CARANTI, Biagio
Nacque a Sezzè Monferrato, oggi Sezzadio (prov. di Alessandria), nel 1839 da Giuseppe, magistrato, e da Emilia Groppello. Dopo aver compiuto i primi studi a Castelnuovo e ad Acqui, il C. si iscrisse nel 1856 ai corsi di giurisprudenza dell'università di Torino. In questa città conobbe il marchese Giorgio Pallavicino: da lui fu guidato nei primi passi dell'attività politica, tanto che all'inizio del 1858 divenne uno dei segretari della Società nazionale, appena costituita, adoperandosi per la creazione di comitati ad Acqui, Alessandria, Savona, Voghera, e per raccogliere adesioni fra gli studenti delle università di Torino e Genova. Nel maggio, per incarico del Pallavicino, inviò a Garibaldi, eletto vicepresidente, un'ampia relazione sui progressi della Società nazionale in tutta Italia e in particolare in Lombardia, ove erano sorti ben quattordici comitati (Memorie di G. Pallavicino). Frattanto, dopo aver iniziato l'attività pubblicistica collaborando al periodico torinese Mondo letterario, il C. compose, nell'ambito dell'azione propagandistica e di educazione nazionale promossa dalla Società nazionale, un Catechismo politico pei contadini piemontesi (Torino 1858), che intendeva preparare le masse contadine ad affrontare i sacrifici della ormai inevitabile guerra di liberazione nazionale.
Riconosciuto ai lavoratori delle campagne "il diritto di sapere per quale causa vi si chiedano continuamente nuovi sacrifici, perché vi si domandi lo sborso di quei pochi denari che vi guadagnate col santo sudore della fronte", il C. si affretta a ricordare loro e di essere onesti e laboriosi, di non aspirare a cose troppo al dissopra del vostro stato "e a proclamare come costante, ma inevitabile ingiustizia della società" che ai loro caduti tocchi in sorte "nient'altro che un'oscura fossa" e che "ad altri si concedano la gloria e gli onori" (pp. 55.). Nella sua parte più efficace l'opuscolo era teso a combattere con semplici e chiari apologhi i diffusi pregiudizi antiunitari, fondati soprattutto sull'insofferenza per i numerosi esuli politici rifugiati in Piemonte; venivano inoltre illustrati i vantaggi economici che sarebbero derivati dall'unità con una conseguente diminuzione della pressione fiscale.
Alla fine dell'anno, quando già sembrava prossima la guerra contro l'Austria, il C. scriveva rapidamente l'opuscolo Delle nuove speranze d'Italia. Parallelo tra il 1848 e il 1859 (Torino 1859), dedicato a G. Pallavicino.
Egli analizzava gli interessi politici delle principali potenze europee: Francia, Prussia, Russia e Inghilterra, per vari motivi e in diversa misura, sarebbero state - secondo il C. - favorevoli alla diminuzione della potenza austriaca, alla creazione di un forte regno sabaudo nell'Italia settentrionale e alla diffusione di governi costituzionali nella penisola. Egli poneva anche in guardia contro il pericolo di un peso eccessivo dell'appoggio francese che avrebbe provocato la sudditanza del Piemonte all'Impero napoleonico; suggeriva, quindi, di bilanciarlo provocando e invocando l'intervento inglese. Lucidamente proponeva ancora di fissare come obiettivo immediato l'indipendenza dell'Italia piuttosto che l'unità, contro cui si sarebbero coalizzati "gl'istinti municipali, gl'interessi dei vari principi, la gelosia d'Europa"; ma aggiungeva: "se però, per l'impreveduto succedersi degli avvenimenti, questo destro ci venisse porto, approfittiamone" (pp. 75 s.).
Scoppiata la guerra, il C. non vi partecipò, ma rimasto a Torino organizzò con la marchesa Pallavicino il Comitato di soccorso aiferiti. Subito dopo la liberazione della Lombardia vi si recò per raccogliere elementi sullo stato d'animo delle popolazioni, che gli furono utili per la stesura del Catechismo politico ad uso del popolo lombardo (Torino 1859).
Oltre che a giustificare con la motivazione dell'utilità generale l'inasprimento della pressione fiscale che veniva a gravare sulla Lombardia con il passaggio dal governo austriaco a quello sabaudo, egli spiegava elementarmente il funzionamento delle istituzioni costituzionali; nell'illustrare il principio della rappresentanza parlamentare difendeva la limitazione del diritto di voto a coloro che pagavano un censo annuo non inferiore a quaranta lire con motivazioni care ai liberali moderati: "perché egli è cosa naturale che siano più interessati a mantenere l'ordine quelli che hanno qualcosa da perdere, che quegli altri, i quali nel disordine invece hanno qualcosa da sperare. Eppoi al Parlamento si discute delle imposizioni; ora queste colpiscono colui che possiede qualcosa, non colui che non ha nulla al mondo" (Pagine raccolte, Torino 1879, p. 309).
Moderato sul terreno delle riforme sociali e istituzionali, il C. non nascondeva però la sua impazienza nell'invocare il proseguimento del disegno unitario. In una serie di Lettere politiche ad Aurelio Bianchi Giovini, a cui era legato da calda amicizia, pubblicate prima sull'Unione e poi, in estratto, con il titolo Progetto di confederazione fra le provincie poste sotto il protettorato del Re Vittorio Emanuele II (Torino 1859), propugnava la costituzione di una confederazione provvisoria dei ducati dell'Italia centrale sotto la dittatura di Luigi Carlo Farini. Realizzato questo suo desiderio, criticò le esitazioni del governo piemontese a promuovere nei ducati l'unificazione legislativa con lo Stato sardo, per realizzare l'unione di fatto se non era ancora possibile quella di diritto. Nell'opuscolo Intorno a un Congresso europeo sulle cose dell'Italia centrale. Considerazioni... (Torino 1859), egli, ritenendo che un congresso delle grandi potenze europee si sarebbe dichiarato contrario alla annessione dell'Italia centrale al Piemonte, indicava come unica via d'uscita un colpo di mano, per chiedere poi l'assenso individuale ad ognuna di esse.
Frattanto il C., che a quanto risulta non aveva completato gli studi universitari, aveva ottenuto un impiego presso il ministero degli Interni come applicato di terza classe nel gabinetto particolare del ministro Rattazzi. Mantenne il posto anche sotto il successivo ministero Cavour (il quale conservò per sé il dicastero degli Interni, cedendolo il 24 marzo 1860 al Farini), finché un incidente non deteriorò irreparabilmente i suoi rapporti con il grande statista.
Infatti, con notevole ingenuità, il 28 marzo 1860 egli fece pervenire al Cavour una lettera dettatagli dall'amico Bianchi Giovini, gravemente ammalato. Si trattava di una delle non rare richieste di aiuto finanziario del Bianchi Giovini nello stile che gli era proprio, aggressivo e sottilmente ricattatorio. Le conseguenze per questa imprudente lettera caddero sul C., che il Cavour decise di destituire dall'impiego. Ancora molti mesi dopo, in una lettera del 4 dic. 1860 a Giorgio Pallavicino, il presidente del Consiglio, benché giudicasse il C. "non privo d'ingegno", non riusciva a dimenticare la lettera scritta da lui a nome di Bianchi Giovini, piena zeppa di rimproveri, d'ingiurie e di villanie. Quantunque poco curi le offese personali, pure non poteva tollerare un atto così sfacciato d'insubordinazione senza danno del servizio; deliberai quindi di promuovere la sua destituzione. Il decreto era allestito quando mi si disse essere caduto gravemente ammalato, e correre pericolo della vita. La compassione vinse il rigore, ed il decreto fu sospeso" (La liberazione del Mezzogiorno, IV, pp. 14 s.).
La disgrazia in cui il C. era caduto presso il ministero rese meno efficace la azione che egli avrebbe potuto svolgere in favore della spedizione dei Mille (Garibaldi gli aveva scritto il 5 maggio 1860 da Genova: "È quasi certo che partiremo questa notte per il mezzogiorno. In questo caso io conto con ragione sull'appoggio vostro... Vedete tutti i nostri amici che ci aiutino a dare al popolo italiano la sublime scossa di cui è capace certamente e che deve emanciparlo...", in Catechismo politico ad uso del popolo dell'Italia meridionale, Napoli 1861, p. 10). Ma come membro della Società nazionale il C. fu ugualmente molto attivo, e collaborando strettamente con il Bertani si adoperò in maggio per la costituzione a Torino di un comitato di soccorso a Garibaldi. Dopo aver superato una breve, ma violenta malattia, trascorse un periodo di riposo a Castelnuovo Bormida, occupandosi ancora di raccogliere fondi per la spedizione garibaldina, per la quale riuscì alla fine di giugno ad ottenere un prestito dalla banca Belinzaghi di Milano. Nell'agosto 1860 il C. si unì a un gruppo di volontari che raggiunse la Sicilia, ove a Messina fu addetto allo Stato Maggiore della 15a divisione al comando del generale Türr, al C. di seguito rimase fino alla battaglia del Volturno. Il 1º ottobre, pochi giorni prima di assumere ufficialmente la carica di prodittatore, Giorgio Pallavicino lo chiamò a Napoli come suo segretario. In questo ufficio il C. coadiuvò validamente il Pallavicino nell'azione tesa a fare del plebiscito lo strumento dell'annessione incondizionata delle province napoletane al Regno di Sardegna, contro l'orientamento di Crispi, di Cattaneo e dello stesso Garibaldi, i quali sostenevano la necessità di far fissare da un'assemblea appositamente eletta le condizioni per l'annessione stessa. Prevalsa la volontà del Pallavicino e dimessosi Crispi da ministro degli Affari Esteri, il 13 ottobre il C. assunse la reggenza provvisoria del dicastero. Il Farini il 27 ottobre, nel lodare presso il Cavour, l'accortezza del Pallavicino nell'organizzare il plebiscito del 21 ottobre, scriveva: "Biagio Caranti, nostro avversario a Torino, è stato nostro avvocato a Napoli, ed ha molto aiutato il Pallavicino" (La liberazione del Mezzogiorno, III, p. 208). Soppressa la dittatura e tornato il Pallavicino in Lombardia, il C. rimase a Napoli come funzionario presso il ministero della Agricoltura e Commercio della luogotenenza, ma fino alla fine di novembre continuò a sbrigare gli affari correnti presso la segreteria del ministero degli Esteri.
Ciò irritò fortemente il Cavour, che il 29 nov. 1860 scriveva al Farini: "Ieri nell'aprire il corriere di Napoli rimasi stupefatto, quantunque io non mi stupisca più quasi, nel trovare una quantità di lettere a me dirette, firmate Biagio Carranti! Io professo il perdono delle ingiurie, e lo pratico su larga scala. Ma io non credo che il precetto domenicale possa andare sin al punto di sopportare che un ragazzaccio che conta un anno di servizio, che or son sei mesi volevamo voi ed io cacciare dal modesto impiego d'applicato di terza classe per atto inaudito d'insolenza, mi tratti quasi alla pari. L'innalzarlo al posto di reggente della Secreteria degli Esteri è, lasciate ch'io vel dica, una vera enormità, che sconvolge ogni idea di gerarchia nei nostri Dicasteri. Vi supplico adunque di dispensarmi dal carteggiare con lui. Fatelo Governatore civile di Napoli, se così credete, ma toglietelo dagli Esteri, giacché se ivi rimanesse dovrei tosto richiamare Negri, Villamarina, Fasciotti per non sottoporli all'umiliazione di dipendere da Biaggio Carranti" (La liberazione del Mezzogiorno, 1113 p. 397). Per questo motivo il Cavour rifiutò di accogliere una proposta di ricompensa che il Pallavicino aveva inoltrato per il C. al re.
Confinato in un ruolo più modesto, nel 1861 il C. pubblicò a Napoli il Catechismo politico ad uso del popolo dell'Italia meridionale, una riedizione (con gli opportuni adattamenti) del Catechismo politico ad uso del popolo lombardo. In questo modo mirava a procurarsi qualche incarico presso il ministero della Pubblica Istruzione a Torino, come risulta da una sua lettera Al conte Terenzio Mamiani (in Pagine raccolte, pp. 245-253), in cui suggerisce di dare maggiore impulso alla educazione popolare, introducendo nelle scuole primarie lo studio di appositi catechismi politico-sociali e agrari composti in semplice forma dialogica.
Nominato cavaliere della Corona d'Italia alla fine del 1861, l'anno seguente seguì a Palermo, ancora come segretario, il Pallavicino, che ricoprì la carica di prefetto dal 16, aprile al 25 luglio 1862 quando dovette dimettersi per aver dimostrato il suo appoggio ai volontari garibaldini radunati nel capoluogo siciliano alla vigilia di Aspromonte. Dopo questo episodio sfortunato, il C. presentò nell'opuscolo La nuova Roma (Torino 1862) una proposta originale e peregrina per la soluzione della questione romana, suggerendo la costruzione presso il confine dello Stato pontificio di una nuova città, che col nome di Vittoria sarebbe stata la capitale del Regno d'Italia. Frattanto era rientrato nell'amministrazione statale, divenendo in breve capo della I divisione presso il ministero dell'Agricoltura, Industria e Commercio. In questa veste presentò nel marzo 1865 al ministro L. Torelli una Relazione... sulla convenienza della colonizzazione penitenziera (in Pagine raccolte, pp. 37-61), che prospettava l'opportunità di acquistare le isole Nicobare per stabilirvi una colonia penale: il C. si dichiarava pronto a curarne lui stesso l'organizzazione, calcolando che nello spazio di tre anni essa sarebbe stata economicamente autosufficiente; ma la proposta non ebbe seguito. Nell'aprile 1865 egli rappresentò il ministero al congresso internazionale di Suez e al ritorno redasse una Relazione... sullo stato dei lavori dell'istmo di Suez (ibid., pp. 63-74).
Scoppiata la terza guerra d'indipendenza, egli chiese invano al generale La Marmora di poter organizzare un corpo di guardie forestali, dipendenti dal suo ufficio, per combattere nel Trentino. Collaborò invece con Stefano Türr, il quale premeva sul governo italiano perché, agevolasse l'organizzazione di una spedizione garibaldina nella penisola balcanica, ove si poteva contare sull'appoggio armato di Serbi, Romeni e dei patrioti ungheresi.
Per poter preparare l'impresa il Türr chiese il 6 giugno che fosse messa a sua disposizione una prima somma di 500.000 lire presso la legazione italiana a Costantinopoli e che il C. fosse incaricato della sorveglianza amministrativa. Il 7 giugno, mentre il generale ungherese partiva per Berlino, ove si sarebbe incontrato con il Bismarck, il C., munito di lettere commendatizie del segretario generale del ministero degli Esteri M. Cerruti, si recò a Belgrado (10 giugno) e a Bucarest (19 giugno) per informare i consoli italiani circa le intenzioni del governo italiano e iniziare i primi contatti ufficiosi con i governi serbo e rumeno: si trattava soprattutto di convincere questi che ogni azione ostile doveva essere indirizzata contro l'Austria soltanto, per ottenere la benevola neutralità dell'Impero ottomano. Il C. si recò poi a Costantinopoli per informare il ministro ivi residente, tornando alcuni giorni dopo a Bucarest. Qui lo raggiunse il 18 luglio il Türr, che aveva ottenuto il favore del governo prussiano e l'approvazione del nuovo presidente del Consiglio Ricasoli. Il C., dopo il 20 luglio, fu inviato a Berlino per chiedere al Bismarck di spedire nei Balcani gli armamenti promessi e quindi ritornò in Italia per riferire al ministero degli Esteri sullo stato dei preparativi. Ma la conclusione dell'armistizio impedì la realizzazione dell'impresa.
Ritornato al suo posto al ministero dell'Agricoltura, il C. promosse l'istituzione dell'istituto forestale di Vallombrosa (sancita poi con r.d. 4 apr. 1869), una scuola a livello universitario con corso di studi triennale. Fu il C. stesso a scegliere come sede l'ex convento benedettino di Vallombrosa, ove, già dal 1º ott. 1867, aveva fatto svolgere un corso trimestrale. Alla fine del 1869, deluso per la mancata nomina a segretario generale del ministero, lasciò l'impiego rimanendo soltanto membro del consiglio forestale. Il 31 dic. 1869 venne promosso commendatore della Corona d'Italia e all'inizio del 1870 ebbe la carica di presidente del consiglio d'amministrazione del canale Cavour (Compagnia generale dei canali d'irrigazione italiani, che ne aveva ottenuto l'esercizio con la legge 25 ag. 1862, n. 776). Il C. diresse quindi la società, costituita con capitale prevalentemente inglese e del Banco di sconto e sete di Torino, nel delicato periodo che portò alla convenzione di riscatto da parte dello Stato, stipulata il 24 dic. 1872 e approvata con legge 16 giugno 1874, n. 2002, con il contorno di accese polemiche sull'esosità delle tariffe suscitate soprattutto dai comuni e dai proprietari terrieri della zona interessata. Durante la presidenza del C. entrò in funzione, nel 1872, il grande diramatore. Frattanto il 2 marzo del 1874 il C. entrava a far parte del consiglio di amministrazione del Banco di sconto e di sete e il 18 giugno veniva eletto consigliere comunale di Torino. Decideva quindi di dedicarsi alla carriera politica presentandosi candidato alle elezioni politiche per la XII legislatura nel collegio di Cuneo, nel cui territorio, dopo il matrimonio con la nobildonna Luigia Luant Avena di Pesio, aveva proprietà e interessi. Postosi in concorrenza con il candidato ministeriale Carlo Brunet con un programma più sfumato, il C. veniva eletto il 15 novembre battendo nel ballottaggio il candidato progressista Borelli.
Alla Camera il C. sostenne costantemente il governo Minghetti, effettuando rari interventi per lo più in materia finanziaria. L'appoggio dato al governo in occasione degli arresti di villa Ruffi, della concessione degli exequatur ai vescovi che non avevano presentato direttamente la bolla di nomina papale, della presentazione di provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza, alienò al C. le simpatie di quanti gli avevano dato il voto ritenendolo uomo non legato alla consorteria piemontese.Con l'avvento di Depretis al potere (25 marzo 1876), il C., per sostenere la linea politica dei moderati piemontesi, fondò a Torino il quotidiano Risorgimento (il primo numero uscì il 16 ag. 1876), di cui fu direttore per circa due anni e mezzo e che spesso fu in polemica con la progressista Gazzetta del Popolo del Bottero. Alle elezioni politiche del 6 e 13 nov. 1876, il C. partecipò come candidato nei due collegi di Cuneo e Torino IV. Combattuto dai giornali progressisti e ministeriali, che ricordavano l'ambiguo atteggiamento tenuto nel 1874 (cfr. Gazzettapiemontese, 8, 11 e 14 ott. 1876), svantaggiato dal fatto di essere entrato in lista in due collegi con interessi spesso contrastanti, come ad esempio circa la scelta delle comunicazioni ferroviarie con la Francia (nell'aprile 1876 il C. aveva tentato nel Consiglio comunale di Torino di accreditare la tesi della convenienza di una linea ferroviaria Cuneo-Nizza via Colle di Tenda pur senza addurre serie obiezioni contro la linea Bardonecchia-Briançon in cui favore si era schierato il municipio di Torino), fu duramente battuto in entrambe le competizioni, superato a Cuneo da Cesare Correnti e a Torino IV da Giovanni Davicini.
Il C. continuò, comunque, a svolgere attività politica: fu consigliere comunale a Torino fino alla morte (sempre membro della commissione Bilancio), e dopo la morte di Carlo Bon Compagni (1880) divenne presidente della sezione provinciale di Torino dell'Associazione costituzionale, i cui leader erano Minghetti, Spaventa, Lanza, di Rudinì e Sella.
Tra il 1880 e il 1882 dalle pagine del Risorgimento sostenne in politica estera la necessità di un'alleanza con l'Austria in funzione antifrancese e una vigorosa politica coloniale, e all'interno il superamento dei contrasti tra la Destra e la Sinistra sulla base di un programma conservatore, che doveva impedire l'allargamento del suffragio politico, ripristinare la tassa sul macinato, mantenere il corso forzoso, porre un freno al malcostume politico e amministrativo (cfr. anche: Associazione costituzionale di Torino, Discorso del presidente B.C. detto nella seduta del 10 febbr. 1882, Torino 1882). Ma nella pratica della sua attività di banchiere il C. non mostrò di saper realizzare il mitico modello di rigoroso amministratore, alieno da ogni avventura speculativa, caro agli agiografi della Destra storica.Nel 1877, appoggiato dagli uomini del Banco di sconto e sete, il C. era entrato nel consiglio di amministrazione della Banca Tiberina, di cui il 26 marzo 1879 divenne presidente e amministratore delegato, guidandone le scelte in mezzo a fortunose vicende per dodici anni. Costituita l'8 febbr. 1877 (l'attività ebbe inizio il 12 giugno), rilevando la Banca italo-germanica posta in liquidazione, con un capitale nominale di dieci milioni in parte cospicua sottoscritto dal Banco di sconto e sete (che nel 1879 possedeva azioni per 2.578.000 lire, salite l'anno seguente a 3.375.000), la Banca Tiberina sembrò dapprima orientata, sotto la presidenza del marchese Camillo Beccaria d'Incisa (tra i consiglieri vi era V. S. Breda e tra i censori Urbano Rattazzi e Paolo Boselli) a divenire essenzialmente un istituto di credito ipotecario e a liberarsi al più presto dei pesi assunti con l'eredità ricevuta dalla Banca italo-germanica: tra questi vi erano la proprietà della passiva Società nazionale industrie meccaniche di Napoli con gli stabilimenti di Pietrarsa e Granili e soprattutto quella di vaste aree fabbricabili a Roma nelle zone dei Prati di Castello (mq 104.000) e di Macao (mq 94.172). Per quest'ultima, in particolare, esisteva a carico della banca l'obbligo, per un contratto stipulato con il comune di Roma, di ricoprirla di costruzioni entro il 1881-82 pena la multa di lire 500 per ogni giorno di ritardo. Il C. invece, di fronte all'improvvisa espansione del mercato immobiliare, trasformò l'istituto in uno dei protagonisti della speculazione edilizia a Roma, e con un'abile attività di compravendita di aree e fabbricati riuscì a fare della Tiberina la seconda banca privata italiana per consistenza dell'attivo, distribuendo elevatissimi dividendi.
Già nell'assemblea straordinaria degli azionisti del 18 nov. 1879, che tra l'altro decise il trasferimento della sede a Torino, il C. ottenne con una modifica dello statuto sociale che al consiglio d'amministrazione fosse concessa la facoltà "di provvedere alla compra, vendita o permuta di Beni Immobili, nonché dare ipoteca sui medesimi". Ma ciò poteva ancora essere giustificato dall'esigenza di facilitare la "smobilizzazione del patrimonio improduttivo" come faceva intendere il C. nell'assemblea ordinaria del 23 marzo 1880 vantando l'alienazione di 8.816 mq nel 1879 contro i soli 1.131,25 del 1878. Proprio nel 1880 però iniziò l'acquisto di nuovi terreni a Roma (altri 11.212, 80 mq), mentre la dilazione di sei anni concessa dal comune di Roma per poter costruire sui terreni di Macao rafforzava le tendenze speculative della banca. Per far fronte a questa fase espansiva, nel 1881 il capitale sociale veniva aumentato da 10 a 15 milioni con emissione di 20.000 nuove azioni da lire 250. Nel 1882, compiuta la vendita ai costruttori di quasi tutte le aree fabbricabili in Macao (la Banca aveva conservato mq 4.138,50 coperti da stabili), la Tiberina - come annunciava il C. nell'assemblea del 27 marzo 1883 - acquistò a Torino un'area di mq 100.000 a ridosso della stazione ferroviaria per Rivoli, mentre la decisione del ministero di Grazia e Giustizia di costruire il nuovo tribunale di Roma presso castel S. Angelo valorizzò immediatamente i terreni posseduti in Prati. Nel 1884, in previsione della legge speciale per Napoli (che sarà pubblicata il 15 genn. 1885), la Tiberina, che già l'anno precedente aveva acquistato al Vomero terreni per 63.567,76 mq, progettò un "nuovo, vasto e salubre quartiere... su quello splendido altipiano che si stende tra il Vomero, Antignano e Castel S. Elmo" (così il C. nella Relazione all'assemblea del 24 marzo 1885) con la costruzione delle due funicolari di Montesanto e di Mergellina; contemporaneamente si faceva promotrice di un nuovo quartiere di 500.000 mq a Roma fuori porta Pia e porta Salaria (il C. annunciava agli azionisti: "Il luogo ridente e salubre, le ampie piazze, le larghe e regolari vie con cui l'abbiamo intersecato, fanno già accorrere numerosissimi i costruttori; di guisa che metri quadrati 127.107 sono già passati nelle mani di costruttori, i quali hanno già dato principio a ricoprirli di comode abitazioni", ibid., p. 9).
I primi segni di crisi del mercato edilizio a Roma si verificarono già nel corso del 1885, ma il C. fu pronto a tranquillizzare gli azionisti affermando che le costruzioni erano ancora inadeguate allo sviluppo demografico di Roma ormai destinata a raggiungere in breve tempo i 600.000 abitanti; intanto la Tiberina aveva acquistato la ferrovia Torino-Rivoli, assumendone l'esercizio, allo scopo precipuo di valorizzare le aree adiacenti di sua proprietà, demolendo la vecchia stazione e dando una nuova sistemazione a piazza dello Statuto; nello stesso anno sottoscrisse anche 2.970 delle 270.000 azioni da lire 500 con cui era stata costituita la Società italiana delle strade ferrate del Mediterraneo.
Il 1886 risultò già un anno rivelatore della reale situazione della Tiberina: le vendite di terreno si dimezzarono passando da mq 436.267,29 del 1885 a 218.764,67 (in compenso erano cresciuti i prezzi); parallelamente erano vertiginosamente aumentati i crediti ipotecari (da lire 3.500.269,74 del 1884 a 6.025.084 del 1885 a 14.157.779 del 1886), che però, essendo quasi totalmente stati erogati in favore di costruttori, ben difficilmente sarebbero stati recuperabili in caso di un aggravarsi della crisi edilizia, come l'esperienza dimostrò alcuni anni dopo. Riscattati finalmente dallo Stato gli improduttivi stabilimenti meccanici di Pietrarsa e Granili, il C. poté invece annunciare come evento positivo la partecipazione della Tiberina, insieme con la Banca Geisser e il Banco di sconto e sete alla costituzione della promettente Società metallurgica italiana di Roma avvenuta per iniziativa del gruppo H. Mayer-La Veissière-Biver di Parigi (la Tiberina entrò nella società con una partecipazione di 3/10, pari a 600 azioni da 500 lire): il nuovo stabilimento, impiantato a Livorno, contava su consistenti commesse da parte della marina militare italiana per le forniture di rame.
La situazione peggiorò sensibilmente per la Tiberina nel corso del 1887, benché con grande tempestività il C. avesse condotto a termine alla fine dell'anno precedente un'accorta operazione sul capitale (assemblea straordinaria degli azionisti del 16 nov. 1886).
Il capitale sociale era stato raddoppiato mediante emissione di altre 60.000 azioni da lire 200 (fino al 1884 delle altre 60.000 azioni da lire 250 erano stati versati 16/10; nelle assemblee del 24 marzo 1885 e 29 marzo 1886 si era deciso di versare altri due decimi prelevando le quote dagli utili desercizio e di svalutare il valore nominale delle vecchie azioni alla somma realmente versata, cioè a lire 200); con l'afflusso di denaro fresco si stabilì di costituire un fondo di 10 milioni per l'esercizio in proprio del credito fondiario (ma esso non entrò più in funzione essendo sopravvenuta la crisi), dopoché la Banca nazionale aveva respinto la proposta del C. di aumentare con tale somma il fondo da essa assegnato al credito fondiario, in cambio dell'impegno a concedere mutui a costruttori indicati dalla Banca Tiberina fino alla concorrenza annua di 10 milioni di lire.
Alla fine del 1887 alle cause strutturali della crisi edilizia (dovute soprattutto alla ormai sfrenata speculazione sulle aree), si aggiunsero gli effetti dell'inflazione creditizia giunta al culmine dopo l'abolizione del corso forzoso: il governo invitò le banche di emissione a restringere drasticamente il credito immobiliare, provocando immediate difficoltà per le banche impegnate nel settore edilizio e, di riflesso, i primi fallimenti dei costruttori rimasti privi di sovvenzioni. Pronta fu la reazione del mondo bancario interessato: il C. per la Tiberina, il Geisser per la Fondiaria e l'Orsini per l'Esquilino il 15 nov. 1887 si fecero portavoce presso il Crispi degli interessi colpiti e furono rassicurati circa la volontà del governo di intervenire con misure di sostegno: in effetti risulta che entro il settembre 1888 alla Tiberina fu consentito di aumentare gradualmente la sua esposizione verso la Banca nazionale fino a 7.500.000 e due mesi dopo a lire 10.000.000 (Confalonieri, p. 154).
Nell'assemblea ordinaria del 7 marzo 1888 il C. mostrò di credere alla transitorietà della crisi, ma come unici elementi positivi della situazione indicò ancora il costante aumento demografico della capitale (ov'erano concentrati i maggiori interessi della banca) e il rapido incremento dei canoni di locazione del patrimonio immobiliare di proprietà: non chiarì però che l'alto costo delle costruzioni finite determinava serie difficoltà a vendere e ad affittare gli stabili nuovi (nel 1890, su 361.985 appartamenti censiti nel comune di Roma, 88.926 risulteranno sfitti; v. Caracciolo, p. 177). Egli fu costretto ad ammettere che nel triennio 1885-87 diciotto costruttori sovvenzionati dalla Tiberina erano falliti, mentre le vendite di terreno erano scese a mq 68.630,69.
Il 1888 fu un anno peggiore del precedente: le vendite di aree diminuirono ancora a mq 66.953,66; si registrò il fallimento di altri ventidue costruttori, tra cui il Moroni, verso cui la Tiberina vantava crediti per oltre 6 milioni; nell'attivo di bilancio i crediti ipotecari salirono a oltre 52 milioni e il valore degli immobili di proprietà a 19.275.334 (i primi difficilmente esigibili e il secondo non realizzabile).
Il C. poteva ancora annunciare un utile d'esercizio di L. 3.112.610,53 che permetteva la distribuzione di un cospicuo dividendo di 24 lire per azione, inferiore comunque a quello degli anni precedenti (6,25 nel 1879; 8,25 nel 1880; 9,25 nel 1881; 10 nel 1882; 11,25 nel 1883; 37,75 nel 1884; 38,75 nel 1885; 39,25 nel 1886; 37 nel 1887). Si sperava così di mantenere la fiducia degli azionisti: la quotazione in borsa, che nel febbraio 1886 aveva superato quota 720, era scesa nel dicembre 1888 a 374 per risalire lievemente nel marzo 1889 a 384; ma furono soprattutto i depositanti a temere della solidità della Tiberina: i conti correnti e i depositi a risparmio, che il 31 dic. 1886 erano oltre 4 milioni e il 31 dic. 1887 erano di 3.800.000, si assottigliarono rapidamente giungendo nel luglio 1889 a L. 1.100.000. Questo e la contemporanea crisi del Banco di sconto e sete, che aveva verso la Tiberina crediti per 19 milioni, fecero precipitare la situazione di quest'ultimo istituto, oberato da debiti a breve scadenza.
Mentre il valore delle azioni calava rapidamente e i correntisti ritiravano i depositi, il C. cercava di riconquistare la fiducia degli ambienti finanziari e dell'opinione pubblica informando la Banca nazionale circa un imminente accordo con "case estere" (Confalonieri, p. 157), che veniva opportunamente diffuso dalla stampa: un gruppo di "poderosi capitalisti di Londra" sarebbe stato disposto a dare un sussidio di 20 milioni, elevabili a 60 in caso di bisogno, alla Tiberina, la quale sarebbe divenuta "una Banca italo-inglese con facoltà di occuparsi specialmente di costruzioni ferroviarie" (Opinione, 24 luglio 1889). Rivelatasi inconsistente questa speranza, mentre il C. stava già interessando il governo per impedire il fallimento della Tiberina, che avrebbe trascinato nella caduta anche il Banco di sconto e sete e la Banca di Torino, l'11 agosto il suicidio del comm. Noli, vicepresidente del Banco di sconto, presidente della Cartiera italiana e amministratore della Tiberina (che, entrato in un consorzio costituito per sostenere i corsi azionari dei due istituti di credito, non aveva potuto più far fronte alle perdite), rivelò clamorosamente la gravità della situazione.
Il 13 agosto il C. indusse Giolitti, appositamente giunto a Torino, a telegrafare al Crispi di intervenire energicamente sulla Banca nazionale, che aveva rifiutato ulteriori aiuti alla Tiberina. Il giorno stesso egli preparò un piano d'intervento che il 15 agosto inviò al Crispi, allora a Napoli, con preghiera di inoltrarlo al direttore generale del Banco di Napoli, Giusso (Carte Crispi,Roma, 355, n. 100): esso prevedeva che la Banca nazionale e il Banco di Napoli avrebbero erogato alla Tiberina 8 milioni ciascuno. Il direttore della Banca nazionale, Grillo, in seguito alle pressioni di Giolitti, decise di accogliere la richiesta, ma il Banco di Napoli la respinse comunicando di poter soltanto concedere altri mutui fondiari (che la Nazionale avrebbe dovuto anticipare). Mentre una decisione per superare l'impasse veniva rimessa al Consiglio superiore della Banca nazionale convocato il 28 agosto a Firenze, il 24 agosto il Banco di sconto e sete fu costretto a chiudere gli sportelli e il 26 fu la volta della Tiberina (le cui azioni scesero a quota 113). In questa situazione il Consiglio della Banca nazionale, in cui era presente anche il Geisser, consigliere della Tiberina, venne costretto a prendere la decisione di un massiccio intervento. Concessa una prima anticipazione alla Tiberina, che il 30 agosto poté riaprire gli sportelli (i conti correnti e i depositi a risparmio scesero immediatamente a lire 549.810), il 4 settembre in una riunione, cui presenziarono Crispi, Giolitti, il C., il Grillo e il Giusso, si stabilì che la Banca nazionale avrebbe aperto alla Tiberina un credito straordinario di 30 milioni.
Il 7 settembre, mentre il ministro del Tesoro autorizzava la Banca nazionale ad aumentare la circolazione fino alla somma di 50 milioni, il C. poté firmare una pesante convenzione per la quale, in cambio di un finanziamento di 40 milioni della Banca nazionale e di 4,6 milioni del Banco di Napoli, la Tiberina dava "in ipoteca e pegno... quasi tutto il patrimonio" (Confalonieri, p. 163): essa inoltre si impegnava a sottoporre al beneplacito della Banca nazionale ogni contratto, a non erogare interessi e dividendi agli azionisti, a ridurre i programmi edilizi, a trasportare la sede centrale a Roma (Gazzetta del Popolo, 2 ott. 1889). In pratica, dei trenta milioni che entravano nelle casse (infatti 14 già erano stati anticipati per far fronte a pagamenti indilazionabili), diciotto dovettero essere impiegati per saldare i crediti del Banco di sconto e sete e oltre tre per pagare agli istituti sovventori i mutui sopra gli stabili che la commissione liquidatrice del patrimonio Moroni stava consegnando alla Tiberina; a questa rimanevano circa 9 milioni per il finanziamento delle costruzioni in corso, con ben scarso vantaggio per l'attività edilizia, per rimettere in moto la quale il governo - almeno ufficialmente - aveva giustificato un'operazione gravida di ulteriori spinte inflazionistiche.
Gli accordi conclusi dal C. furono approvati dall'assemblea straordinaria degli azionisti del 17 ott. 1889, ma essi non servirono che a prolungare l'agonia della Tiberina, che non fu in grado neppure di pagare alla Banca nazionale gli interessi sui prestiti, non riuscendo a sua volta a esigere dai costruttori gli interessi sulle sovvenzioni erogate: da allora essa acquistò sempre più le caratteristiche di società immobiliare, che rilevava le proprietà su cui aveva concesso crediti ipotecari. L'esercizio 1889 si chiudeva con una perdita di L. 3.984.877,06 (coperta per 652.862,05 con il residuo conto premio su azioni dell'ultima emissione e per 3.332.011,01 attingendo dal fondo di riserva); i crediti ipotecari salivano a 52.599.377, che il C. stesso riconosceva fonte di preoccupazione per l'"abbassamento del valore venale degli oggetti che servono di garanzia": in tali circostanze anche l'espandersi della proprietà immobiliare (per un valore di lire 31.205.659,91 che nell'esercizio 1890 salirà, per il fallimento di altri costruttori, a 50.025.809,42) non contribuiva a far rifiorire la fiducia, come dimostrava l'assottigliarsi dei depositi a risparmio e in conto corrente a 311.440,49 (nel 1890: 199.818,51). Il C., oltre che ribadire ancora una volta la certezza nella ripresa edilizia a Roma, sperava nell'istituzione di un grande istituto statale di credito fondiario che potesse far superare la difficile congiuntura. Una nuova sovvenzione che il C. ottenne ancora dalla Banca nazionale nel corso del 1890 per lire 3.064.900,80 riuscì a dare un ultimo breve respiro alla Tiberina (le azioni crollate il 1º maggio 1890 a quota 41 risalirono il 1º luglio a 78 per ridiscendere progressivamente a 40 verso la fine dell'anno). L'esercizio 1890 si chiuse con una perdita di lire 3.715.044,43 (cui fu provveduto per 2.667.988,99 con il residuo del fondo di riserva e portando a nuovo nel conto profitti e perdite le rimanenti 1.047.055,44).
Il C. stava per giustificare davanti agli azionisti questo amaro bilancio, quando si spense a Roma il 27 marzo 1891.
La Banca Tiberina gli sopravvisse per pochi anni sotto la presidenza di Roberto Cattaneo: fu posta in liquidazione il 30 marzo 1891.
Fonti e Bibl.: Arch. Centrale dello Stato, Crispi,Roma, fasc. 355, nn. 65, 100, 107, 105, 133; Carte Giolitti, busta 8, fasc. 116; Arch. di Stato di Torino, Carte Cavour,Corrispondenti, m. C, ad nomen; Roma, Arch. della Banca d'Italia, Arch. Bilanci,Banca Tiberina,Relazioni e bilanci 1878-1891 (a stampa); Arch. stor. del ministero degli Affari Esteri, Arch. di Gabinetto (1861-1887), buste 215-216, 807; Gazzetta del Popolo, 1874-1891; Gazzetta Piemontese, 1874-1891; Atti parlamentari,Camera,Discussioni, leg. XII, ad Indices; Memorie di G. Pallavicino pubblicate per cura della figlia, III, Torino 1895, pp. 449, 460 s., 468-470, 542, 603, 654-657; L'opera di Stefano Türr nel Risorgimento italiano 1849-1870 descritta dalla figlia, II Firenze 1918, pp. 97 s.; La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d'Italia. Carteggi di C. Cavour…, III, Bologna 1952, pp. 176, 208, 280 s., 391, 397-399; IV, ibid. 1954, pp. 6, 10, 14 s.; A. di Bérenger, Sulla fondazione primitiva e condizione attuale del R. Istituto forestale di Vallombrosa. Cenni storici, Firenze 1871, p. 9; C. Negroni, Del riscatto del canale Cavour..., Vigevano 1873, p. 48; M. Bernardini, Guida della stampa periodica italiana, Lecce 1890, pp. 255 s.; R. Ottolenghi, Notizie storiche intorno alla famiglia Caranti..., in Rivista di storia,arte e arch. della prov. di Alessandria, XXVIII (1919), pp. 126-128; A. Caracciolo, Roma capitale..., Roma 1956, p. 176; L. Galliano, Un deputato e amministratore cuneese: Carlo Brunet(1809-1893), in Figure e gruppi della classe dirigente piemontese nel Risorgimento, Torino 1968, pp. 258 s.; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia 1894-1906, I, Milano 1974, pp. 149-163 (con indicazioni bibl.); T. Sarti, Il Parlamento subalp. e nazionale, p. 228; Diz. del Risorg. naz., II, p. 545.