VENEZIANO, Antonello (Antonio)
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 98 (2020)
Nacque il 7 gennaio 1543 a Monreale, terzo di sette figli, da Antonio, mastro notaro della Curia e pretore, e dalla sua terza moglie Allegranza Azzolino.
Rimasto orfano di padre all’età di quattro anni, mutò il proprio nome di battesimo in quello paterno. Entrò quindi, all’età di dieci anni, nella Compagnia di Gesù, forse spinto dallo zio Antonino, arcidiacono della cattedrale di Monreale e suo tutore a seguito delle disposizioni testamentarie del padre. Inviato nel 1555 nella sede palermitana della Compagnia, si dedicò alla grammatica; quindi a Messina, poco tempo dopo, studiò retorica, metrica latina, lingua greca ed ebraica. Allievo brillante, fu mandato nel 1559 a Roma, ove si specializzò in materie giuridiche e filosofiche sotto la guida del futuro cardinale Francisco di Toledo Herrera.
Le disposizioni del testamento dello zio Antonino, messe in atto alla sua morte, prevedevano come unici eredi Giovanni e Nicolò, fratelli di Antonio, indicando il loro unico obbligo nei confronti del fratello escluso, sarebbe stato il dono, ogni anno, di un abito nuovo. Ma il documento prevedeva anche che, qualora il nipote avesse lasciato la Compagnia di Gesù, avrebbe avuto diritto alla terza parte dei beni.
Fu così che il diciannovenne Antonio decise di lasciare l’ordine e, ottenuta la licenza e la benedizione dei superiori, rientrò in Sicilia fra maggio e giugno del 1563.
Di carattere impetuoso e polemico, la sua vita fu caratterizzata, da quel momento in poi, da una lunga serie di vicissitudini e casi giudiziari, a cominciare dalla causa che intentò contro Angelilla, figlia del mosaicista Pietro Oddo, per recuperare dei crediti che gli spettavano — e che riuscì a riavere — in virtù di un censo annuale che il padre aveva costituito con quest’ultimo.
Più grave fu quanto gli capitò nel 1563, allorché venne implicato nella causa che la nobildonna Giovanna Polizzi aveva promosso contro il fratello Nicolò, accusato dell’omicidio di suo figlio. Gerardo Spada, il governatore di Monreale che seguì la vicenda dal 1564, costrinse Giovanni, Nicolò e lo stesso Antonio, ritenuto ingiustamente complice, agli arresti domiciliari. La causa contro i Veneziani, a seguito di continui rinvii e complicanze, proseguì senza esito per circa tre anni. La Polizzi, che non aveva ancora ottenuto giustizia, chiese allora a Spada, nel luglio 1567, che i tre fratelli venissero sottoposti alla prova della corda (tortura dei tratti) nella fortezza palermitana di Castello a Mare. Gli accusati resistettero alla terribile pena corporale, furono scagionati dall’accusa di omicidio e scarcerati nel 1568, ma fu loro vietato di rientrare a Monreale. Il veto fu revocato l’anno dopo solo per Giovanni e Nicolò, mentre Antonio, essendo lontano da Palermo, non aveva potuto chiedere la grazia.
Non potendo rientrare a Monreale, visse a Palermo, ove risiedette presso la sorella Vincenza, sposa di Antonio de Calogero, già pretore monrealese, e qui, nel 1573, rapì per amore (a quanto pare in accordo con l’amata) la giovane Francesca Porretta, serva della terziaria domenicana suor Efrigenia Diana. Per questo, oltre a essere di nuovo imprigionato a Castello a Mare e a subire ancora il supplizio della corda, venne escluso in quanto «figlio disobbediente» dall’eredità che il testamento della madre lasciò, il 15 febbraio 1574, ai soli fratelli Giovanni e Nicolò. In risposta a ciò, forse anche per riconoscenza nei confronti della sorella che lo ospitava, trasferì alla figlia di quest’ultima, Eufemia, i propri diritti di eredità, a condizione che la fanciulla si mantenesse onesta, non contraesse matrimonio e non prendesse nemmeno i voti. Allo stesso anno risale la composizione delle epigrafi per il sepolcro di Guglielmo II di Sicilia, che l’arcivescovo Ludovico de Torres aveva fatto erigere nel duomo di Monreale.
Ottenuto il perdono del viceré Carlo d’Aragona, e revocato il bando di interdizione da Monreale il 27 agosto 1576, Veneziano fece ritorno nella sua città. Dopo un momentaneo riavvicinamento ai fratelli, forse per motivi utilitaristici, tornò a Palermo e, nell’aprile 1577, organizzò le celebrazioni per l’ingresso in città del nuovo viceré Marcantonio II Colonna.
Il 25 aprile 1578 si imbarcò su una delle due galee allestite da Carlo d’Aragona per un viaggio in Spagna. Non è ben chiaro il motivo per cui Veneziano decise di partire; è certo però che la traversata ebbe esito drammatico. All’altezza dell’isola di Capri, infatti, le imbarcazioni furono attaccate da predoni algerini e l’equipaggio fatto prigioniero. Recluso ad Algeri, Veneziano conobbe e si legò d’amicizia con Miguel de Cervantes, anche lui prigioniero, e qui compose la Celia, serie di ottave in dialetto siciliano dedicate a una non ben identificata amata. Fu liberato a seguito del pagamento di un riscatto da parte del Senato di Palermo, ma è probabile che alla raccolta del denaro necessario contribuissero anche parenti e amici.
Se la data che pose fine alla prigionia è incerta, si sa però che l’autore del Don Quijote inviò, il 6 novembre 1579, dodici ottave all’amico, il quale rispose con una lettera di ringraziamento e di stima. E forse l’autore spagnolo si ricordò di Veneziano quando, qualche tempo dopo, delineò il personaggio di Riccardo, cavaliere siciliano recluso in Turchia, in El amante liberal, seconda delle Novelas ejemplares.
Stabilitosi a Monreale, nel 1580, Veneziano fu trascinato in un’altra lite familiare, stavolta ordita dalle sorelle monache Maria e Virginia, che chiedevano il pagamento di 450 onze.
Dal 1581 si dedicò alla coltivazione del campo di Raxalicheusi (l’attuale Regalcelsi), che aveva ereditato alla morte del padre, e questa attività sembrò riportare la calma nella sua vita. Ma fu solo una tregua all’interno di un’esistenza tempestosa. Infatti, un certo Michele De Lapi, proprietario di un terreno limitrofo, cominciò ad avanzare pretese sulla terra di Veneziano, arrivando perfino ad asportare tegole dalla sua abitazione e a tagliare gli alberi del suo campo. Il poeta prima sporse denuncia e poi la ritirò, come fece successivamente anche nei confronti di Benedetto Pizzo, che aveva fatto pascolare il suo gregge abusivamente sulla sua terra. Al 1582 risale poi la lite con i frati della chiesa di S. Vito di Monreale, che rivendicavano diritti di patronato sulla cappella di S. Maria del Rosario, di pertinenza della famiglia Veneziano da tre generazioni.
Nonostante avesse deciso di recarsi a Pisa, racimolando il denaro necessario per il viaggio anche facendosi prestare, all’inizio del 1583, cento onze dal nipote Pietro Arcabaxo, in realtà non si mosse dalla Sicilia e anzi dal 1583 al 1585 ricoprì la carica di consigliere cittadino a Monreale, «denunciando perfino episodi di corruzione, secondo quell’alternanza di modi mafiosi e legalitari che fu tipica del personaggio e probabilmente della sua classe» (Brevini 1999, p. 4350). In particolare, scoprì gli accordi fra il sindaco Geronimo Azzolino e il pretore Francesco Romeo durante l’annuale campagna di approvvigionamento di grano. Ricoprì poi la carica di proconservatore del Real patrimonio, occupandosi della custodia dei beni regali nella città natale.
All’inizio del 1588 organizzò gli onori per la consacrazione di Ludovico III de Torres ad arcivescovo di Monreale. Ma i problemi non erano finiti, e mesi dopo fu accusato di essere l’autore di alcuni versi satirici contro don Diego Enríquez de Guzmán, duca di Alba e viceré di Sicilia da tre anni. Arrestato il 1º dicembre 1588, fu sottoposto per la terza volta, il 13 gennaio dell’anno successivo, a tortura, resistendo a ben sette tratti di corda.
Tornato libero, fu incaricato dal Senato palermitano, due anni dopo, di ridisegnare l’impianto dell’aula del Consiglio civico, insieme al pittore Giuseppe d’Alvino (detto il Sozzo). Oltre a occuparsi del progetto, Veneziano compose l’iscrizione per una lapide muraria.
Recluso di nuovo nel Castello a Mare per aver composto altri versi satirici, morì nell’esplosione della fortezza causata dallo scoppio di due polveriere, il 29 agosto 1593, assieme a un centinaio di persone. Il suo corpo mutilato, rinvenuto fra le macerie, fu portato a Monreale e sepolto nella cappella del Rosario della chiesa di S. Vito.
Nessun componimento di Antonio Veneziano fu pubblicato mentre l’autore era in vita, e difficile è anche risalire alla datazione esatta delle sue opere (eccezion fatta per la Celia, in gran parte scritta tra il 1578 e il 1580). Ciononostante, i suoi testi manoscritti – componimenti in toscano, in latino, in dialetto siciliano, alcune satire come Il puttanesimo e La coglioneide – erano noti e il poeta godeva di una certa celebrità (come pure dimostra la festa che fecero i palermitani per la sua liberazione da Algeri), che gli valse l’amicizia dei potenti e l’ammirazione dei contemporanei (come Torquato Tasso: cfr. Ortolani 1819, e Filippo Paruta, che tradusse alcune sue ottave in latino: Amores Philippi Parutae ex Siculis Cantionibus Antonii Venetiani). Le prime edizioni delle sue opere comparvero nel secolo successivo: i Proverbij, apocrifi (Palermo 1628), la Celia (Palermo 1638), gli Epigrammata, in latino (Palermo 1646), e i componimenti poi inclusi nell’antologia Muse siciliane, overo scelta di tutte le canzoni della Sicilia, in quattro volumi, a cura di Pier Giuseppe Sanclemente (pseudonimo di Giuseppe Galeano) (Palermo, 1645-1653).
Fonti e Bibl: Volume manoscritto conservato presso la Biblioteca centrale della Regione Siciliana Alberto Bombace di Palermo, «probabilmente autografo, e perciò databile agli ultimi vent’anni del Cinquecento»: F. Carapezza, Descrizione del Ms. PR10, in Antonio Veneziano, Libro delle rime siciliane, ed. critica a cura di G. M. Rinaldi, Palermo 2012, pp. XXXIII-XLIV; G.E. Ortolani, Biografia degli uomini illustri della Sicilia, III, Napoli 1819, s.v.; G. Modica, Ricerche critiche sulla vita e sulle opere di Antonio Veneziano, Palermo 1827; A.V., Ottave, introd. di L. Sciascia, a cura di A. Rigoli, Torino 1967; M.C. Ruta, Le ottave di Cervantes per Antonio Veneziano e Celia, in Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 14 (1980), pp. 171-176; C. e G. Sulli, Antonio Veneziano: dal mistero di Celia al ...puttanesimo, Palermo 1982; G. Millunzi, Del sole della luna dello sguardo. Vita di Antonio Veneziano, ivi 1994; F. Brevini, A.V., in La poesia in dialetto, III, Milano 1999, pp. 4348-4353; A. Corso, Vita Antonii Venectiani, in Sulu e ricotu cu li mei pinseri..., Monreale 2010, p. 42-62 (http://ascm.altervista.org pdf); Antonio Veneziano. Libro delle rime siciliane, a cura di G. M. Rainaldi, Palermo 2012; T. Leuker, Una redazione sconosciuta delle canzuni di Antonio Veneziano: Firenze, BNCF, ms. Magl. VII 1379, in Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 27, 2016, pp. 101-121; F. Caparezza, Canzuni su una Lanza nel ‘libro’ di Antonio Veneziano, ibid., pp. 123-147.