SEBREGONDI, Giuseppe Maria. – Nacque a Como il 3 marzo 1792, da Giacomo Antonio, decurione e podestà di Como, e da Lucia, della prestigiosa casata Odescalchi.
La sorella della madre, Caterina, era moglie di Luigi Melzi d’Eril, fratello minore di Francesco, vicepresidente della napoleonica Repubblica italiana, che dunque di Giuseppe Maria era zio.
Compì i primi studi con tutori privati in casa, poi all’università di Pavia seguì studi giuridici. Tuttavia in una lettera lui stesso scriveva di essere laureato in matematica (Nada, 1957, p. 30, n. 2). In quanto nobile entrò nella Guardia d’onore napoleonica, venendo così a fare parte della Guardia reale per poi prendere parte alla campagna del 1814. Eugenio di Beauharnais, viceré del Regno d’Italia, lo insignì sul campo della croce della corona ferrea.
Nel Lombardo-Veneto della restaurazione si avviò alla carriera degli uffici. Nel 1817 era alunno di concetto nella delegazione di Como, ossia nell’istituto provinciale subentrato alla prefettura napoleonica. Nel 1821 passò, sempre come alunno di concetto, presso il governo di Milano. Nel 1822 divenne segretario nella delegazione di Pavia, per poi tornare a quella di Como, nel 1826, come secondo aggiunto. La progressione di carriera lo avrebbe poi visto primo aggiunto alla delegazione di Como nel 1829, vice delegato di Brescia nel 1830 e infine delegato a Mantova nel 1831. Un percorso negli uffici, il suo, per l’epoca piuttosto rapido, esito certo delle sue capacità ma anche del suo nome e delle parentele. Entrambi questi aspetti ebbero peso in ciò che accadde nel 1832.
Nel 1831 si era avuta una sollevazione a Bologna e nelle legazioni, che il governo papale non era stato in grado di arginare. Il neoeletto pontefice Gregorio XVI si era trovato perciò costretto a chiedere l’intervento armato degli austriaci, che con la fine di marzo erano pervenuti a ristabilire la calma. Alla normalizzazione aveva fatto seguito una decisa azione austriaca affinché la Santa Sede procedesse, pur senza derogare dal sistema assolutista di governo, ad alcune riforme nell’organizzazione finanziaria, amministrativa e giudiziaria che potessero placare le legazioni, impedendo così il diffondersi delle suggestioni liberali. Il governo condotto dal segretario di stato cardinale Tommaso Bernetti aveva però subito mostrato un orientamento volto piuttosto alla repressione che non alla creazione di apparati di governo più efficienti. Metternich aveva allora deciso di posizionare un proprio uomo di fiducia nelle legazioni, dietro un incarico di facciata giustificato dalla richiesta di supporto militare, al fine di controllare la situazione e premere presso il governo romano per sollecitare le auspicate riforme.
La scelta era caduta su Sebregondi. Certo nella scelta dell’uomo avevano pesato le referenze ricevute da Metternich circa le sue capacità politico-amministrative. Ma non meno doveva avere pesato il fatto che nel 1821 egli avesse sposato Camilla Francesca Barbiano di Belgioioso, la cui madre, Maria Oppizzoni, era sorella del cardinale Carlo Oppizzoni, da molti anni arcivescovo di Bologna. Quest’ultimo, milanese, arrivato a Bologna negli anni napoleonici, era stato a lungo osteggiato dall’ambiente bolognese. Ma la posizione a sostegno della città nei rapporti con Roma da lui tenuta negli anni della restaurazione lo avrebbero riconciliato con la città. Dopo i moti del ’31, poi, fu posto da Bernetti quale cardinale a latere a capo del governo unito delle quattro legazioni. In quell’occasione tentò una riforma delle finanze che rendesse indipendente dalla tesoreria romana l’amministrazione finanziaria delle legazioni. Bernetti reagì duramente, allontanandolo dall’incarico, ma ciò gli valse l’appoggio deciso dell’ambiente liberale bolognese e delle legazioni. Pertanto la scelta operata da Metternich di Sebregondi a Bologna quale commissario imperiale presso le milizie stanziate nelle legazioni fu salutata, al suo arrivo a Bologna il 17 febbraio 1832, con parole di speranza da Francesco Rangone nel suo diario: «Mantova ha pianto la sua partenza, ove egli era delegato governatore, e invidia il possedimento di questo uomo stimabile. Egli è stato preceduto da una onorevole fama dalle più lusinghevoli lettere. Si dà per combinazione ancora che egli è marito ad una nipote del nostro Cardinale Arcivescovo e ciò rallegra moltissimo i bolognesi. ... Vuolsi che a noi sia stato mandato dall’Imperatore medesimo per organizzare su basi migliori queste province» (Nada, 1957, p. 30).
Sebregondi sarebbe subito entrato in contrasto con il cardinale Giuseppe Albani, che era stato nominato commissario straordinario per le legazioni, e che, in pura logica repressiva, pochi giorni dopo l’arrivo del commissario austriaco aveva installato un tribunale statario, dunque una corte speciale, per giudicare i protagonisti dei moti.
Metternich cominciò allora a spingere affinché Sebregondi potesse operare direttamente a Roma, cosa che ottenne grazie al parere favorevole del papa, per cui in aprile si portò nella capitale, ufficialmente per trattare questioni di compensi per i militari austriaci. Si avviò così la lunga permanenza di Sebregondi presso Gregorio XVI, del quale riuscì ad acquisire la piena fiducia: «Diceami la Santità Sua, che la mia presenza le era di grandissimo conforto, imperocché in una spaventosa divergenza di continue domande e di pareri più non sapea a che cosa dovesse effettivamente provvedersi», scriveva Sebregondi a Metternich il 24 agosto 1832 (Nada, 1957, p. 66).
La permanenza a Roma fu lunga, sino al 17 luglio 1835. In questi anni visse una situazione complessa, in cui si trovò a essere uomo di fiducia del pontefice, che a lui si appoggiava per ogni riforma nell’amministrazione statale, e al tempo stesso inviso e contrastato dall’ambiente di curia. All’atto del rientro a Milano, richiamato imperiosamente per assumere la carica di consigliere aulico presso la Cancelleria vicereale del Lombardo-Veneto, con competenza particolare sulla sanità, Sebregondi fece avere a Metternich una lunga lettera, datata 11 luglio 1835 (pubblicata in Nada, 1957, pp. 221-230), nella quale rifletteva sul proprio operato. Testo, questo, di notevole interesse, perché segue le vicende dell’intero periodo trascorso a Roma nella sua veste, del tutto informale, di consigliere di Gregorio XVI. Al di là della effettiva realizzazione delle riforme amministrative che Sebregondi si attribuisce nello scritto, soprattutto in campo finanziario, ciò che emerge è l’idea di stato che sta alla base dei progetti che sottoponeva al pontefice: vi si riconosce un’aspirazione alla razionalità amministrativa e una ricerca dell’efficienza che ricordano la stagione napoleonica. Il quadro che fa dell’amministrazione romana al suo arrivo è feroce: «Un estimo provvisorio erroneamente stabilito quarant’anni addietro reggea l’assegno delle pubbliche imposizioni; prelati mutabili ogni dì per le promozioni che recavanli indistintamente dallo stato ecclesiastico al giudiziario, al politico, o viceversa, conduceano incerta sempre e troppe volte capricciosa la pubblica gestione; supremi dicasteri, agenti per brevi di papi o rescritti pontifici ad ogni altro sconosciuti, teneansi in continua collisione fra loro, vinti troppo spesso dall’intrigo e dalla prepotenza; una truppa tolta dalle bettole, senza istruzione, lacera e mal pagata, non valea a sostenere il decoro e le disposizioni del governo, né potea sottrarsi all’accusa di favorire invece qualsiasi idea di mutamento nell’ordine della sovranità; nessuna legge penale e pochi bandi difformissimi fra loro per la repressione dei delitti; nessuna per le infrazioni dei regolamenti di polizia; eccezioni illimitate che impedivano ai tribunali ordinari il portare sentenza nelle cause civili» (Nada, 1957, p. 223). Su tutto rivendicava di avere ottenuto, grazie alle scelte operate dal papa dietro suo indirizzo, significativi miglioramenti e soprattutto adeguamenti in chiave di ammodernamento della forma stato. Scriveva: «Un regolamento viene oggi pubblicato altresì per separare definitivamente le azioni amministrative dalle giudiziarie, determinare i confini delle due podestà e rendere immuni gli atti del governo e delle pubbliche amministrazioni dall’influenza dei tribunali: tale immenso vantaggio è affatto nuovo in questi stati» (Nada, 1957, p. 227). E ancora: «Un commissario straordinario fu istituito nelle legazioni perché v’avesse il governo un miglior centro di attività e di rappresentanza» (p. 229). A conferma del rapporto privilegiato con il pontefice fu creato, con Senatu Consulto del 19 giugno 1835, patrizio romano, con trasmissibilità a tutti i suoi discendenti maschi. Nel 1834 Gregorio XVI gli aveva inoltre donato il corpo di s. Gaudenzia martire, allora rinvenuto nelle catacombe, corpo tuttora conservato nella cappella gentilizia della villa di famiglia ‘La Macciasca’, sita nella frazione Maccio del comune di Villa Guardia, nel Comasco.
Arrivato a Milano, Sebregondi non cessò tuttavia di essere reclamato presso di sé da Gregorio XVI. Il nuovo sovrano, Ferdinando I, acconsentì al suo ritorno per breve tempo, cosa che fece giungendo nella città il 26 novembre 1835. Tuttavia il 27 gennaio 1836, su pressione in primo luogo del ministro dell’interno Kolowrat, dovette definitivamente rientrare a Milano, pur restando in contatto epistolare con il pontefice, che con suo breve del 22 gennaio 1836 gli conferì anche il titolo trasmissibile di conte.
Il punto più alto della carriera degli uffici Sebregondi lo raggiunse con la nomina, il 17 marzo 1841, a vice presidente del governo veneto, carica che mantenne sino al 1848. In questo ufficio si ricorda l’attivo ruolo a capo della commissione creata nel 1844 dal governatore per esaminare il complesso piano di ridefinizione urbanistica legato al progetto per costruire a Venezia la stazione ferroviaria (A. Bernardello, Venezia nel Regno Lombardo-Veneto. Un caso atipico (1815-1866), Milano 2015, p. 47). Sebregondi nel 1843 si trovò anche sottoposto a un’indagine di polizia, che portò il governatore Pálffy a chiedere al viceré Ranieri l’apertura di un’inchiesta su di lui, i cui esiti non sono noti.
Il 1848 rappresentò un momento definitivo di frattura tra Austria ed élites lombardo-venete. La profonda riorganizzazione amministrativa che seguì tra 1848 e 1849, con accentramento dei poteri in un unico governatorato generale civile e militare del Lombardo-Veneto, portò alla cessazione del ruolo di vicepresidente occupato da Sebregondi. Egli rientrò allora Como, e in linea con il comportamento di tanta parte del notabilato, si rese disponibile solo a cariche locali. Fu dunque podestà a Como dal 1850.
Al momento della nomina del podestà di Milano al termine dello stato d’assedio nel 1854, dopo il rifiuto ripetuto ad assumere la carica da parte dei soggetti inseriti nelle terne predisposte dal consiglio municipale, anche Sebregondi si trovò a essere compreso nella terna predisposta il 31 marzo 1856, ma anch’egli rifiutò. Tuttavia il 27 novembre 1856 l’imperatore lo nominò d’autorità a podestà, esonerandolo nel contempo dalla omologa carica comasca. Fu così l’ultimò podestà di Milano austriaca. Si ricorda che nel gennaio del 1858 non volle intervenire ai funerali del feldmaresciallo Radetzky.
Quando il 4 giugno 1859, dopo la battaglia di Magenta, Cesare Giulini e Cesare Correnti, su mandato di Cavour, si incontrarono con la congregazione municipale milanese per avviare l’unione di Lombardia e Piemonte, Sebregondi era ovviamente a capo dell’istituto, che nell’occasione deliberò le misure di sicurezza e di difesa necessarie. Il giorno successivo l’organo votò un indirizzo a Vittorio Emanuele II, con cui confermava il plebiscito del 1848.
A questo punto Sebregondi si ritirò a vita privata nella sua villa, ‘La Macciasca’, ove morì l’11 settembre 1861.
Dopo il primo matrimonio aveva sposato in seconde nozze, nel 1837, Anna Caccia Dominioni di Sillavengo, e in terze nozze, nel 1840, Maddalena Cornaggia Medici. Dalla prima moglie ebbe Francesco Maria e Ambrogio. Fu insignito di numerosi titoli onorifici.
Notizie in Archivio di Stato di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 638; e Cancellerie austriache, b. 40, f. 492.
Fondamentale per la vicenda romana, ma anche per molti dati biografici, N. Nada, Metternich e le riforme nello Stato pontificio. La missione Sebregondi a Roma (1832-1836), Torino 1957: in Appendice viene pubblicato il ricco epistolario tra Sebregondi e Metternich, conservato al Haus- Hof- und Staatsarchiv Wien.
Altri profili biografici si leggono in V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano, 1934, VI, p. 225; M. Meriggi, Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), Bologna 1983, p. 212, n. 21; A. Ippoliti, Giuseppe Sebregondi in undici lettere di Stendhal, Como 1996. Si veda anche: I Sebregondi. Tra Rivoluzione francese e Risorgimento, https://www.mpopus.it/public/miscellanea/sebregondi.html (27 novembre 2020).
Un giudizio in negativo di Sebregondi lo si legge in C. Belviglieri, Storia d'Italia da 1804 al 1866, Milano 1867, II, p. 158.