BIANCHI
. Il movimento religioso popolare dei flagellanti detti Bianchi, percorse l'Italia nel 1399. A Chieri il 5 marzo alcuni popolani, stanchi dei danni patiti per opera di Facino Cane nella guerra tra Savoia e Monferrato, uscirono in piazza gridando "Pace e misericordia" e flagellandosi a sangue in segno di penitenza (Chronicon parvum Ripaltae).
La leggenda collega invece l'origine del moto ad apparizioni miracolose avvenute nell'uno o nell'altro stato di Europa. Le popolazioni d'Italia, dilaniate dalle guerre, anelavano alla pace e al perdono: migliaia di uomini, donne e fanciulli, vestiti completamente di bianco (di qui la denominazione del moto penitenziale), percorrevano per nove giorni, seguendo un Crocifisso, le contrade vicine, muovendole a loro volta a penitenza, flagellandosi aspramente, procurando la rappacificazione degli spiriti e la liberazione dei prigionieri, cantando inni e in particolare la dolente lauda "Misericordia, eterno Dio" che fu come il loro canto ufficiale. Religiosi e vescovi parteciparono al moto; a Venezia il beato Giovanni Dominici, senza paventare le proibizioni della Signoria, guidava le turbe dei flagellanti e scontava il suo ardimento con l'esilio; a Genova l'arcivescovo Fieschi, vecchio e pieno d'acciacchi, a cavallo, si associava all'interminabile processione dei penitenti che erano ben 30.000. La "passata dei Bianchi" traeva a sé non solo il popolino, ma anche le autorità ecclesiastiche e civili, le quali dal moto speravano un rinnovamento degli spiriti e dei costumi; principi e governatori vestirono il sacco; a Ferrara la processione veniva capeggiata dal marchese Niccolò d'Este, a Padova da Francesco Carrara, a Rimini da Carlo Malatesta e Carlo Gonzaga.
Il 7 luglio il moto, dopo essersi manifestato ad Alessandria, raggiunge Genova, e di qui dividendosi in due filoni sale verso Venezia da un lato e discende lungo il Tirreno dall'altro, mirando a Roma; l'8 agosto s'iniziano le processioni a Lucca, il 13 a Pistoia, propagandosi in tutta la Toscana e nell'Umbria. Intanto altre correnti avevano raggiunto il 9 agosto Bergamo, e poi Milano, Como, Piacenza, Parma, Reggio, ecc. Qualche processione si ebbe anche a Napoli, in Calabria, nelle Puglie, nel Friuli.
Da Orvieto partì il 6 settembre il primo gruppo di flagellanti verso Roma; erano 10.000. Benché il papa Bonifacio IX diffidasse dapprima della novità, constatata poi la pietà che animava i pellegrini, li favorì e vi partecipò egli pure, soprattutto dopo che si sparse la notizia d'un grande miracolo avvenuto a Sutri. Il giorno seguente al prodigio, il 7 settembre, i Bianchi entrarono solennemente in Roma seguendo la croce di Sutri portata dal conte Niccolò dell'Anguillara; da quella domenica anche i Romani cominciarono a vestirsi di bianco e a flagellarsi. Secondo il Sercambi si radunarono a Roma 120.000 pellegrini. Bonifacio IX aveva intanto promulgato "il perdono di colpa e di pena" a qualunque persona avesse compita la penitenza per nove giorni, e indiceva il giubileo del 1400 che trasse anche più numerose le folle a Roma. Ma la peste, manifestatasi a Genova e poi a Venezia fin dal 1397, faceva strage nel 1399 nell'Italia settentrionale, e nell'anno del giubileo flagellava spietatamente le contrade dell'Italia centrale, travolgendo il movimento dei Bianchi.
Del moto restò un pallido ricordo nelle laudi, nei gonfaloni, negli affreschi giunti fino a noi. Delle laudi alcune furono tolte dal repertorio delle confraternite preesistenti, altre vennero composte per l'occasione; tutte hanno scarsissimo valore letterario. Pochi nomi di autori ci sono noti: Andrea Stefani fiorentino, Bertoldo da Montepulciano, Ugolino di Bernardo da Pisa e forse anche Franco Sacchetti. Del moto ci lasciarono notizia, oltre ai brevi cenni dei cronisti contemporanei, il Sercambi nelle sue cronache, Francesco Datini da Prato in una "ricordanza", Luca Dominici in un ampio racconto inedito, ecc. Gerardo Anichini, amico di Coluccio Salutati, compose un carme latino (inedito) sulla scorreria dei Bianchi, offrendolo ad Antonio di Montefeltro, conte di Urbino, nello stesso anno 1399.
I Bianchi portavano sugli abiti consueti vesti di lino scendenti fino ai piedi; la testa e il volto erano coperti da un cappuccio, che per lo più aveva solo due fori per gli occhi; sul capo e sul petto avevano una croce rossa, ed una cintola di corde serrava i fianchi; procedevano dietro il Crocifisso a due, a tre, talora recando candele accese in mano, battendosi con una sferza, cantando laudi, chiedendo perdono dei peccati.
La "devozione" attraversò tutta l'Italia senza oltrepassarne, come quella del 1260, i confini.
Bibl.: G. Lami, Lezioni di antichità toscane e spezialmente della città di Firenze recitate nell'Accademia della Crusca, Firenze 1766, lez. XVIII: Delle sette dei flagellanti in Toscana (pubblica parte della cronaca di Luca di ser Bartolomeo Dominici di Pistoia); Le cronache di Giov. Sercambi lucchese, a cura di Salvatore Bongi (Fonti per la storia d'Italia, XIX-XX, Roma 1892); C. Guasti, Ser Lapo Mazzei. Lettere di un notaro ad un mercante del sec. XIV, Firenze 1880 (pubblica la "ricordanza" del Datini); V. Federici, Il miracolo del crocefisso della compagnia dei bianchi a Sutri (Scritti di filologia e d'arte per nozze Fedele-De Fabritiis), Napoli 1908; G. M. Monti, Un laudario umbro quattrocentesco dei Bianchi, Città di Castello 1920.