Bicci novel, figliuol di non so cui
. Terzo e ultimo sonetto di D. nella tenzone (v.) con Forese (Rime LXXVII). Replicando al secondo di Forese (Va, rivesti San Gal prima che dichi), il poeta sembra sorvolare sulle accuse di mendicità ivi affastellate con allusioni agrodolci a taluni parenti suoi più o meno prossimi, per ribadire, o esplicitare, i temi del suo precedente sonetto (la golosità rovinosa di Forese, la malfida arte del furto); di fatto ripronuncia in tono perentorio quei temi (vv. 3-4) e coinvolge nella replica l'intera famiglia dei Donati, di cui scrive, parafrasando, il Russo: " Sciagurata tutta la famiglia dei Donati, dove il disordine sessuale è regola normale (Bicci novel, figliuol di non so cui) e i fratelli son tutti gente della stessa risma, se fanno compagnia alle loro mogli come fossero dei semplici cognati; e pietosa la figura del padre putativo che passa in angoscia le sue notti " per tema che Forese non sia preso a lo 'mbolare, cioè in reato flagrante di furto. Si osservi il percorso ritmico del nome Bicci dal primo sonetto al secondo e al terzo: dall'interno all'inizio del secondo verso e da questo all'inizio del primo in " congiuntura ritmicamente demarcativa ": esposto frontalmente, si direbbe, a una tempesta di colpi che non ammette repliche.
Stando a una novella trecentesca pubblicata dal Papanti (Novellieri in prosa, I 46, citata dal Barbi), parrebbe che il dubbio sulla legittima paternità di Forese fosse di pubblico dominio: il Russo non esclude che " l'aneddoto riportato dal Papanti si sia generato per maldicenza politica contro i Donati ".
Il passaggio dalla seconda alla terza persona ai vv. 5-8 è, per il Contini, " icastico e feroce ". "Possiamo aggiungere ", nota acutamente il Foster, che esso " fa la parodia di una tecnica familiare dello stilnovo ": parodia nella situazione generale (le reazioni della gente) e in alcuni particolari (il breve discorso diretto che chiude la fronte; faccia fessa in luogo di " Amor pinto nel viso "; piuvico ladron negli atti sui e non, per esempio, " gentile / negli atti ed amorosa "; si guarda da lui, / chi ha borsa a lato, là dov' e' s'appressa, contro, per es., il guinizzelliano " e non si pò appressar omo ch'è vile "). Attira così, dietro i ‛ vituperia ' del testo, una trama quasi perfetta di espressioni antitetiche, proprie della poesia di lode; e suggerisce una delle ‛ componenti letterarie ' della tenzone.
Non meno fruttuoso risulta l'esame delle terzine.
S'è fatto un gran discorrere sul confronto di Simone Donati, padre putativo di Forese, con s. Giuseppe (che gli appartien quanto Giosepp'a Cristo, v. 11), che ha un precedente in Brunetto (" Ioseph, qui neant ne li fu ", cioè " e Giosef no gli appartegneva nulla, fuori ch'era marito di santa Maria, senza nullo carnale assembiamento ", come si legge nel volgarizzamento attribuito al Giamboni), e un'eco - segnalata dal Corbinelli e dal Parodi - nel Corbaccio. Ammessa dai più un'irriverenza non intenzionale in codesta menzione del Cristo in rima con tristo e male acquisto, si è tuttavia dato credito all'ipotesi del D'Ovidio, circostanziata e convincente, che se, nel poema, il nome di Cristo tollera di rimare unicamente con sé stesso (Pd XII 71-75, XIV 104-108, XIX 104-108, XXXII 83-87), ciò si debba a un proposito di ammenda, non dissimile da quello che ispirò l'integrale palinodia dei canti XXIII e XXIV del Purgatorio. Il Foster, anzi, si chiede se la stessa menzione del Cristo che affiora al v. 74 del primo di questi canti possa davvero ritenersi irrilevante rispetto all'accenno irriguardoso del sonetto.
Ma è, o sembra, sfuggito al D'Ovidio e agli studiosi un dato, che denuncia non solo il preciso terreno ‛ letterario ' (comico-realistico) sul quale nacque e operò l'istanza tenzonatoria del poeta, ma un nuovo episodio dei rapporti di D. con Cecco Angiolieri, da aggiungere ai già noti e da usufruire nello studio della complessa personalità artistica del poeta stesso. Le tre rime tristo, Cristo e male acquisto sono desunte di peso dal sonetto di Cecco: " Sed i' credesse vìvar un dì solo / più di colui che mi fa viver tristo ": sfogo rabbioso contro il padre - altrove detto " 'l ladro di Salvagno " - imbottito ("borrato", v. 7) dal " malacquisto ", che gli allunga la vita. Tre rime non comuni, determinanti: egregiamente innestate nel nuovo contesto: un riscontro, forse, implicito e tutto mnemonico, del sonetto di Cecco Dante Alighier, Cecco, 'l tu' serv' e amico, che del dantesco Oltre la spera (Vn XLI 10-12) ripigliò ironicamente appunto tre rime: Amore, Beatrice, care, nel tempo della sua poetica amorosa parodistica?
Altri rimbalzi angioliereschi si avvistano in questo come nel precedente sonetto; e così pure in quelli di Forese.
Del v. 14 scrive il Contini: " L'interpretazione... è incerta: o i fratelli Donati trascurano tutti le loro mogli come Forese, ‟ trattandole da cognati e non da mariti " (D'Ovidio, col Gaspary); o commettono, con loro, mutuo adulterio; o finalmente ‟ son degni parenti delle loro mogli per le famiglie anche cattive di esse ". Ma plausibile sotto ogni riguardo sembra solo la prima, difesa, dopo il D'Ovidio, dal Del Lungo, dal Mazzoni, dal Barbi, e ancora dal Russo come dal Foster e dal Pézard: essa conferma e conchiude il tema del primo sonetto (accanto alle trepide veglie di Simone, che sono un altro riflesso delle assenze notturne di Forese) e trova rincalzo nel senso morale del poeta quale si esprimerà, per es., nella canzone della leggiadria (Poscia ch'Amor, Rime LXXXIII), che riprende, dopo gli scialacquatori, coloro che non sono innamorati / mai di donna amorosa, e non moveriano il piede / per donneare a guisa di leggiadro, / ma, come al furto il ladro, / così vanno a pigliar villan diletto e paiono animai sanza intelletto (vv. 48-54 e 57): siano pure, questi versi, sulla traccia del guittoniano O molto vile (vv. 13-17): " ed a femina vil talor barone, / trascurata ragione, / valore e onor, servo se dae; / e sol de notte vae / per lochi laidi e strain, come ladrone ".
Che cognati sia da intendere in senso stretto - come in If VI 2 - troverebbe appoggio nell'uso che proibiva a una vedova di passare a seconde nozze con un cognato.
La struttura metrica risponde al carattere perentorio e conclusivo della replica: non più a rime " aperte ", alternate, ma a schema chiuso (ABBA, ABBA, CDC, DCD) " tanto più trionfale " (Contini). Per notizie sulla tradizione manoscritta, v. TENZONE CON FORESE.