CAPIZUCCHI, Biagio (Blasio)
Nacque a Roma, figlio naturale di Marcello Capizucchi e di unadonna di "civile" condizione originaria della Corsica, Diana, probabilmente nel 1546.
Il padre lo legittimò il 27 sett. 1572, dopo che il C. aveva dato ampie prove del suo coraggio e della sua valentia nel maneggiare le armi. Dotato dalla natura di un'indole irrequieta e bellicosa e cresciuto in un ambiente familiare in cui le imprese guerresche costituivano il più ambito dei traguardi, già a quindici anni egli si distingueva come protagonista di sanguinose risse: in una di queste gli fu amputato il pollice della mano destra ma, qualche mese dopo, si vendicò abbondantemente infliggendo al suo incauto feritore, Ottavio Colacci, una stoccata mortale. Per sfuggire alla giustizia il C. si allontanò quindi da Roma, seguendo il fratellastro maggiore Camillo nella vita militare: con lui partecipò alla guerra di Corsica, poi alla campagna d'Ungheria contro i Turchi (1564) e alla spedizione di soccorso inviata a Malta minacciata da uno sbarco turco (1565). Nel 1569 il C. fece parte del corpo ausiliario pontificio che Pio V affidò al conte di Santa Fiora, perché partecipasse, insieme con le milite toscane, alla guerra di religione contro gli ugonotti che si era riaccesa in Francia l'anno precedente: il corpo di spedizione italiano partito dalla Toscana il 14 maggio, passando per Torino, raggiunse Lione il 2 giugno, unendosi alle truppe di Carlo IX presso Tours; fu quindi impiegato nella difesa di Poitiers agli ordini del duca di Guisa (la città era stata assediata ai primi d'agosto dall'ammiraglio Coligny).
Il C. si metteva in evidenza proprio in quest'occasione con un'impresa di eccezionale eroismo: infatti, poiché il Coligny, avendo deciso di attaccare la città, aveva fatto gettare il 10 agosto un ponte di barche sul fiume Clain, il duca di Guisa "mandò tre italiani accioché notando dalla banda dei nemici tagliassero le corde alle quali si attaccava il ponte. Eglino mettendosi la spada in bocca con meravigliosa prestezza, et ardire notando essequirono quanto fu lor comandato, et salvorno quel giorno la città e la gente, che vi era dentro da un eminentissimo pericolo. Ma accortisi gli inimici di questo cominciorno a tirargli molte archibugiate, dalle quali due di loro restarono morti; et il capo loro seben ferito gravemente ritornò vivo ai suoi. Questo fu il sig.re Biagio Capizucchi gentilhuomo principale Romano, il quale era all'hora soldato privato et molto giovane" (Narraz. della guerra..., ff. 25v-26r). L'episodio valse al C. un breve di lode di Pio V, datato 10 maggio 1570, in cui egli viene amnistiato per l'uccisione di Ottavio Colacci.
La ferita riportata non dovette essere comunque troppo grave se il C. poté partecipare il 3 ottobre alla vittoriosa battaglia di Moncontour. Subito dopo, le milizie del conte di Santa Fiora furono costrette dalle cospicue perdite causate dalle malattie e dalla guerra a rientrare in Italia dove giunse soltanto un terzo di quanti erano partiti (febbraio 1570). Anche il C. poté finalmente rientrare senza alcun pericolo a Roma, ove ebbe dal giugno 1570 la carica di alfiere nell'armata navale che stava allestendo Marcantonio Colonna per soccorrere i Veneziani. Prese parte, sulla galera ammiraglia del Colonna, alla battaglia di Lepanto (7 ott. 1571) e alle successive operazioni navali effettuate sotto il pontificato di Gregorio XIII, trovandosi fra l'altro all'espugnazione di Tunisi (ottobre 1573) e alle azioni contro i corsari barbareschi che nel 1579 giunsero alle foci del Tevere risalendo fino alla Magliana. Tornato a Roma, nel giugno del 1580 fu inviato da Giacomo Boncompagni, generale di Santa Chiesa, ad Avignone con una compagnia di 300 uomini per sedare tumulti. Il 15 sett. 1581 fu nominato governatore delle armi di Carpentras nel Contado Venassino, ma, non soddisfatto di questa carica, il C. volle arruolarsi nelle truppe italiane di Alessandro Farnese, governatore dei Paesi Bassi, impegnato nell'aspra guerra contro i ribelli olandesi.
Dopo aver partecipato valorosamente all'ultima fase dell'assedio di Maestricht, il C. ottenne il comando di una compagnia di archibugieri a cavallo. Nel 1583 egli fu inviato, insieme con N. Basti, sotto il comando del principe d'Arenberg, in aiuto dell'arcivescovo di Colonia Ernesto di Baviera contro l'ex arcivescovo apostata Gebhard Truchsess: quando l'Arenberg inseguì i protestanti, che si rinchiusero in Bonn (espugnata il 28 genn. 1584), il C. rimase a Colonia come luogotenente; ma le sue truppe di cavalleria si distinsero soprattutto per le frequenti razzie e per le dispute quotidiane con gli albanesi di Nicolò Basti per la spartizione del bottino. Ritornato in Fiandra, alla vigilia dell'assedio di Anversa, il C. ebbe l'incarico di controllare con continue scorrerie la zona di Zutphen e il 20 ott. 1584 fu nominato capitano di una compagnia di lancieri, che si aggiunse a quella di archibugieri; nell'aprile 1585 gli fu ordinato di lasciare Zutphen e raggiungere il grosso dell'esercito che assediava Anversa.
Il 20 maggio 1587 il Farnese, in previsione del progettato tentativo dinvasione dell'Inghilterra, inviò il C. in Italia per reclutare 4.000 uomini nello Stato pontificio e nel ducato d'Urbino e per provvedere al trasferimento in Fiandra di 500 soldati corsi, arruolati dal banchiere genovese Tommaso Fieschi. Inoltre il 3 luglio, mentre era impegnato nellassedio dell'Escluse, lo stesso duca di Parma scriveva al C., già a Roma, di provvedere all'acquisto di 1.000 corazze e 3.000 armature per il riequipaggiamento dell'esercito dei Paesi Bassi.
Frattanto a Roma il C., seguendo le istruzioni ricevute, costrinse Clelia Farnese, figlia naturale di Alessandro e vedova di Virginio Cesarini, a lasciare la città e a ritirarsi a Caprarola, per porre fine ai pettegolezzi che suscitavano le frequenti visite a palazzo Farnese di principi e cardinali, fra i quali il più assiduo era il card. Ferdinando de' Medici. L'intervento del C., non scevro da minacce, fece scalpore suscitando divertiti commenti (fu diffusa un'allusiva pasquinata intitolata "Il medico ha perso la mula").
Portato a termine il reclutamento, il C. ritornò in Fiandra con 3.800 italiani e 450 corsi nell'autunno dello stesso anno. Nel 1588 egli fu nuovamente inviato da Alessandro Farnese in soccorso dell'arcivescovo di Colonia Ernesto, attaccato dai protestanti guidati da M. Schenck, il quale aveva occupato Bonn: al C., mandato in avanscoperta con la sua compagnia di lancieri e con 300 valloni, fu affidato il compito particolare di scoraggiare il nemico dal tentare ulteriori azioni nelle campagne di Colonia e di Bonn, ed egli seppe esplicarlo validamente "portando or in questa parte or in quella o l'arme o 'l timor dell'arme, sì che pochi usciro a combattere, i più sfuggiron l'incontro: né si dolse egli d'altro, se non che non vi fosse stato chi vincere" (Strada, IV, pp. 150 s.). Lo Schenck uscì da Bonn sfuggendo alla caccia datagli dal C., ma il suo tentativo di creare dei diversivi assediando Neuss fallì e Bonn cadde quando arrivarono le truppe spagnole del Mansfeld.
Nel 1590 il C. partecipò alla spedizione in Francia di Alessandro Farnese in difesa di Parigi e si distinse, nell'agosto, in alcune azioni di disturbo contro gli ugonotti che assediavano la città. Dopo il favorevole esito della spedizione, nel novembre, durante il viaggio di ritorno verso i Paesi Bassi, posto all'avanguardia dell'esercìto farnesiano, si scontrò con la cavalleria di Enrico di Navarra presso il castello di Longueval e, pur riuscendo a mettere in fuga gli avversari, fu ferito seriamente a un fianco. Il C. tentò, invano, di utilizzare questa ferita (che egli considerò sempre la più gloriosa fra le trentasei che avevano lasciato cicatrici sul suo corpo) per ottenere qualche onorevole avanzamento. Ottenuto, infatti, il congedo dal Farnese il 30 apr. 1591, tornò dapprima a Roma; quindi si recò a Madrid ove si fermò per qualche tempo a corte (giugno 1592) sperando di ottenere almeno il comando di un "tercio" o qualche carica simile in Savoia o nello Stato di Milano. Ma Filippo II, avvertito dai suoi consiglieri che il C. aveva guadagnato già troppo con le ruberie compiute in Fiandra, gli fece promesse molto vaghe. Ritornato in Italia, il C. attese a lungo le decisioni del re, poi, non ottenendo nulla che fosse di suo gradimento, si congedò definitivamente dal servizio spagnolo (luglio 1593).
L'anno successivo ottenne da Clemente VIII il generalato delle armi di Avignone e del Contado Venassino (27 giugno 1594). Benché la carica fosse ragguardevole e consentisse notevoli guadagni (in tutto 1.000 scudi mensili), dai dispacci che il C. mandava al card. Aldobrandini non appare che egli fosse molto soddisfatto: abituato alle grandi campagne militari, non sapeva, infatti, adattarsi alle scaramucce contro gli ugonotti e ai compiti polizieschi che costituivano le sue principali incombenze (fra l'altro nel 1598 dovette tenere a freno i banchieri di Avignone e del Contado; questi, dopo che la forte svalutazione dello scudo d'oro a 60 soldi diminuì sensibilmente i loro crediti nei confronti delle comunità della Provenza, alle quali avevano prestato grosse somme, pretendevano la rivalutazione di tali monete). Chiese quindi ripetutamente, ma invano, di essere impiegato in un servizio più attivo: prima (febbraio 1595) nel corpo di spedizione che il papa inviava, sotto il comando di Giovanni Francesco Aldobrandini, in Ungheria in aiuto dell'imperatore Rodolfo II contro i Turchi; poi, alla fine del 1597, nelle milizie mandate alla "recuperazione" di Ferrara, dopo la morte di Alfonso II d'Este. Neppure la nomina a cavaliere di Malta (13 ag. 1596) e il titolo di marchese di Poggio Catino dopo la morte del fratellastro Camillo (novembre 1597) soddisfecero la sua ambizione.
Unici episodi di rilievo, durante il suo soggiorno avignonese, furono il suo incontro a Lione nell'estate del 1600 con Enrico IV, che ricordò il valore del C. nello scontro del Longueval, e le successive fastose accoglienze che egli organizzò ad Avignone per il passaggio di Maria de' Medici, sposa del re di Francia. Per il resto il C. si consolò della inattività con una vita agiata e amena, che fu apprezzata anche dal card. Cinzio Aldobrandini al ritorno dalla legazione in Francia (R. Capizucchi, Historia della fam. Capizucchi, f. 518: il C. "habita in buona casa, sta nobilmente, e fece un bel banchetto con musiche, e suoni, e finito il mangiare fece andare sulla corda un certo Perugino ch'è stimato il primo huomo di quell'arte: dapoi si recitò una commedia da comici italiani, ch'erano a Lione, et in ultimo fece saltare i medesimi che ne fanno professione").
Alla morte di Clemente VIII, anche Paolo V confermò la carica al C. (13 giugno 1605) per le istanze di Enrico IV, ma gli tolse alcune prerogative, come l'indipendenza dal generale di Santa Chiesa e l'onore della scorta di 25 svizzeri e 25 "lance spezzate" con i loro capitani. Per questo e anche per alcuni screzi sortì con il vicelegato Carlo Conti il C. rinunciò al generalato di Avignone alla fine del 1606 e tornò a Roma "che poteva haver sopra sessant'anni, ma più spiritoso e feroce, che mai" (ibid., f. 563). Ritiratosi a Poggio Catino, cercò di entrare al servizio della Repubblica di Venezia e per mezzo del card. Delfino, fra il settembre e l'ottobre 1607, ottenne una "condotta" con uno stipendio annuo di 2.000 ducati; ma, con grande disappunto del C., Paolo V gli negò la licenza di servire la Serenissima, dati i pessimi rapporti esistenti con la Repubblica di Venezia dopo l'interdetto. Egli perciò, che già aveva ottenuto da Ferdinando I de' Medici l'11 genn. 1608 il feudo di Montieri con il titolo marchionale, accettò da Cosimo II, il 24 genn. 1609, la nomina a generale della cavalleria toscana "con provisione annua di scudi duemila d'oro".
Al servizio dei Medici il C. trascorse nel complesso un periodo abbastanza tranquillo: soltanto nel giugno del 1613 ebbe il comando effettivo di un corpo di spedizione (nominalmente affidato al giovanissimo fratello del granduca, Francesco de' Medici) inviato in soccorso del duca di Mantova attaccato dal duca di Savoia che pretendeva il Monferrato. Ma quando il C. arrivò a Mantova, dopo aver costretto il duca di Modena a concedergli il passaggio di 12.400 uomini attraverso il suo territorio, fra le due parti si era aperto un negoziato grazie alla mediazione spagnola.
Nell'agosto 1613, mentre egli riteneva ancora utile la sua presenza a Mantova, Cosimo II lo richiamò in Toscana, dove fu inviato a proteggere le spiagge della Repubblica di Lucca da un temuto sbarco dei Savoiardi che poi non si verificò.
Il C. trascorse gli ultimi anni fra Montieri e Firenze, afflitto da una gotta fastidiosa. Morì a Firenze nell'aprile 1619.
Il C. fu considerato, a ragione, dal nipote card. Raimondo Capizucchi uno dei personaggi più illustri della famiglia e colui che aveva accresciuto in maniera considerevole il patrimonio familiare, mandando a casa oltre 100.000 scudi ("se Mario suo fratello mio avo e Paolo mio padre havessero saputo tener conto di questa robba, la casa nostra sarebbe restata grande...", ibid., f. 595), che servirono all'acquisto di Poggio Catino e Catino e alla costruzione del palazzo di S. Maria in Campitelli. Il titolo di Poggio Catino e quello di Montieri furono ereditati da Paolo figlio di Mario, che in seguito a forti perdite al gioco e ad inutili spese fu costretto a vendere il feudo di Poggio Catino a Settimio Olgiati nel 1614 per 50.000 scudi.
Da Paolo, morto nel 1620, e da Ortensia Marescotti (1586-1622), nacquero Francesco (1605-1678) e Camillo Biagio, che si fece domenicano con il nome di Raimondo e divenne cardinale. Anche Francesco, incline al gioco come il padre, fu costretto dai debiti (il fratello cardinale calcolava che avesse perso durante la sua vita non meno di 50.000 scudi) a vendere alla comunità di Orvieto il castello di Fabro e la metà della tenuta di Salce, avuti in eredità da Livia Capranica Bonelli; egli inoltre non si sposò e, poiché la famiglia rischiava di estinguersi, adottò il cugino Alessandro Marescotti (1641-1703), figlio di Sforza Vicino Marescotti e di Vittoria Ruspoli. Alessandro assunse il cognome Capizucchi senza "mistura" di altro cognome e lo trasmise, insieme al patrimonio dei Capizucchi (ammontante a circa 150.000 scudi), al suo ultimogenito Mario (1681-1758), avuto dalla seconda moglie Prudenza Gabrielli. Da Mario nacque Alessandro (1711-1785) e da questi Galeazzo (1751-1801) e con il figlio di quest'ultimo, Alessandro, morto nel 1813, la famiglia Capizucchi si estinse.
Fonti e Bibl.: Roma, Bibl. naz., ms. Vitt. Em. 540: R. Capizucchi, Historia della fam. Capizucchi, I, ff. 484-598v; ms. Vitt. Em. 543: G.Lucenti, Mem. spettanti alla nobile casa dei signori Capizucchi baroni romani estratte da legittimi docum., II, pp. 1-437; Ibid., ms. Gesuitico 371, ff. 91-131: Memorie diverse riguardanti la guerra di Fiandra e specialm. i fattidei capitani romani Camillo e Biagio Capozucchi e Appio Conti; Bibl. Apost. Vat., Barb. lat. 4904: Narraz. della guerra di Francia seguita l'anno 1569…, ff.25v-26; Arch. Segr. Vat., Avignone 28 (dispacci del C. alla segreteria di Stato dal 23 sett. 1594 al 31 dic. 1599); Ibid., fondo Borghese, I, 967a, f. 478; Ibid., Misc. Arm. XV, fasc. 171; V. Armanni, Della nobile et antica famiglia de' Capizucchi baroni romani, Roma 1668, pp. 43-53; A. Adami, Elogii storici de' due marchesi Capizucchi fratelli Camillo,e Biagio celebri guerrieri del secolo passato..., Roma 1685, pp. 73-132;P. Mandosio, Bibliotheca Romana seu Romanorum scriptorum centuriae, I, Romae 1692, p. 226;F. Strada, Della guerra di Fiandra,Deca seconda..., volgarizzata da P. Segneri, Torino 1830, II, pp. 185 s., 232; IV, pp. 60 s., 150 ss.; P. Fea, Alessandro Farnese, Roma 1886, pp. 214, 286, 349; M. Guglielmotti Storia della marina pontificia, IV, Roma 1887, p. 22, 208; VII, ibid. 1892, p. 92;L. van der Essen, A. Farnese prince de Parme gouverneur général des Pays-Bas (1545-1592), I, Bruxelles 1933, p. 160;III, ibid. 1934, p. 220;V, ibid. 1937, pp. 184, 196; G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-ecclesiastica, III, pp. 256 s.; LXXIX, p. 295; Encicl. militare, II, p. 658.