BHAGAVADGĪTĀ ("canto del beato")
Ā È il titolo della famosa teodia (Mahābhārata, VI, 25-42), ove Kṛṣṇa, il dio fatto uomo, "canta" ossia espone in versi ad Arjuma dottrine, che tutte le sette viṣṇuitiche riguardano ancora come canoniche. Il poema non faceva parte dell'originario Mahāhārata (v.), nel quale fu abilmente intessuto prendendo argomento dalle parole con le quali Kṛṣṇa esorta Arjuna a compiere il suo dovere di soldato perché in battaglia si uccidono soltanto i corpi, non le anime, che sono immortali. Secondo notizie leggendarie, ma non forse prive di fondamento storico, Kṛṣṇa fu un principe degli Yādava, potente alleato dei Pāṇḍuidi in una delle tante guerre contro i loro cugini e rivali. Di lui e della sua etica fa già menzione la Chāndogyaupaniṣad, III, 17, ond'è lecito arguire ch'egli appartenesse al secolo VII o VIII a. C. Il suo valore e l'altezza morale dei suoi principî gli meritarono l'apoteosi, e fu riguardato come un'incarnazione (avatāra) di Vāsudeva, divinità popolare a sua volta identificata con Viṣṇu (v.), un dio ṛgvedico di secondaria importanza, che assorge nell'epica al grado di divinità suprema col nome di Nārāyana. La Bhagavadgītā fu il vangelo del kṛṣṇaismo, onde nacque la religione dei Bhāgavata o Pāñcarātra, di cui le iscrizioni di Ghosuṇḍi e di Besnagar attestano l'esistenza nel sec. II a. C. Alla formazione di essa concorsero tuttavia nuovi e non sempre chiari elementi, che non è qui il caso d'illustrare. Qual'è la buona novella onde il poema si fa banditore? Il proscioglimento dalla rinascita mediante la concentrazione di tutti i pensieri in Dio, nel quale le anime devote ottengono la grazia d'immedesimarsi (XI, 55; cfr. XII, 2). La nuova "via salutis", via della devozione o bhaktimarga, non è preclusa agli umili come quella del rito sacrificale (karma-marga) o della gnosi liberatrice (jñāna-marga). Destinata a redimere tutti gli uomini, compreso il disprezzatissimo śūdra (IX, 32), ammette, com'è naturale, varie forme di devozione. La più alta è quella della concentrazione della mente in Dio, ma sono altrettanto meritorie le opere compiute per amore di Lui (XII, 10) e la rinuncia al frutto dell'azione (XII, 12). L'atteggiamento del kṛṣṇaismo di fronte al brahmanesimo è conservatore: esso completa, non ripudia le antiche credenze. Ammette il rito sacrificale, pur limitandone l'efficacia al conseguimento di effimere gioie celesti (IX, 20 segg.), e riconosce in Kṛṣṇa-Vāsudeva la manifestazione dell'altissimo Brahman (X, 12). Né meno conciliativa appare la dottrina per ciò che riguarda la concezione della divinità. Come Dio fatto uomo, Kṛṣṇa è modellato sull'īśvara dello Yoga (v.), di cui ha le caratteristiche. Non è il creatore della materia né delle anime altrettanto eterne quanto lui; è soltanto il reggitore dell'universo, che presiede alla retribuzione delle opere (v. karman). Ma nella sua essenza è l'altissimo Brahman (v.), la divinità impersonale del panteismo upaniṣadico, che ricrea sé stessa in ogni età cosmica quando la virtù declina e il vizio trionfa, per consolidare il bene nel mondo (IV, 6-8). Già le più antiche Upaniṣad (v.) propongono alla venerazione degli uomini varie manifestazioni del Brahman, tra le quali Śiva e Viṣṇu acquistano nelle Upaniṣad medie un assoluto predominio, in omaggio alle religioni popolari. Così avviene l'amalgama tra due concezioni del divino per noi inconciliabili, come il panteismo e il teismo, e non è ammissibile fondare, come fece il Garbe, l'ipotesi di un rifacimento della Gītā sulla pretesa incompatibilità delle due dottrine. Questo critico sostenne l'originario carattere teistico del poema, che sarebbe stato rielaborato in senso panteistico nel sec. II d. C. Conseguentemente egli espunse come interpolate tutte le strofe di contenuto panteistico: 170 su circa 600 della teodia propriamente detta. Ma non raggiunse lo scopo di eliminare completamente dalla Gītā il panteismo, mentre principî fondamentali dei Bhāgavata, sanciti dai testi canonici, si ritrovano nei passi espunti. L'ipotesi di un rifacimento non è quindi verosimile. L'identificazione del dio personale Kṛṣṇa col Brahman riposa sulla teoria degli avatāra, e però gl'Indiani non avvertirono l'incompatibilità di dottrine, solo per noi eterogenee.
Il testo presente, in diciotto capitoli a somiglianza dei diciotto libri del Mahābhārata appartiene ai primi secoli d. C. e offre, dal punto di vista letterario, notevoli disuguaglianze di forma: dove la materia è didascalica, la dizione si fa spesso monotona e pedantesca, come appare negli ultimi capitoli (XVI-XVIII). Ma palpita nei primi tutt'altra vita: il drammatico colloquio del dio e dell'eroe in mezzo agli eserciti schierati a battaglia, il contrasto fra la passione onde l'uomo è sopraffatto e l'imperturbabile serenità del Beato, l'epifania di Kṛṣṇa (XI) portano il segno del vero e grande poeta.
Bibl.: Śrīmad-bhagavadgītā col comm. di Śaṇkarācārya, Bombay 1906; M. Winternitz, Geschichte der indischen Litteratur, I, Lipsia 1908, pp. 365-376; R. G. Bhandarkar, Vaiṣṇavism, Śaivism, ecc., in Grundriss der indoarischen Philologie, III, 6, pp. 3, 14-26, 38 segg.; R. Garbe, Die Bhagavadgītā, 2ª ed., Lipsia 1921; H. Jacobi, Die Bhagavadgītā, in Deutsche Literaturzeitung, 24 dicembre 1921 e 8 aprile 1922; cfr. id., Die Entwicklung der Gottesidee bei den Indern, Bonn e Lipsia 1923, p. 27 seg. - Traduzioni italiane della Gītā: parziali, di M. Kerbaker, in Rivista orientale, I, Firenze 1867; pp. 834-926; 1019-1031; di P. E. Pavolini, in Mahābhārata, Palermo-Milano 1912, pp. 148-170; complete, di O. Nazari, Il canto divino, Palermo 1904; di A. M. Pizzagalli, Il canto del Beato, Lanciano 1917.