Nacque il 18 febbraio 1807 a Modigliana – sulle pendici romagnole dell’Appennino, ma allora politicamente soggetta al Granducato di Toscana – da Francesco e Marianna Muini.
Il padre, di professione notaio, aveva entrate modeste ma una cultura vivace e una forte passione politica. Dal 1797 militò nell’esercito napoleonico con il grado di luogotenente (poi tenente), e nel 1800 fu insignito dal generale Andrea Massena di una spada d’onore. Dopo l’incoronazione milanese di Napoleone re d’Italia (26 maggio 1805), fece ritorno a Modigliana, dove sposò Marianna Muini. La coppia ebbe cinque figli: Margherita (1805-1892), Giovanni, Giulio Cesare Camillo (1808-1864), Lorenzo (1811, non è nota la data di morte) e Maria Domenica (nel dicembre 1820, morta dopo pochi giorni).
Francesco non abbandonò l’impegno politico. Nel 1814 vestì nuovamente la divisa, al servizio di Gioacchino Murat; imprigionato dagli austriaci, fece ritorno a casa sul finire del 1815. Negli anni seguenti, fu tra i principali animatori della modiglianese Accademia degli Incamminati, e mantenne stretti legami con patrioti e riformatori come Giovan Pietro Vieusseux a Firenze e il conte Francesco Laderchi a Faenza.
Dopo una prima formazione presso gli Scolopi del proprio paese, nel 1827 Giovanni si spostò a Faenza per terminare, in seminario, gli studi di teologia morale e dogmatica. A Faenza, il 22 marzo 1828, ricevette il suddiaconato, e poco dopo ottenne in beneficio un canonicato presso la collegiata di S. Stefano a Modigliana. Ordinato diacono il 14 marzo 1829 e sacerdote il 19 settembre dello stesso anno, fece quindi ritorno a Modigliana, dove dal 1834 fu canonico della collegiata di S. Bernardo, mentre tra il 1830 e il 1839 prestò servizio anche a S. Stefano in Bosco a Dovadola (già parrocchia dello zio don Sebastiano).
Intanto don Giovanni aveva cominciato, sulle orme paterne, l’attività politica. Le notizie di una sua adesione alla massoneria o alla carboneria sono prive di fondamento, e incerta è la stessa iscrizione alla Giovane Italia; sicura è tuttavia la sua vicinanza, in quegli anni, agli ideali mazziniani, e la partecipazione ai moti del 1830-1831 (insieme al padre, che seguì, ultrasessantenne, l’ex ufficiale napoleonico Giuseppe Sercognani nella marcia verso Roma). Al momento della repressione, la famiglia Verità ebbe un ruolo importante nel nascondere e aiutare i patrioti che fuggivano dalla Romagna, soggetta alla Chiesa, verso la più tollerante Toscana. In queste operazioni clandestine, a Verità fu di aiuto (e servì di copertura) la passione per la caccia.
Nel gennaio 1839 i crescenti sospetti della polizia portarono a un mandato di comparizione rivolto al sacerdote e a suo fratello Lorenzo davanti al Regio Commissario di Rocca San Casciano, con l’accusa di sovversione dell’ordine religioso e politico. Lorenzo e altri sospetti furono condannati a vari mesi di confino, mentre a Giovanni fu imposto, come esercizio di penitenza, il ritiro alla Verna fino alla primavera, quando poté fare ritorno a Modigliana.
Il provvedimento non dissuase Verità dal proprio impegno politico. Nell’agosto 1843 aiutò Luigi Carlo Farini e altri ricercati politici a fuggire a Livorno, dove condusse di lì a poco anche i superstiti della banda dei fratelli Muratori (sconfitti dalle truppe pontificie presso Pianoro), facendoli passare dai monti sopra Casola per la Faggiola, e quindi attraverso il pistoiese. In settembre, pur con qualche esitazione, diede la propria disponibilità a nascondere e tenere in ostaggio i cardinali Luigi Amat, Chiarissimo Falconieri e Giovanni Maria Mastai-Ferretti, che trascorrevano l’estate nella villa Torano (vicino Imola), residenza estiva dei vescovi imolesi, e che il colonnello Ignazio Ribotti intendeva catturare per uno scambio di prigionieri. Il piano non fu realizzato, ma Verità, oltre a ricevere sporadici richiami dal vescovo di Faenza, cominciò ad essere sorvegliato con maggior attenzione dalla polizia.
Nel settembre 1845 partecipò al cosiddetto ‘moto delle Balze’, disarmando insieme al conte Raffaele Pasi e a pochi compagni i doganieri pontifici che presidiavano la piccola fortezza delle Balze di Scavignano (vicino Marzeno, tra Modigliana e Faenza). Rimini e Bagnacavallo erano già insorte, ma il controllo della gendarmeria pontificia impedì ai ribelli di impossessarsi di Faenza, mentre un esercito partiva da Bologna per ristabilire l’ordine nelle Romagne.
Anche il mite governo granducale, nelle settimane seguenti, fu costretto a prendere provvedimenti. Il 16 novembre Verità fu arrestato a Firenze con l’accusa di favoreggiamento della rivolta, e il 9 dicembre la sua casa modiglianese fu perquisita. Il sacerdote uscì dal carcere solo dopo sei mesi, il 17 maggio 1846. In giugno Pio IX subentrò a Gregorio XVI, suscitando in molti entusiasmi e speranze che non sembra fossero condivisi dal prete modiglianese. Dopo alcune omelie contro il governo e gli abusi della forza pubblica, il 18 settembre don Giovanni fu convocato dal commissario di Rocca San Casciano, arrestato e condotto a Firenze. Nonostante tentasse di difendersi, in novembre fu condannato a quattro mesi di detenzione. Il 15 marzo 1847, scontata la pena, fece ritorno a Modigliana.
Il 19 settembre dello stesso anno, di domenica, organizzò alle Balze una festa che prevedeva lo scambio delle bandiere tra modiglianesi sudditi del granduca e faentini sudditi del papa.
Il 9 novembre, sul giornale bolognese L’Italiano, Rinaldo Andreini pubblicò un articolo intitolato Virtù e riconoscenza, in cui elogiava Francesco Verità e suo figlio Giovanni in quanto perfetto rappresentante della fusione tra carità del Vangelo e amore della patria. L’articolo aveva come obiettivo una sottoscrizione a favore della famiglia Verità; lo stesso giornale, il 23 novembre, pubblicò tuttavia una lettera aperta di Francesco Verità che, pur ringraziando per il riconoscimento, declinava l’offerta pecuniaria. Francesco morì di lì a pochi mesi, il 1° febbraio 1848.
Nell’estate del 1849 don Giovanni Verità compì, se non la più importante, certo la più celebre delle sue azioni patriottiche. Caduta in luglio la Repubblica romana, Garibaldi, braccato dall’esercito austriaco, aveva cominciato una lunga e estenuante fuga alla volta di Venezia. Persi i suoi uomini e la giovane moglie Anita – morta il 4 agosto a Mandriole, a nord di Ravenna – insieme al suo luogotenente Giovanni Battista Culiolo (detto Leggero), Garibaldi decise di attraversare l’Appennino per passare in Toscana. La notte del 21 agosto Verità, con il pretesto della caccia alle starne, incontrò i due fuggitivi sul monte Trebbio e li nascose per due giorni in casa propria. Da Modigliana i tre raggiunsero in seguito Palazzuolo sul Senio e quindi Coniale, per proseguire verso le Filigare, dove don Giovanni lasciò a un uomo fidato, il sarto Angiolo Francia, il compito di scortare il generale e il suo luogotenente verso la costa toscana.
Di ritorno a Modigliana, Verità fu denunciato per aver arruolato volontari a favore di Garibaldi e per aver ospitato clandestinamente il sovversivo faentino Domenico Pozzi, detto il Pretino, ma in entrambi i casi fu riconosciuto il non luogo a procedere. La casa della famiglia fu perquisita dai soldati austriaci, che non trovarono tuttavia documenti compromettenti, già messi al sicuro nella chiesa di S. Domenico.
Il 7 settembre, da Genova, Garibaldi inviava al sacerdote, in incognito, un biglietto per rassicurarlo della sorte propria e di Leggero: «Dil.mo amico, m’incarica il nostro Lorenzo farvi avvertito, che le due balle di seta sono giunte a salvamento. G.B. Grimaldi» (Zama, 1966, p. 165).
Negli anni seguenti Verità perseverò nella sua opera patriottica, ospitando di frequente profughi politici e tenendo i contatti tra i liberali dello Stato della Chiesa e del Granducato di Toscana. Il 16 luglio 1850 venne istituita peraltro la diocesi di Modigliana, e don Giovanni fu liberato dalla vigilanza ostile della curia faentina. Il 15 maggio 1854 scrisse a Garibaldi, sbarcato pochi giorni prima a Genova, una lettera di felicitazioni.
Uomo d’azione più che di dottrina, Verità prese in seguito le distanze tanto dai mazziniani quanto dalle trame diplomatiche del conte Carlo Boncompagni, incontrato a Firenze tra l’estate e l’autunno del 1857, presso il marchese Ferdinando Bartolommei. L’anno seguente – dopo essere stato rassicurato dall’amico Farini che non si sarebbe arrivati all’Unità d’Italia senza passare attraverso delle alleanze – incontrò di nuovo Boncompagni, mostrandosi più aperto alla collaborazione.
Tra la fine del 1858 e gli inizi del 1859 l’impegno di don Giovanni fu febbrile, e con lo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza nell’aprile 1859, il sacerdote accolse a Modigliana molti volontari, che accompagnò, come era solito fare, al confine toscano. In contatto con Bettino Ricasoli, dopo la pacifica deposizione dei Lorena (27 aprile 1859) prese parte al governo provvisorio in Toscana, al comitato della Società Nazionale e, dal 23 luglio, all’assemblea nazionale di Firenze in qualità di rappresentante della Romagna fiorentina.
L’8 ottobre 1859, a Modigliana, rivide Garibaldi, appena nominato generale dell’esercito della Lega dell’Italia centrale, e lo seguì a Rimini. Entrò quindi come cappellano nell’esercito regolare, rimanendovi fino al 1866. Nel maggio del 1860 fu a Piacenza, nel giugno dell’anno seguente nelle carceri di Modigliana, nel 1862 a Chieti; nel 1866 partecipò alla campagna per l’annessione del Veneto, agli ordini del generale Enrico Cialdini. Nello stesso anno fu aggiunto alla lista degli elettori.
L’8 gennaio 1867 furono soppressi i cappellani militari. Don Giovanni tornò nel paese natìo, come cappellano della chiesa di S. Rocco e delle carceri.
Morì a Modigliana il 26 novembre 1885, dopo essersi confessato e aver ottenuto il viatico.
Nella cosiddetta dichiarazione (o testamento) rilasciata in punto di morte, ribadì tuttavia con forza i propri ideali anti-temporalisti, ritenendoli non in contraddizione con la sua fede («Credo nella religione di Cristo, non in quella che è stata deturpata dal mondo e dai suoi ministri»: v. Becattini, 1984, pp. 102-103), e servendosi di parole non dissimili da quelle scritte da Garibaldi nelle sue Memorie autobiografiche a proposito di don Giovanni stesso («vero sacerdote di Cristo, e qui per Cristo m’intendo l’uomo virtuoso e legislatore, non quel Cristo fatto Dio dai preti»: v. Garibaldi, 1888, p. 255). La dichiarazione provocò il divieto, da parte della curia, dell’estrema unzione. Il 3 dicembre successivo la salma di don Giovanni, pur vestita degli abiti sacerdotali, fu onorata con una cerimonia esclusivamente civile e sepolta nel cimitero della Misericordia.
Dalla commemorazione preparata in tale occasione, Alfredo Oriani trasse spunto per un ampio ricordo del sacerdote modiglianese, in cui era messo a fuoco il ‘problema religioso’ del Risorgimento, ovvero la dissociazione tra cattolicesimo e causa nazionale.
Un importante ritratto di don Giovanni Verità (presentato nel 1893 all’Esposizione nazionale di Roma, e oggi conservato presso la Pinacoteca Comunale di Modigliana) fu dipinto negli stessi anni dal suo concittadino Silvestro Lega, cui si deve anche la tavola La casa di Don Giovanni Verità (oggi al Museo Civico Giovanni Fattori di Livorno).
Il 20 agosto 1906 fu inaugurata a Modigliana la statua, opera dello scultore fiorentino Italo Vagnetti, che sostituì il piccolo monumento costruito sulla tomba stessa del sacerdote subito dopo la sua morte.
G. Garibaldi, Memorie autobiografiche, Firenze 1888, pp. 255-256, 259; A. Oriani, Fino a Dogali, Milano 1889, pp. 1-187; G. Maioli, Il padre di don G. V., in Camicia rossa, IX, 5 (maggio 1933), pp. 105-108; Nel cinquantenario della morte di don G. V., in Camicia rossa, (agosto 1935), XI, n. 8, monografico; P. Zama, Don G. V. prete garibaldino [1942], 2a ed. Faenza 1966; E. Croci, Don G. V. e il patriottismo religioso nel Risorgimento, Milano 1945; V. Becattini, Don G. V. Prete cattolico, patriota garibaldino, Faenza 1984; A. Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Roma-Bari 2001, pp. 177-179; F. Asso, Itinerari garibaldini in Toscana e dintorni, 1848-1867, Firenze 2003, pp. 40 e s., 44-46, 56, 70, 191; A. Buda, Francesco e don G. V. Un rapporto edificante fra padre e figlio, in Romagna arte e storia, XXVII (2007), pp. 71-76.