivace che si potrebbe, per analogia, chiamare neomeccanicistica. Si può dire che a essa appartenga oggi il grosso dell'esercito dei ricercatori sperimentali in campo biologico, soprattutto i biologi molecolari, i quali non si pongono, di solito, troppi problemi di principio. Ciò che essi vogliono e ciò che li preoccupa è di riuscire a spingere lo sguardo il più avanti possibile nel mondo dei fenomeni. Non si chiedono neppure se le leggi della fisica possano o no essere sufficienti a descrivere i fenomeni della vita: lo ammettono a priori e vanno avanti, servendosi anche dei principi della fisica, quando se ne presenti l'occasione. Si tratta, di solito, di un atteggiamento euristico, che non dà in pratica alcun reale contributo alla soluzione dei problemi di fondo e che si traduce in una sorta di conservatorismo scientifico, derivante da insufficiente consapevolezza metodologica e, talora, anche da difetto di immaginazione.
In complesso, queste contrastanti opinioni, che vanno dall'affermazione dell'incapacità di qualunque teoria fisica di inquadrare i fatti della biologia all'accettazione acritica della teoria fisica corrente quale strumento di lavoro idoneo, sembrano piuttosto essere il riflesso di convinzioni aprioristiche, di carattere metafisico, che non il risultato di una consapevole analisi di carattere scientifico. Una tale analisi è probabilmente ancora in buona parte da fare e pur tuttavia vi sono argomenti anche assai semplici che sembrano indicarci quale sia la strada da seguire.
I fatti fondamentali della biologia si svolgono, per quanto ne sappiamo, a livello molecolare. Quali che siano le cause o le forze che determinano negli organismi certi eventi che possiamo chiamare a tale livello elementari, è certo che i processi fisico-chimici, che negli organismi si svolgono, amplificano le conseguenze di quegli eventi elementari, portandoli alla fine a livello macroscopico. Così, ogni alterazione di carattere molecolare a livello del genotipo, attraverso i processi di sintesi degli enzimi, si traduce generalmente in alterazioni del fenotipo, cioè della struttura e del comportamento dell'organismo, quali appaiono all'osservazione diretta.
L'esistenza, empiricamente accertata, di questa base molecolare dei fenomeni biologici porta evidentemente ad escludere che tali fenomeni possano essere descritti facendo uso esclusivamente della meccanica classica che, pur valida a livello macroscopico, è, come sappiamo, incapace di spiegare anche solo la stabilità degli atomi e dellemolecole. L'approssimazione classica è dunque certamente non valida e, d'altra parte, come si è detto, non possediamo per il momento una teoria completa, capace di inquadrare in modo soddisfacente almeno tutti i fenomeni fisici conosciuti. Tuttavia, è anche vero che possediamo una teoria approssimata applicabile ai fenomeni atomici e molecolari, che sono da essa descritti in modo qualitativamente e quantitativamente di solito molto soddisfacente: la meccanica quantistica classica.
La meccanica quantistica classica rappresenta, come è ben noto, una teoria solo approssimata perché non relativistica, tale tuttavia da permettere la descrizione dei fenomeni atomici con una precisione migliore di una parte su centomila. Sappiamo inoltre che essa permette, almeno in linea di principio, di rendere ragione quantitativamente della struttura e delle proprietà delle più piccole molecole. Infine essa si riduce, come caso limite, alla meccanica classica quando venga applicata a sistemi costituiti da un gran numero di particelle e possedenti una energia totale sufficientemente elevata. Essa è perciò in grado di descrivere, con tutta la precisione desiderabile, i fenomeni macroscopici alla temperatura ambiente, che non coinvolgono velocità di corpi materiali paragonabili alla velocità della luce. Possiamo, per esempio, con essa calcolare esattamente il moto del pendolo di Foucault o progettare una macchina a vapore.
I fenomeni elementari della biologia non coinvolgono certamente velocità di particelle dell'ordine della velocità della luce: sono tutti fenomeni che appartengono, secondo il linguaggio dei fisici, al campo delle bassissime energie. D'altro canto, tali fenomeni si svolgono tutti a temperatura ambiente. Per quanto riguarda le dimensioni, poi, essi si collocano esattamente a metà strada nell'intervallo compreso tra gli atomi e le piccole molecole da un lato, e i corpi macroscopici (delle dimensioni globali degli organismi superiori) dall'altro. Non sembra vi sia assolutamente alcun motivo che possa farci sospettare che una teoria, valida e soddisfacente ad ambedue gli estremi di tale intervallo, cessi di esserlo proprio nella zona centrale di esso. Questa è una supposizione che, fino a prova contraria, appare totalmente ragionevole.
È tuttavia necessario dire che la validità della meccanica quantistica classica, come strumento concettuale adeguato al programma di ‛fisicalizzazione' della biologia, è stata più volte esplicitamente contestata nell'ambito della già ricordata corrente di pensiero neovitalistica. Citiamo soltanto un noto lavoro di Wigner (v., 1961) in cui si dimostra l'incapacità della meccanicaquantistica di prevedere il fenomeno della riproduzione. Bisogna però aggiungere ch'esso presta il fianco ad una critica: più che dimostrare l'inadeguatezza della meccanica quantistica a descrivere i fenomeni della vita, esso dimostra l'inadeguatezza del modello riproduttivo posto da Wigner a fondamento dei suoi calcoli.
Sembra dunque che si possa ammettere, almeno in via provvisoria, come ipotesi di lavoro, che la meccanica quantistica non relativistica costituisca effettivamente uno strumento teorico adeguato al nostro problema. Ciò non significa tuttavia che l'effettiva impostazione di un qualsiasi problema biologico, anche del più semplice, mediante la meccanica quantistica non debba in concreto presentare difficoltà. È anzi da attendersi esattamente il contrario, per il fatto che ci si trova proprio al centro del presunto campo di validità della teoria. Da un lato, i sistemi che interessano non hanno più quei caratteri di elementare semplicità che si ritrovano nei modellini didattici. Dall'altro, la complessità non è ancora tale da permettere quei passaggi al limite, da legittimare quelle semplificazioni drastiche, che rendono nuovamente maneggevole, a livello macroscopico, una matematica di per sé estremamente complessa.
È in sostanza da attendersi che le prime vere difficoltà per realizzare il collegamento logico tra fatti della biologia e principi generali della fisica (cioè della meccanica quantistica) non siano difficoltà di principio, come spesso si ritiene, ma derivino soprattutto dalla mancanza di idonei metodi di approssimazione e di calcolo, validi nell'ambito delle dimensioni intermedie. Anche il solo calcolo diretto di sistemi così complessi come le singole macromolecole di rilevanza biologica (acidi nucleici e proteine) - allo scopo di determinarne esattamente gli elementi strutturali, i dati conformazionali e i livelli energetici - è già, molto probabilmente, un'impresa senza speranza, a meno che le capacità dei più grandi calcolatori elettronici disponibili non progrediscano in un prossimo futuro per molti ordini di grandezza, il che non sembra per ora molto probabile. D'altra parte, anche se tali calcoli venissero effettuati, sia pure con metodi approssimati, i risultati si riferirebbero sempre a molecole isolate nel vuoto. Per contro, in tutti i fenomeni biologici tali molecole intervengono in soluzione e anche il più semplice di essi comporta sempre strette interazioni tra un numero generalmente elevato di grosse molecole che vi contribuiscono in modo essenziale. È vero che in molti casi una macromolecola si comporta nè più nè meno che come un oggetto macroscopico, una bacchetta o un granulo in sospensione nell'acqua: in tal caso la fisica classica rappresenta un'approssimazione sufficiente per descrivere ciò che avviene. Ma in tutti i processi biologicamente importanti, queste bacchette o granuli danno luogo a una ristrutturazione di un sistema di legami covalenti, a deformazioni della distribuzione di carica elettronica, al passaggio di elettroni (o protoni) attraverso barriere di potenziale, ecc.; e allora la descrizione classica rivela i suoi limiti, mentre l'applicazione delle idee e dei metodi della meccanica quantistica presenta il massimo delle difficoltà.
Sembrerebbe dunque che la disponibilità, in teoria, di uno strumento concettuale idoneo, quale la meccanica quantistica, si risolva in pratica in una pura e semplice illusione: non fa molta differenza, infatti, che uno strumento che non si è capaci di usare sia o no disponibile.
In realtà, la situazione non è così disperata come può sembrare a prima vista. Anche se il calcolo esatto di un qualunque sistema biologico è per ora impossibile e continuerà a essere tale sicuramente per molto tempo ancora, una via resta pur sempre aperta, almeno in linea di principio, anche se certamente difficile da percorrere: cercare la risoluzione dei problemi per via sintetica, facendo uso di modelli schematici. Sembra che questa sia per il momento l'unica seria prospettiva che la biofisica ha di risolvere effettivamente i suoi problemi.
Ciò che si può dire in generale di questo metodo non è certo molto. Si tratta di sostituire il sistema biologico che effettivamente interessa con un modello assai rozzo e semplificato, che del sistema effettivo conservi soltanto quelle caratteristiche generali che sembrano essere di primaria importanza per un'effettiva comprensione dei processi in esame. Tale modello deve poi anche essere così elementarmente semplice da poter venire trattato in pratica con la meccanica quantistica: questa trattazione si ridurrà il più delle volte a un'applicazione formale delle leggi generali della teoria (senza neppure un'effettiva specificazione delle funzioni d'onda), per far vedere che da esse e dalle caratteristiche ipotizzate del modello discendono effettivamente le proprietà previste. Tali rozzi procedimenti, ai quali si può dare quasi esclusivamente un valore orientativo, potranno probabilmente, in un secondo tempo, essere gradualmente raffinati e resi via via sempre meno insoddisfacenti.
Sembra dunque si possa concludere che non soltanto possediamo uno strumento teorico apparentemente idoneo, almeno secondo ogni ragionevole previsione, ad affrontare i problemi della ‛fisicalizzazione' della biologia, ma intravediamo anche la possibilità di una tecnica, sia pure primitiva, per l'uso pratico di un tale strumento. È forse opportuno ricordare ancora una volta che di tale teoria fa parte, come caso limite, la meccanica classica. Ne consegue che tutte quelle trattazioni occasionali e parziali, mediante le quali la fisiologia ha spiegato processi e fenomeni particolari facendo ricorso a concetti e principi della fisica, verranno puntualmente ‛recuperate' quando la meccanica quantistica nella sua forma più generale sarà riuscita a giustificare completamente l'insorgere delle strutture biologiche fondamentali e l'avviarsi in esse dei relativi processi.
4. Il problema centrale della biofisica
L'ultima questione che dobbiamo affrontare è ora quella dei contenuti della biofisica. Ammesso che questa disponga, almeno in linea di principio, di uno strumento concettuale idoneo a spiegare il fatto della vita e i fenomeni che vi sono connessi su una base non diversa da quella impiegata per descrivere i fenomeni del mondo inorganico, resta pur sempre il dubbio che essa sia oggi ancora una disciplina ‛vuota' e che l'impiego di quello strumento non abbia ancora dato alcun frutto.
Secondo la nostra definizione, l'analisi della realtà obiettiva condotta dal biologo e l'analisi delle conseguenze logiche dei principi fondamentali della fisica devono a un certo punto convergere verso lo stesso tipo di struttura. È dunque chiaro quale sia il compito fondamentale che si trova davanti il biofisico: quello di capire, in base ai principî generali della fisica, come si possano realizzare sistemi retti esclusivamente da tali principi, in cui la materia inorganica acquista le proprietà caratteristiche della materia vivente. In altre parole, come problema centrale della biofisica ci si presenta quello dell'origine della vita dalla materia inorganica. Questa conclusione ci assicura che la biofisica non è affatto una scienza ‛vuota': le nostre conoscenze sull'origine della vita si sono rapidamente sviluppate nel corso dell'ultimo trentennio, fino a costituire un insieme di dottrine solidamente organizzato, in cui tutti i problemi particolari della ‛fisicalizzazione' della biologia possono, come vedremo, trovare il loro posto naturale.
Il problema dell'origine della vita si è posto per gradi nei secoli scorsi e i nomi di Francesco Redi (1626-1698), Lazzaro Spallanzani (1729-1799), Rudolf Virchow (1821-1902), Louis Pasteur (1822-1895), John Tyndall (1820-1893) segnano le tappe attraverso le quali esso prende via via una forma precisa, rimanendo tuttavia fino ai primi decenni di questo secolo solo un brillante argomento per prolusioni ed esercitazioni accademiche. È nel 1924 che per la prima volta A. I. Oparin in Russia lo imposta in modo scientificamente corretto e operativamente significante (anche se nel quadro di una concezione metafisica discutibile) e ne tenta concretamente un'analisi, suddividendolo dal punto di vista della fisico-chimica nelle sue possibili fasi successive. Alcuni anni dopo (1929), J B. S. Haldane in Inghilterra avanza per la prima volta l'ipotesi di un'atmosfera terrestre primitiva chimicamente riducente, e da questa ipotesi si creano attorno al problema un rinnovato interesse e una vivace discussione, cui prendono parte, oltre ad Oparin e Haldane, anche H. C. Urey (Stati Uniti), J. D. Bernal, N. W. Pirie, J. W. S. Pringle (Inghilterra) e numerosi altri scienziati in varie parti del mondo. Si prepara così il terreno per la raccolta sistematica delle testimonianze residue che lo studio attuale della Terra ci può ancora fornire e per l'inizio degli esperimenti di laboratorio. Nel 1953 a Chicago, nel laboratorio di H. C. Urey, S. L. Miller esegue la sua ormai classica esperienza (della quale parleremo tra breve) che apre un nuovo capitolo nella storia delle ricerche sull'origine della vita e può, sotto certi aspetti, essere considerata il vero atto di nascita della biofisica.
Da allora, nel corso di questi ultimi vent'anni, le ricerche sull'origine della vita si sono sviluppate rapidamente lungo due direttrici indipendenti e insieme complementari. Da un lato ricerche e teorie sull'origine del sistema solare hanno fornito una conferma, sia pure indiretta, dell'ipotesi di Haldane sul carattere riducente dell'atmosfera terrestre primitiva, dando insieme una spiegazione razionale definitiva delle conclusioni a cui già erano pervenuti Redi, Spallanzani e Pasteur, della impossibilità cioè che nelle attuali condizioni di ambiente la vita possa sorgere spontaneamente dalla materia inorganica. Geologia, micropaleontologia, paleochimica, associate tra loro, hanno inoltre fornito un complesso di testimonianze lacunoso e incerto, ma tuttavia sufficiente per un primo tentativo di ricostruzione degli eventi passati e per una prima analisi del processo di generazione della vita dalla materia inorganica, per suddividerlo in un certo numero di passi successivi, ciascuno dei quali può essere ulteriormente analizzato e, almeno in parte, studiato in laboratorio.
D'altro lato, il lavoro di ricerca sperimentale ha, dall'esperienza di Miller in poi, costantemente affiancato la raccolta e l'analisi critica delle testimonianze, mettendo alla prova le ipotesi, colmando le lacune, permettendo di scoprire nuove possibilità, nuovi modi di rendere coerenti le testimonianze residue e fornendo i criteri e la guida per la raccolta di testimonianze ulteriori. Congressi e simposi sempre più frequenti e affollati, dopo i primi due rimasti famosi (Mosca, 1957; Wakulla Spring, Florida, 1963), hanno costantemente favorito lo scambio delle idee e la diffusione dei risultati, permettendo di fare, a intervalli, il punto della situazione delle nostre conoscenze. Oggi, il problema dell'origine della vita sulla Terra non è certamente risolto; dubbi, oscurità, incertezze dominano ancora il campo. Ciò che sappiamo su di esso costituisce tuttavia già un filo conduttore continuo, veramente un ponte concettuale tra i sistemi inorganici e gli organismi viventi, che non lascia ormai più alcun dubbio sulla possibilità di spiegare l'insorgere delle strutture viventi facendo uso esclusivo del bagaglio concettuale della fisica. Come abbiamo già detto, è prevedibile che questo filo conduttore, irrobustendosi via via con i progressi della ricerca, tenderà sempre più a delineare il quadro di coordinamento di ogni ricerca biofisica.
Non si può tuttavia passare sotto silenzio il fatto che ancor oggi sono molto diffuse idee sull'origine della vita che nulla hanno a che fare con quella soluzione del problema che la biofisica va delineando. Pur senza rifiutare le testimonianze e i risultati sperimentali che la biofisica va pazientemente raccogliendo e ordinando, molti tendono infatti a negare a essi il valore di elementi determinanti: l'effettiva comparsa della vita, il brusco passaggio dal non vivente al vivente sarebbe stato determinato in un preciso momento dal verificarsi fortuito di un singolo evento estremamente improbabile, che nel seguito non si sarebbe naturalmente verificato mai più. Si tratta di soluzioni strettamente imparentate con quelle antiche, proposte dai miti e dalle religioni, anche se rivestite di una coloritura scientifica che chiama in causa non più il miracolo, ma semplicemente il caso; soluzioni facili, intellettualmente assai poco soddisfacenti, ma che, a dire il vero, non si possono scartare a priori in modo definitivo. Ciò che si può dire è che vi sono delle ragioni di carattere generale che consigliano di mettere da parte, finché possibile, tali proposte di soluzione. La descrizione che noi diamo dei fenomeni naturali è sempre basata su un certo sistema di concetti fondamentali, scelti e definiti in modo tale che si possa realizzare con essi una struttura ideale, un ‛modello' che approssimi per quanto possibile la struttura relazionale dei dati empirici. Ovviamente, le ‛entità' della struttura astratta non vanno confuse con la realtà, non debbono essere ipostatizzate: esse sono insignificanti dal punto di vista ontologico, sono eterogenee rispetto ai dati empirici e hanno al più valore simbolico. La struttura astratta approssima nei limiti delle nostre conoscenze e delle nostre capacità costruttive la struttura reale. Ora, se per portare avanti con qualche successo la nostra descrizione razionale del mondo - per poter prevedere e programmare la nostra azione in vista dei fini che ci proponiamo - siamo costretti a postulare eventi estremamente improbabili, è lecito sospettare una sostanziale insufficienza del modello a riprodurre la struttura relazionale dei dati empirici. Sembrerebbe quindi conveniente, in tal caso, una revisione radicale del sistema di concetti fondamentali e una modifica dell'intera teoria, in modo da evitare il ricorso a ipotesi ad hoc, tanto improbabili. Per questo motivo, una continua revisione e rielaborazione dei risultati della biofisica, tale da mantenere la teoria sempre al passo con l'estendersi delle nostre conoscenze empiriche, sembra essere preferibile a qualunque soluzione basata sulla compiacenza del caso.
Da ciò che abbiamo detto fin qui sul problema dell'origine della vita dalla materia inorganica, risulta chiaro ch'esso presenta in modo esemplare i caratteri che nel secondo capitolo abbiamo denunciato come tipici di qualunque problema biologico: esso non può essere affrontato esclusivamente in laboratorio, con metodo sperimentale. È necessario ricorrere anche al metodo storico, consistente nella raccolta, nell'esame critico e nell'ordinamento razionale delle testimonianze superstiti. È anzi solo il metodo storico che ci può fornire i primi dati orientativi per incominciare a capire in qual modo, nel corso di un'evoluzione cosmica che ha portato alla condensazione del sistema solare e alla formazione, ad una conveniente distanza dal Sole, del pianeta Terra, abbia a un certo punto preso l'avvio su tale pianeta un nuovo processo evolutivo, quello biologico, e come esso abbia dato origine all'evoluzione socio-culturale della specie umana.
Quella fase dell'evoluzione cosmica che termina con la formazione della crosta terrestre - verificatasi circa 4,5 miliardi di anni fa, se ci si attiene a quanto rivelano i metodi di datazione delle rocce basati sulla loro radioattività - costituisce anche la fase di partenza di un lungo processo, che si concluderà con l'apparizione delle prime forme di vita sulla superficie della Terra. Cosmologia, astronomia, astrofisica permettono di farci un'idea abbastanza precisa delle condizioni di ambiente iniziali, certamente non molto diverse da quelle di oggi.
Unica sostanziale differenza, rispetto ad oggi, la composizione chimica dell'atmosfera. L'indagine astronomica ci assicura che gli elementi di gran lunga più abbondanti nel cosmo sono idrogeno ed elio: di essi doveva essere costituita sostanzialmente la nebula primitiva da cui il sistema solare è derivato. Dopo di questi, tra gli elementi chimicamente reattivi, i più abbondanti sono ossigeno, azoto e carbonio. Sappiamo dalla chimica di laboratorio che le forme termodinamicamente più stabili di questi elementi in presenza di un eccesso di idrogeno sono rispettivamente acqua, ammoniaca, metano. È dunque probabile che questi ultimi siano stati i componenti più abbondanti dell'atmosfera primitiva, oltre naturalmente a idrogeno ed elio destinati a disperdersi un po' alla volta negli spazi interplanetari, non essendo la gravità terrestre sufficiente per trattenerli: alla temperatura superficiale della Terra ammoniaca e metano sono gassosi, mentre le acque superficiali allo stato liquido evaporano continuamente per effetto della radiazione solare e i vapori ricondensano continuamente, dando luogo alle precipitazioni atmosferiche. Ben presto, tuttavia, il carattere riducente dell'atmosfera si deve essere attenuato, sia per la dispersione dell'idrogeno, sia per l'emissione dalla crosta terrestre di gas vulcanici contenenti essenzialmente, oltre a vapor d'acqua, diossido di carbonio e azoto. Si deve con ciò essere formata un'atmosfera non ossidante costituita da CO2, N2, vapor d'acqua e tracce dei gas primitivi.
Questi dunque sono i fatti particolari da cui deve prendere le mosse la biofisica per spiegare, in base ai principi generali della fisica, la spontanea formazione di strutture viventi. Due sono le domande che ci troviamo immediatamente di fronte: perché e quando l'atmosfera terrestre ha cambiato la sua composizione? E poi: dal momento che H, O, N, C non sono soltanto i componenti elementari dell'atmosfera primitiva terrestre, ma sono anche gli elementi fondamentali di cui è costituito, per oltre il 95%, ogni organismo vivente, come può essersi generata, a partire da una situazione iniziale di quasi-equilibrio termodinamico, l'immensa varietà di composti chimici, i più importanti dei quali instabili all'idrolisi, che si trovano oggi negli organismi?
Al ‛quando' della prima domanda risponde ancora l'indagine storica. L'analisi dei depositi sedimentari, formatisi attraverso le ere geologiche a seguito dei processi di erosione da parte degli agenti atmosferici, di trasporto da parte delle acque superficiali e di successiva rideposizione, mostra che essi sono di due tipi. Un primo tipo, più antico, comprende nei granuli sedimentari anche sostanze, come i solfuri, che l'ossigeno atmosferico avrebbe inevitabilmente attaccato e trasformato chimicamente. Il secondo tipo, più recente, è costituito essenzialmente da ossidi, il tipico prodotto di un'erosione avvenuta in ambiente ossidante. Si ha così la conferma geologica che la natura chimica dell'atmosfera è veramente cambiata, passando da riducente a ossidante, e le datazioni radioattive permettono anche di situare approssimativamente nel tempo tale cambiamento di atmosfera, tra 2,0 e 1,5 miliardi di anni fa. Il biofisico deve così andare a cercare l'origine della vita nell'intervallo di tempo compreso tra la formazione della crosta terrestre e due miliardi di anni fa, poiché (d'accordo coi risultati di laboratorio di Redi, Spallanzani e Pasteur) la vita non si può certo generare in un'atmosfera ossidante, in cui il lento accumulo di molecole organiche complesse, biologicamente significative, sarebbe manifestamente impossibile.
Alla seconda domanda la biofisica risponde innanzitutto con la formulazione di un'ipotesi. Nella condizione iniziale di quasi-equilibrio termodinamico in effetti agivano sull'atmosfera terrestre numerose sorgenti esterne di energia libera, capaci quindi di provocare trasformazioni chimiche locali nell'atmosfera stessa, con la formazione di piccole quantità di composti immagazzinanti parte dell'energia libera della sorgente. Tali la porzione ultravioletta della radiazione solare, le scariche elettriche che accompagnano i temporali, le radiazioni emesse dalle sostanze radioattive presenti sulla superficie terrestre, le alte temperature e pressioni che accompagnano i fenomeni vulcanici e il passaggio attraverso l'atmosfera di meteoriti, ecc. Queste piccole quantità di composti chimici vari, col loro contenuto di energia libera, non potevano certamente rimanere nell'atmosfera (dove del resto non avrebbero potuto mai accumularsi, perché sarebbero state distrutte via via dagli stessi agenti responsabili della loro formazione), ma, dilavate dalle precipitazioni atmosferiche, debbono essersi andate accumulando nell'oceano primitivo, trasformato in immenso recipiente di reazione, una specie di ‛brodo' in cui deve aver avuto inizio una lenta evoluzione chimica, attraverso reazioni tra i vari soluti, con la formazione di sempre nuovi composti.
Questa ipotesi può, almeno in parte, essere sottoposta a verifica sperimentale. E ciò che ha fatto per la prima volta Miller (v., 1953) nella sua già citata esperienza in cui, realizzato in laboratorio un modello dell'atmosfera primitiva, ha fatto agire su tale atmosfera per un certo periodo di tempo una scarica elettrica e ha raccolto le sostanze chimiche prodotte, mediante una continua circolazione di vapor d'acqua in condensazione, nel liquido di un recipiente schematizzante l'oceano primitivo. L'analisi chimica del ‛brodo' così ottenuto ha confermato pienamente l'ipotesi biofisica. Si sono prodotte in esperienze di questo tipo, ripetute da molti Autori nelle condizioni sperimentali più diverse, un gran numero di sostanze biologicamente significative: tutti i più importanti amminoacidi, che sono i mattoni costitutivi delle proteine, basi puriniche e pirimidiniche, precursori degli acidi nucleici (in particolare l'adenina), zuccheri, acidi grassi, porfirine, ecc. Si formano, tra l'altro, notevoli quantità di cianuro d'idrogeno (acido cianidrico, HCN), la cui molecola sembra particolarmente idonea, come ha messo in luce M. Calvin (v., 1969), a svolgere il ruolo di molecola ‛ricca di energia' nella successiva fase di evoluzione chimica.
È chiaro che le esperienze alla Miller non possono mettere direttamente in luce ciò che può essere avvenuto nell'oceano in tempi dell'ordine dei periodi geologici: siamo di fronte a un esempio tipico dei limiti che incontra la sperimentazione in campo biologico. Tuttavia, misure di laboratorio sui vari composti e considerazioni termodinamiche possono sempre indicarci quali sono le possibilità che si aprono all'evoluzione chimica; possiamo valutare così l'efficacia e il ruolo che ciascuna sostanza può aver svolto come catalizzatore e soprattutto renderci conto di come debba essere stata determinante, per giungere all'apparizione dei primi organismi, la formazione nell'oceano primitivo di compartimenti chiusi (protocellule) capaci di creare una discriminazione tra piccole molecole organiche e inorganiche da un lato (precursori di vario tipo liberi di muoversi in tutto l'oceano e di varcare le barriere limitanti i compartimenti) e dall'altro lato le prime grosse molecole confinate all'interno dei compartimenti stessi.
Molte ipotesi sono state proposte a proposito della spontanea formazione di queste protocellule, o delle sacche o membrane capaci di delimitarle; dai coacervati di A. I. Oparin, alle microsfere di S. Fox, alla formazione di strati ordinati di molecole per adsorbimento su argille, secondo J. D. Bernal. Tutte queste ipotesi sembrano tuttavia ormai superate dall' osservazione di Calvin (v., 1969), secondo cui nell'oceano primitivo doveva essere presente, già all'inizio dell'evoluzione chimica, un meccanismo capace di realizzare in ambiente acquoso reazioni di condensazione con eliminazione di una molecola d'acqua fornendo, all'occorrenza, l'energia libera necessaria a realizzare un legame metastabile. Di questo genere sono infatti tutte le reazioni che permettono di realizzare il ‛montaggio' delle macromolecole biologiche a partire dai relativi precursori. Calvin ha dimostrato che tale funzione può essere stata assolta da semplici derivati del cianuro d'idrogeno. Un tale meccanismo deve aver dato luogo anche a un'abbondante produzione di fosfolipidi o di altre molecole similmente costituite da un'estremità polare idrofila e da un'altra idrocarburica idrofoba. Molecole di questo genere tendono, come sappiamo dall'esperienza di laboratorio, ad associarsi strettamente in mezzo acquoso formando delle membrane a struttura lamellare o micellare, con disposizione tale da esporre all'acqua le estremità polari e rivolgere invece verso l'interno dello strato membranoso le estremità idrofobe. Diversi autori, tra i quali J. A. Lucy e W. Stoeckenius, hanno realizzato, partendo da fosfolipidi in soluzione acquosa, delle membrane artificiali indistinguibili al microscopio elettronico da quelle naturali biologiche. Così anche l'ipotesi che la formazione di protocellule nell'oceano primitivo sia avvenuta spontaneamente, partendo dalla sintesi di membrane di questo tipo che per azione del vento o dell'impatto sulla superficie dell'oceano di gocce di pioggia siano venute a formare sacche o vesciche chiuse, può essere studiata e confermata in laboratorio.
All'interno di tali sacche o vesciche debbono aver cominciato a formarsi, a partire dai loro precursori, sfruttando il solito meccanismo di condensazione con eliminazione di una molecola d'acqua, i polimeri biologici che sarebbero rimasti in esse prigionieri. All'interno di esse si è certamente anche avviato quel processo di catalisi mutua per cui gli acidi nucleici hanno incominciato a dirigere la sintesi di particolari tipi di proteine, e determinate proteine ad avviare, controllandolo, il processo di riproduzione degli acidi nucleici. Come si sia instaurato questo processo a catena, che dà alla vita quel carattere di processo biochimico divergente che ben conosciamo, rappresenta ancora uno dei punti più oscuri di tutta la lunga strada che dalla materia inorganica porta all'apparizione delle prime forme di vita. Tuttavia, anche questo problema è stato ormai formulato in modo preciso e nei prossimi anni sarà certamente tradotto in idonee esperienze di laboratorio che ci permetteranno di capire attraverso quali processi e trasformazioni si sia innescato l'attuale ciclo riproduttivo.
Da questo punto, tutti i passi ulteriori, ancora necessari per giungere alle forme organiche che conosciamo, sono abbastanza chiari. È chiaro come numerose macromolecole possano aggregarsi tra loro, utilizzando legami secondari, per costituire ben determinati aggregati molecolari: enzimi complessi o addirittura organelli cellulari. Sappiamo oggi disgregare alcuni oggetti biologici nelle loro componenti macromolecolari in laboratorio e poi ricostituirli nuovamente senza che perdano alcuna loro proprietà. Possiamo renderci conto del come le protocellule, divenute protorganismi eterotrofi anaerobi, abbiano incominciato un lungo processo di evoluzione biologica, imparando a utilizzare direttamente la luce solare; del come questi nuovi organismi fototrofi, disponendo di una sorgente di energia libera praticamente ubiquitaria, si siano enormemente moltiplicati; e ancora del come l'ossigeno da essi liberato nel corso dei processi fotosintetici abbia rapidamente prodotto quel radicale cambiamento nella composizione dell'atmosfera terrestre di cui rimangono ancor oggi le tracce e che si è svolto tra 2,0 e 1,5 miliardi di anni fa. Comprendiamo infine, sempre su base evolutiva e fisico-chimica, come si sia sviluppato l'autotrofismo e infine il metabolismo ossidativo, che, accrescendo la disponibilità di energia per un fattore maggiore di 10, ha aperto la strada alla comparsa dei Metazoi. Giungiamo così ai limiti del Precambriano, ai più antichi resti fossili della paleontologia classica, che risalgono soltanto a circa 600 milioni di anni fa.
Resta solo da rispondere ad una domanda per completare il quadro entro cui si situano e si organizzano tutti i problemi della biofisica: quando le protocellule si sono trasformate in veri e propri organismi? Per rispondere, si deve ancora ricorrere alle testimonianze residue. M. Calvin con una serie di brillanti ricerche ha dimostrato che idrocarburi di composizione particolare, che sembra tipica di una loro origine biologica, si ritrovano nelle rocce più antiche, risalenti fino a circa 3 miliardi di anni fa. E nelle stesse rocce E. S. Barghoorn e J. W. Shopf hanno trovato impronte microscopiche interpretabili come quelle di microrganismi primitivi. Anche se non pochi dubbi tuttora permangono, questa sembra essere l'epoca approssimativa (circa un miliardo di anni dopo la formazione della crosta terrestre) della comparsa sulla Terra dei primi veri e propri organismi.
5. Prospettive per il futuro
Ecco dunque, nelle sue linee generali, la soluzione che la biofisica propone oggi per il problema dell'origine della vita sulla Terra. Con ciò, abbiamo anche implicitamente fatto un elenco dei principali campi che si offrono alla ricerca biofisica, dalla chimica del cianuro d'idrogeno e dei suoi derivati ai processi di sintesi delle macromolecole, dalla struttura delle membrane biologiche alla duplicazione del DNA e alla sintesi delle proteine, dalla struttura e azione degli enzimi ai processi di utilizzazione della luce solare, dal montaggio e smontaggio degli aggregati molecolari ai processi di sintesi dell'ATP e al metabolismo ossidativo. Di molti di questi processi sappiamo oggi descrivere almeno in parte l'andamento, quale sperimentalmente si manifesta, ma per ciò che riguarda il loro effettivo collegamento coi principi generali della meccanica quantistica, quasi tutto resta ancora da fare. In un certo senso, assai più approfondita è la nostra conoscenza dei loro aspetti globali macroscopici: in tale campo la termodinamica, e in modo particolare il secondo principio, ci fornisce in ogni caso un orientamento sicuro.
Tale elenco di problemi, sia pure ordinato in un quadro generale quale quello offerto dal tema dell'apparire e dell'affermarsi delle strutture viventi, non esaurisce tuttavia le prospettive della biofisica per il prossimo futuro. Si può anzi dire che le prospettive più affascinanti, più ricche di promesse, quanto a novità (e forse a imprevidibilità) dei risultati, ancora derivino dal ripensamento di idee generali e dalla rielaborazione ulteriore di problemi di metodo.
Riprendiamo, per esempio, la questione della base chimica della vita. Come abbiamo visto, c'è una giustificazione storica (la composizione della nebula primitiva da cui si è formato il sistema solare) del fatto che H, O, N, C siano gli elementi fondamentali di cui sono costituiti tutti gli organismi viventi. Tuttavia, un'analisi basata sulle strutture elettroniche dei vari tipi di atomi (v. Wald, 1962) mostra che nessun altro gruppo di elementi può essere alla base di una evoluzione chimica che sfoci nella comparsa di forme viventi, dovunque tale evoluzione possa prodursi. I risultati delle esperienze alla Miller, in cui si formano praticamente tutti i possibili composti chimici più semplici di quegli elementi, suggeriscono la conclusione che, molto probabilmente, ogni possibile forma di vita è ancora basata sul sistema acidi nucleici-proteine. Il processo che porta dalla materia inorganica agli organismi viventi segue dunque all'inizio una strada obbligata che non ha alternative di sorta. La situazione tuttavia cambia quando passiamo a considerare le fasi ulteriori di tale processo e in particolare il caratteristico tipo di struttura del genoma e degli enzimi, che sono tutti polimeri lineari le cui proprietà dipendono dall'ordine secondo cui si susseguono i vari tipi di monomeri. La via obbligata iniziale si suddivide a questo punto in un numero enormemente grande di vie alternative, tra le quali l'evoluzione biologica opera la sua scelta. A questo punto si pone dunque il problema della natura di tale scelta, la domanda se i successivi passi mutazionali siano obbligati oppure no: se lo stato del sistema ad ogni istante determini in modo univoco il successivo passo evolutivo o se tale stato sia solo l'‛occasione' che lo rende possibile, mentre solo il caso sceglie, imprevedibilmente, tra molte alternative che si offrono. Si pone cioè, come abbiamo già accennato in precedenza, la questione del carattere deterministico o indeterministico dell'evoluzione biologica.
La soluzione indeterministica si inquadra perfettamente con i principi generali della meccanica quantistica, che vogliono il singolo passo mutazionale (in quanto singolo fenomeno elementare a livello molecolare) non prevedibile in base alla conoscenza dello stato precedente del sistema. S'inquadra inoltre perfettamente in quella rappresentazione cosmologica, che abbiamo proposto alla fine del capitolo 2, come sostitutiva della rappresentazione di Laplace quando alla teoria fisica classica si sostituisca la più generale meccanica quantistica non relativistica. Ogni organismo vivente svolge in tale rappresentazione il ruolo di un particolare sistema amplificatore, che col suo sviluppo porta a livello macroscopico (fenotipico) le conseguenze di un singolo evento molecolare, cioè di una mutazione avvenuta nel corso di quei processi di duplicazione del genoma che hanno immediatamente preceduto la generazione dello stesso organismo.
La soluzione alternativa, deterministica, incontra invece difficoltà concettuali molto gravi, in quanto presuppone il ripudio della meccanica quantistica e la sua non validità a livello di eventi molecolari, in nulla dissimili da una quantità di altri eventi per i quali la validità di tale teoria è stata sperimentalmente provata in modo diretto.
È necessario dire a questo proposito che c'è oggi tra i fisici una corrente di opinione abbastanza diffusa, che fa capo ad A. Finstein e alla quale appartengono anche fisici teorici molto noti, che tende a considerare la meccanica quantistica nella sua formulazione odierna una teoria incompleta, e che è quindi orientata a riformularla trasformandola in una teoria completamente deterministica, mediante l'introduzione di convenienti parametri latenti. Questi tentativi di riformulazione coinvolgono questioni concettuali molto sottili e difficili, e non ci si può certo azzardare a fare previsioni su quale sarà l'esito delle ricerche e delle discussioni in corso. Non si può tuttavia escludere che l'ampliamento degli orizzonti, che certamente seguirà dal fatto di aver incluso i problemi della biologia tra quelli rilevanti per l'analisi dei fondamenti concettuali della scienza, possa essere di aiuto per trovare la via verso una sistemazione definitiva della teoria. I fatti biologici hanno sempre rappresentato degli scogli difficilmente superabili per il determinismo. Non è escluso che la ‛fisicalizzazione' della biologia possa contribuire alla chiarificazione e alla sistemazione della teoria fisica stessa.
Ma alla biofisica sembrano anche aprirsi prospettive più lontane, d'altra natura, che potrebbero orientare il pensiero scientifico in modo del tutto nuovo. Quanto più dai livelli elementari di organizzazione si sale verso livelli più complessi, tanto più le difficoltà che incontrano le concezioni deterministiche sembrano aumentare: ciò non sorprende e non è di per sé particolarmente significativo, poiché ovviamente l'applicazione di leggi universali diventa tanto più difficile quanto più complicati sono i sistemi che si considerano. Vi sono tuttavia difficoltà che non dipendono dalla complessità, ma dalla natura stessa dei sistemi presi in esame. Quando studiamo la struttura della materia o il metabolismo cellulare, non ha alcuna importanza, ai fini del nostro studio, il fatto che noi stessi siamo corpi materiali, fatti di atomi e di molecole, e organismi viventi pluricellulari: noi saliamo, per così dire, sull'alto di una collina e di là contempliamo, come spettatori esterni e non coinvolti, il mondo degli oggetti e quello dei viventi che ci stanno davanti. Ma ai più elevati livelli di organizzazione, la biofisica incontra i problemi del pensiero e della umana consapevolezza di sé: non è più possibile, allora, salire in cima alla collina. Il problema non è più quello di riuscire ad applicare le leggi universali della fisica a sistemi oltremodo complessi: il problema diventa quello di capire se queste leggi, in quei campi, continuino ad avere un senso. Come si vede, il tipo stesso di struttura della nostra costruzione scientifica ne risulta coinvolto.
Un'analisi approfondita dei fondamenti della fisica diventa allora indispensabile e diventa indispensabile chiedersi che cosa siano propriamente le leggi naturali. Una risposta possibile è la seguente: la teoria fisica è interamente costruita a partire da un certo insieme o sistema di concetti fondamentali definiti operativamente (grandezze fisiche). Noi col pensiero siamo capaci di combinarne gli esemplari in tutti i modi possibili, ma nella realtà certe combinazioni si rivelano assenti. Per esempio, dopo aver introdotto i concetti fondamentali della meccanica, noi possiamo pensare che, applicando una data forza a un corpo di massa assegnata, otteniamo il risultato di imprimere a quest'ultimo una qualsiasi accelerazione. Ma l'esperienza mostra che tutte le combinazioni delle tre grandezze sono assenti nella realtà, ad eccezione di quelle per cui f = ma. Le leggi fisiche si presentano quindi come regole mentali che è necessario adottare per imporre dei limiti convenienti al meccanismo combinatorio del pensiero, quando vogliamo servirci del pensiero per prevedere e dirigere le nostre azioni. Concludere per l'inesistenza di un sistema di leggi imposte dall'esterno al mondo, o immanente alla materia, non è, si badi, una conclusione idealistica. È solo riconoscere la necessità di non confondere i fatti con la nostra rappresentazione mentale dei fatti stessi: significa anzi accettare i fatti per ciò che sono e riconoscere che, nella teoria scientifica, è il pensiero che si adegua ai fatti e non viceversa. Ma allora, se questo è vero, il concetto stesso di legge naturale viene meno, quando l'oggetto del nostro studio è costituito dai contenuti dello stesso pensiero: qualunque sia il sistema di concetti di cui volessimo far uso per descrivere quei contenuti, la capacità combinatoria del nostro pensiero non potrebbe mai portarci a pensare una combinazione assente nel nostro campo di studio.
Queste considerazioni mostrano che la stessa oggettività della rappresentazione scientifica del mondo sarà chiamata in causa, a un certo punto, dagli sviluppi futuri della biofisica. Saremo costretti a tener conto in modo essenziale del fatto che tutte le nostre rappresentazioni della realtà non sono che modelli mentali, di cui solo l'aspetto strutturale, relazionale, è importante ed è in qualche modo connesso coi dati empirici. Forse, come dato primario rimarrà soltanto la comunità dei parlanti, la quale, attraverso il filtro del linguaggio, concettualizza i dati empirici in modo conforme alla tradizione e li ordina secondo certi modelli. Così, ci stiamo necessariamente avviando ad affrontare problemi che fino ad oggi non sono mai stati considerati di pertinenza delle scienze della natura.
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