BIOARTE
Bioarte e manipolazione naturale. Bioarte, biologia molecolare e transgenesi. Bioarte e ingegneria tissutale. Bioarte e bioattivismo. Bioarte, identità e privacy. Bibliografia
La b. è una forma di espressione artistica che pone al centro delle opere la vita. Questo significa impiegare il materiale biologico, i processi naturali e le metodologie a essi applicate (biotecnologie, ingegneria genetica e tissutale ecc.) come strumento di creazione. I bioartisti, in collaborazione con gli scienziati, manipolano la vita, a livello cellulare, molecolare o di un intero organismo.
L’opera è ultimata nel momento in cui inizia a pulsare, per ‘mano’ di artisti e scienziati, nella vita di geni sintetici (Eduardo Kac), di ibridi vegetali (George Gessert), di oggetti ‘semi-viventi’ (Tissue culture & Art project). Gli studi degli artisti si trasformano in laboratori scientifici, gli scienziati diventano interlocutori indispensabili al processo creativo, che si pone – esso stesso – come parte integrante dell’opera.
L’ibridazione di uomo e macchina, la sua fusione nel cyborg, la possibilità di creare vita dalla materia inorganica si sono materializzate nella realtà dall’immaginazione letteraria di cui il romanzo di Mary Shelley, Frankenstein or the modern Prometheus (1818), si è fatto portavoce. Il progresso della manipolazione biologica ha raggiunto il DNA, la molecola che contiene e trasporta (ereditariamente) le informazioni genetiche che determinano le caratteristiche di un individuo. Le pratiche di riproduzione assistita e di clonazione ci hanno sempre più avvicinati alla dimensione del postumano. Questo termine, presente nelle sottoculture degli anni Ottanta, è stato utilizzato dal critico Jeffrey Deitch curando l’omonima mostra Posthuman (1992) per esprimere speranze e pericoli di una vita sempre più ibrida ed è così entrato nel lessico comune.
Gli artisti non hanno mai smesso di seguire il corso di questi mutamenti segnati dal progresso biotecnologico e dell’ingegneria genetica, ma anche dell’intelligenza artificiale e della robotica. Da quando, nel 1953, il biologo James Watson e il fisico Francis Crick hanno rivelato la struttura del DNA come una doppia elica, questa è diventata icona della modernità adottata in tutti i campi del sapere. L’interesse dell’arte per la vita si è espresso da sempre attraverso la rappresentazione, con tecniche tradizionali (pittura, scultura), simulazioni al computer (animazioni, processi algoritmici generativi) o impiego di materiale vivo (fluidi corporei, sperma, latte materno, urine, sangue). I bioartisti sono però andati oltre la rappresentazione e l’inclusione di materiale vivo all’interno delle opere in quanto hanno manipolato la vita e l’hanno resa ‘percepibile’ nelle sue forme invisibili. Le opere (viventi) oscillano tra filosofia, estetica, etica e si pongono al centro del dibattito su questioni che, partendo dalla natura del singolo (essere organico o inorganico che sia), arrivano a riguardare le dinamiche della società rivelandone i mutamenti più radicali.
Plasmare la vita è per i bioartisti un modo per mettere a fuoco le criticità del progresso biotecnologico, a partire dal concetto stesso di identità e dalla difficile distinzione tra ciò che è vita e ciò che non lo è. Il gap che si è creato tra progresso tecnologico e capacità culturale di adattamento si è dilatato esponenzialmente. I bioartisti hanno cercato di restringere questo divario utilizzando un canale esperienziale. Arte e scienza hanno così collaborato per uno scopo comune, reciprocamente decontestualizzate dai loro ambiti professionali. Questo slittamento da una disciplina a un’altra si è trasformato in una lente attraverso la quale osservare i grandi stravolgimenti del progresso che coinvolgono, inconsapevolmente, ogni strato della nostra esistenza.
Altre definizioni, come arte genetica (manipolazione del DNA) e arte biotecnologica (allevamento e selezione di piante e animali, manipolazione di cromosomi, coltura tissutale), prima utilizzate per indicare le rispettive specificità, sono state inglobate nel più ampio contesto della bioarte.
Bioarte e manipolazione naturale. – La b. può coinvolgere manipolazioni genetiche naturali, come quelle applicate alle piante da George Gessert (n. 1944) impegnato in una ricerca estetica che dalla pittura si è avvicinata direttamente alla vita. Le sue pratiche di ibridazione in laboratorio di specie vegetali diverse, portate avanti dagli anni Ottanta, hanno attinto alla natura come a una tavolozza di colori, combinando l’interesse estetico con l’attenzione e la cura delle piante create, nel rispetto del loro essere vive.
La manipolazione biologica naturale su specie animali trova un esempio significativo in Nature? (2000) dell’artista portoghese Marta de Menezes (n. 1975), che ha interferito con il processo evolutivo di una specie di farfalla per poterne modificare i patterns delle ali. In alcune opere di b., come in quelle qui appena citate, la facilità di intervento sulle forme di vita è direttamente proporzionale alla complessità delle questioni sollevate quando si tratta di distinguere tra ciò che è naturale e ciò che non lo è.
Bioarte, biologia molecolare e transgenesi. – Alcune opere di b. sono partite dalla creazione di organismi originali attraverso l’applicazione dell’ingegneria genetica, con cui poter trasferire geni da un organismo a un altro o crearne di nuovi. Microvenus, progettata negli anni Ottanta dall’artista americano Joe Davis (n. 1951), è stata concepita come molecola artistica (transgenica) per contenere un messaggio destinato a essere decodificato da entità extraterrestri, formulato come modello scultoreo da liberare nello spazio. Alla fine degli anni Novanta è stato Eduardo Kac (n. 1962) a coniare la locuzione transgenic art per descrivere «opere che impiegano tecniche di ingegneria genetica per creare esseri viventi unici, trasferendo geni sintetici in un organismo, mutando i suoi stessi geni, o trasferendo materiale genetico da una specie ad un’altra» (Transgenic art, «Leonardo electronic almanac», 1998, 6, 11, http://www.ekac.org/transgenic.html). Il gene artistico creato da Kac (in collaborazione con alcuni scienziati) per Genesis (1998-99) ha spostato l’attenzione sulla natura del linguaggio del DNA (inteso, appunto, come codice genetico), provando l’esistenza di una similitudine tra le dinamiche linguistiche e quelle che regolano la vita. Un brano della Bibbia, tratto dal libro della Genesi, che proclama la superiorità dell’uomo sulla natura, tradotto in codice Morse e poi in DNA ha dato vita a un batterio originale. La possibilità di modificarne le caratteristiche con la sua esposizione a una luce ultravioletta, trasmessa via Internet dagli utenti, ha segnato l’inevitabile metamorfosi linguistica della frase originaria. La possibilità di intervento da parte dell’uomo anche da località remota ha creato una ‘tensione etica’.
Nelle opere di b. alla centralità del processo di creazione molto spesso si è aggiunto quello della responsabilità di una nuova vita. Un esempio è il coniglio transgenico dello stesso Kac, GFP Bunny (2000), che, in seguito all’immissione (controllata) di Green fluorescent protein (GFP) – estratta da una particolare specie di medusa – assumeva un colore verde fluorescente una volta esposto a una determinata luce. Il significato del lavoro risiedeva nella crescita del coniglio e nella maniera in cui l’animale è stato recepito nell’ambito sociale.
Bioarte e ingegneria tissutale. – Alcune opere di b. impiegano l’ingegneria tissutale ossia la «branca dell’ingegneria biomedica che si occupa delle procedure di rigenerazione di tessuti del corpo umano mediante la coltivazione di cellule su apposite strutture, per consentire la produzione di nuovo tessuto» (Dizionario di medicina, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010, ad vocem). È il caso del progetto di ricerca Tissue culture & Art project, fondato da Oron Catt (cofondatore del laboratorio di ricerca SymbioticA) insieme a Ionat Zurr. Utilizzate in medicina per sostituire parti lese, le cellule tissutali (di epidermide o tessuti muscolari di topi e conigli) sono state impiegate per creare sculture concepite come semi-living objects («oggetti semi-viventi»). La dicotomia natura (cellule)/cultura (materiali costruiti) si è trasformata in una constructed nature («natura costruita»), incontro tra organico e inorganico. Questi lavori, così come quelli della b. fin qui trattati, decontestualizzano i processi biologici e li dirottano nell’ambito artistico per accendere i riflettori su questioni etiche e sociali legate a nuove forme di vita (transgeniche o semiorganiche) sulle quali parametrare nuove scelte etiche nell’agire del quotidiano.
Bioarte e bioattivismo. – La b. è una forma di espressione artistica che si confronta con l’impatto sociale del progresso biologico; è quindi di per sé politica. In alcuni casi i bioartisti hanno intrapreso percorsi più esplicitamente attivisti.
Con il progetto Art orienté object, per es., Marion Laval-Jeantet e Benoît Mangin si sono impegnati, dal 1991, nella denuncia degli abusi della sperimentazione genetica. Nella serie Skin cultures (1996) hanno prestato i loro stessi tessuti epidermici alla sperimentazione per essere combinati con quelli di Cavia porcellus. La b. ha messo, quindi, in discussione i confini tra specie diverse, come anche in May the horse live in me (2011) dove Laval-Jeantet ha instaurato un rapporto di comunicazione biologica con un cavallo attraverso la trasfusione del sangue dell’animale nel suo corpo. Il potere dell’industria scientifica e il significato delle applicazioni dell’in gegneria
genetica e delle moderne biotecnologie sono stati rivelati dal collettivo inglese CAE (Critical Art Ensamble), formatosi nel 1987, attraverso l’apertura e la condivisione di pratiche laboratoriali. In GenTerra (2001-03) la creazione di batteri originali da destinare al pubblico che li ha potuti conservare, ha stimolato ansia e preoccupazione sulle iniziative transgeniche e quindi consapevolezza al riguardo.
Bioarte, identità e privacy. – La b. ha inoltre affrontato il problema di come identità e privacy siano state messe in discussione dall’impatto del progresso dell’ingegneria genetica, spesso nel tentativo di sfatare le credenze popolari sulla inequivocabilità del riconoscimento identitario attraverso il DNA. Con SIC (Suspect Inversion Center, 201113), per es., l’artista statunitense Paul Vanouse (n. 1967), che si è occupato di queste problematiche sin dagli anni Novanta, ha duplicato materiale genetico appartenente ad altri attraverso il suo stesso DNA, mettendo così in discussione l’unicità dell’informazione che generalmente attribuisce le caratteristiche del DNA a un singolo individuo.
Legati a questioni inerenti alla tracciabilità identitaria attraverso il DNA sono anche alcuni lavori della statunitense Heather Dewey-Hagborg (n. 1982). Il suo progetto a lungo termine Stranger visions (2012-14) ha tracciato ritratti tridimensionali di volti (realizzati con stampanti 3D), partendo da tracce di DNA rilevate in materiali di scarto, quali sigarette, capelli, gomme da masticare.
Bibliografia: Genetische Kunst-künstliches Leben/Genetic artartificial life, hrsg. K. Gerbel, P. Weibel, Wien 1993; Life science, hrsg. G. Stocker, C. Schöpf, Wien-New York 1999; S. Wilson, Information arts. Intersections of art, science and technology, Cambridge (Mass.)-London 2002; The aesthetics of care? The artistic, social and scientific implications of the use of biological/medical tech nologies for artistic purposes, ed. O. Catts, Nedlands 2002; L’art biotech‘, éd. J. Hauser, catalogo della mostra, Nantes, Lieu unique, Nantes 2003; E. Kac, Telepresence & bio art. Networking,humans, rabbits & robots, Ann Arbor 2005; R. Ascott, Engineering nature. Art & consciousness in the post-biological era, Bristol 2006; Signs of life. Bio art and beyond, ed. E. Kac, Cambridge(Mass.)-London 2007; G. Gessert, Green light. Toward an art of evolution, Cambridge (Mass.)-London 2010; W. Myers, Bio design. Nature, science, creativity, New York 2014.