ALTOVITI, Bindo
Nacque a Roma il 26 nov. 1491 dal nobile fiorentino Antonio. Rimasto a sedici anni orfano del padre, che aveva iniziato le fortune bancarie della famiglia trasferendosi da Firenze a Roma, dove aveva sposato nel 1487 Dianora di Clarenza Cibo, nipote di Innocenzo VIII, e ricoperto la carica di tesoriere o zecchiere pontificio, l'A. non dissipò le ricchezze ereditate, anzi riuscì ad ampliare notevolmente la sfera d'interessi dell'azienda paterna, approfittando dell'indebolita relazione d'affari tra i Medici e la Curia romana. Poco più che ventenne, sposò Fiammetta Soderini, pure di nobile famiglia fiorentina.
Il suo ritratto, dipinto da Raffaello e ora conservato nella pinacoteca di Monaco, lo mostra ancora in giovane età di aspetto gentile e con sobria eleganza rinascimentale, ma insieme con tratti che rivelano un carattere energico e austero.
Uomo colto, dotato di buon gusto artistico e mecenate di artisti celebri (Raffaello, per suo incarico, dipinse una Sacra Famiglia conosciuta col nome di Vergine dell'impannata; Michelangelo, che tanto lo stimava quanto invece disprezzava il ricchissimo gaudente Agostino Chigi, gli donò il cartone dell'affresco l'Ubriachezza di Noè e disegnò per lui una Venere, colorita poi dal Vasari; il Cellini lo ritrasse in un busto di bronzo, quando l'A. era già in età matura verso il 1550; al Vasari commissionò il quadro della Concezione di Maria per la cappella Altoviti nella chiesa dei SS. Apostoli a Firenze; per non parlare dei ritratti che gli fecero Cecchino Salviati e Santi di Tito, oppure del modello della statua di S. Giacomo, che gli donò il Sansovino), l'A. non trascurò tuttavia i suoi affari di banca. Se non poté competere con la favolosa ricchezza del banchiere e mercante Agostino Chigi, ben si distinse fra gli altri banchieri di Roma e fu abile nell'imporsi dopo la morte del Chigi (1520) e la successiva chiusura del suo banco (1528), anche se subentrarono in temibile concorrenza banchieri genovesi, come pure i tedeschi Fugger e Welser. La sua attività finanziaria diventò sempre più complessa e vasta: il 24 maggio 1529 fu nominato commissario generale per l'esazione delle tasse della Camera apostolica; ebbe, poi, l'appalto del sale per le Marche e per il territorio di Spoleto; il 20 genn. 1525 fu nominato dal papa esattore delle imposte straordinarie per le spese dei festeggiamenti in onore della visita dell'imperatore Carlo V a Roma; appaltò dogane e nel 1540 anche il trasporto di grossi tronchi per la fabbrica di S. Pietro fin dalle abetaie di Camaldoli, mentre già da anni era depositario dei denari per la medesima fabbrica; tra i suoi clienti ricordiamo il duca Carlo di Savoia, quando nel 1529 si trovò in difficoltà erariali nella lotta contro gli eretici svizzeri, e il re Enrico II di Francia, che nel gennaio del 1526 ottenne un prestito di 300.000 scudi, al 16 % d'interesse.
Oltre agli affari di banca e alla mercatura, l'A. segui con appassionata sollecitudine le vicende politiche della sua patria, manifestandosi ben presto ostile ai Medici dopo il loro ritorno in Firenze nel 1530. Accettò, forse per non compromettere troppo i suoi interessi mentre regnava Clemente VII, gli onori di cui lo insigni il duca Alessandro (al Consiglio dei Duecento, quando fu istituito nel 1532, e console della "nazione fiorentina" a Roma), ma non esitò a congratularsi con Lorenzino e soccorrerlo finanziariamente, appena seppe dell'uccisione del duca. La ascesa al pontificato di Paolo III segnò per l'A. l'apogeo delle sue fortune; volle subito esternare la sua fiduciosa devozione a casa Farnese, facendone ritrarre l'arn)e sulla facciata del proprio palazzo. Da allora si compromise sempre più nella cospirazione antimedicea, assumendo per insegna un toro che solleva con le corna un giogo e lo scaglia lontano; suo figlio Giovanni Battista si accordò con gli Strozzi per promuovere la sfortunata impresa dei fuorusciti fiorentini, che finì a Montemurlo.
Il nuovo duca di Firenze, Cosimo I, dissimulò il suo sdegno, anzi lo confèrmò console e nel 1546 lo elesse senatore. Appena, però, morì il protettore dell'A., cioè Paolo III, non nascose più i suoi propositi di vendetta; nel 1552 lo richiese formalmente al papa Giulio III, con il pretesto che l'A. sparlava di lui. Di fronte al rifiuto del pontefice Cosimo insistette, continuando a impedire l'insediamento di un figlio dell'A., Antonio, che nel 1548 era stato nominato arcivescovo di Firenze; da parte sua l'ormai vecchio A. non si arrese, anzi continuò a prodigarsi nell'armare i fuorusciti in soccorso di Siena, confortandoli a sperare anche nella liberazione di Firenze con l'aiuto del re di Francia e dei ricchi fiorentini esuli a Lione, Venezia, Ancona. A sue spese armò otto compagnie, con a capo il figlio Giovanni Battista; fornì loro verdi vessilli in cui campeggiava l'emblema del re Enrico di Francia, entro la scritta "Libertà delle città oppresse",e sul rovescio a lettere d'oro, i versi danteschi: "Libertà vò cercando ch'è si cara Come sa chi per lei vita rifiuta".
Si unì a loro Piero Strozzi a Buonconvento, ma furono sconfitti nella battaglia di Marciano. Come conseguenza, l'A. subì la confisca dei beni a Firenze, per il valore di 50.000 scudi, e il 30 dic. 1555 Cosimo gli fece confiscare anche la dote della moglie Fiammetta Soderini. Non per questo si piegò, anzi si decise a legare ancor più strettamente la sorte degli esuli fiorentini alle iniziative del re di Francia, prestandogli i 300.000 scudi di cui si èdetto.
Morì a Roma il 22 genn. 1557, forse ancora fiducioso nella liberazione della patria; ma, poco dopo, il crollo finanziario francese e, quindi, la pace di CateauCambrésis avrebbero seppellito ogni speranza degli esuli toscani. Fu sepolto nella cappella che si era edificata nella chiesa della Trinità dei Monti.
Ancora nel 1513 l'A. aveva restaurato il palazzetto paterno, nel rione signorile di Ponte S. Angelo, trasformandolo in un grande palazzo con l'annettervi alcune case vicine e aveva atterrate altre casupole per rendere più spaziosa la piazza circostante, detta appunto degli Altoviti, che cinse nel lato prospiciente il Tevere di botteghe affittate ad artigiani. Il portone d'ingresso del palazzo era rivolto verso la chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini e immetteva in un piccolo cortile, donde una scala di stile sangallesco portava a un artistico scrittoio, di cui il Vasari nel 1553 aveva affrescato la volta raffigurando quel Trionfo di Cerere che ora possiamo ammirare in una sala di palazzo Venezia. Il Vasari affrescò pure la vasta loggia della "vigna", ossia della villa che l'A. possedeva in località Prati di Castello lungo il Tevere e che aveva fatto adornare con statue e marmi preziosi tratti dalla Villa Adriana presso Tivoli, allora di proprietà della famiglia Altoviti. La "vigna" andò distrutta durante l'assedio di Roma nel 1849 e, d'altra parte, il palazzo Altoviti si dovette abbattere nel 1888 per lasciare il posto ai muraglioni del Tevere.
Bibl.: G. Alveri, Della Roma in ogni stato, II, Roma 1664, pp. 103-104; La vita di B. Cellini, a cura di A. J. Rusconi e A. Valeri, Roma 1901, pp. 459-461; L. Passerini, Geneal. e storia della famiglia Altoviti, Firenze 1871, pp. 51-52, 54-59; D. Gnoli, Le demolizioni in Roma. Il palazzo Altoviti, in Arch. stor. dell'arte, I (1888), pp. 202-211; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, IV, Roma 1901, p. 550 ;L. v. Pastor, Storia dei Papi, IV, 1, Roma 1908, pp. 362-363; V, ibid. 1914, pp. 737 e 758; VI, ibid. 1922, pp. 259 e 262; R. Ehrenberg, Das Zeitalter der Fugger, Jena 1922, I, pp. 274 e 304-305; O. Belloni, Un banchiere del Rinascmento, B. A., Roma 1935; Id., Dizion. storico dei banchieri italiani, Firenze 1951, pp. 12-14.