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RICASOLI, Bettino

di Niccolò Rodolico - Enciclopedia Italiana (1936)
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RICASOLI, Bettino

Niccolò Rodolico

Nacque a Firenze dal barone Luigi e da Elisabetta Peruzzi il 9 marzo 1809. Il padre gli morì nel 1816. Predilesse fino dalla prima giovinezza lo studio delle scienze naturali e fisiche. Sposata Anna Bonaccorsi, il R. nel 1838 fissava la sua dimora nel castello di Brolio.

Con quale animo il R. imprendesse la sua "vita di Brolio" scriveva egli al Vieusseux: "Nella fiducia che a Dio piaccia la mia dimora in questa campagna e tenga lontane le cagioni che ne obbligassero l'allontanamento, tanto per dare compimento ai voti continui della mia vita, quanto per fare il Cielo più favorevoli a quelli, e completamente esaudirli, voglio allargare la sfera delle mie operazioni in questa contrada, e ricondurre ad atto pratico le mie idee e il fine che qui mi condusse. Amico, l'agricoltura toscana vuole cuore e testa, la mi sembra un apostolato; quando però le si voglia giovare di buona fede è mestieri cominciare dal contadino, perché questa è la fonte perenne fecondante il rimanente del campo; tutti i sistemi diventano secondarî e senza la consacrazione della propria influenza e senza darsi in una parola con corpo ed anima all'educazione del contadino è vanità confondersi altrove... Il proprietario, se farà da missionario, nell'aspetto che ho detto di sopra, la proprietà nazionale, la pubblica morale fioriranno; diversamente non so".

Compiere quella missione fu concepito dal R., animo profondamente credente, come un dovere religioso. Il problema economico era per lui anzitutto un problema morale-religioso. La festa, che egli istituì a prem. are i migliori contadini, fu dedicata a S. Isidoro, il patrono dei contadini. Egli stesso soleva esporre argomenti di storia sacra, dei quali significativi sono titoli come questi: Come possa adorarsi Dio nelle sue opere; Venite, amici miei, ad imparare meco le virtù che fanno felice l'uomo d'anima e di corpo; Della nobiltà del lavoro. Le parole del R. avevano non il fascino dell'eloquenza, ma la virtù efficace dell'esempio di una vita di lavoro, di austera morale e di religiosità profondamente intesa e praticata. Agricoltore intelligente, esperto, tenacissimo compì tutta una trasformazione dei tipi delle viti, della forma e della coltura dei vigneti e dei metodi di vinificazione. L'esempio suo fu fecondo per la trasformazione delle condizioni enologiche della Toscana.

La vita di Brolio non era stata solo di attività di agricoltore, ma vita meditativa di anima religiosa. La solitudine, il dolore per la morte della moglie e l'amicizia del Lambruschini furono motivi, perché egli fosse preso da problemi religiosi. Uomo d'azione, quei problemi vedeva non attraverso speculazioni teologiche, ma nella realtà politica nei rapporti con lo stato e con la società. Ed egli, pure traendo idee dal pensiero giurisdizionalista, tradizionale toscano, e pure attingendo a qualche vena di tradizione ricciana per il rinnovamento del clero, conservò tuttavia la sua fede cattolica. Né la dimora nella Svizzera protestante, né l'ammirazione per quei popoli lo allontanò mai dalla sua ortodossia. Più che il Primato del Gioberti, i libri del Balbo e del D'Azeglio ebbero presa sul suo primo orientamento politico. Per lui, come per il Lambruschini, a cui apriva l'animo suo, le speranze riposte dai neoguelfi nell'azione politica italiana del papato avrebbero dato luogo a perniciose delusioni. Al papato sarebbe stato piuttosto, secondo loro, opportuno e necessario chiedere una riforma generale del clero, perché "senza religione la società era senza base". Il R. non appena fu tratto all'azione politica, nel febbraio del 1846, presentava al granduca un coraggioso memoriale per incitarlo alle riforme. In quel primo documento del R. politico, egli s'indugia in principio sulla condizione del clero in Toscana, perché fosse riformato, e potesse esercitare la sua missione.

Nel 1847 il R. fondava il giornale La patria. "Mirava - così nel programma - all'Italia, sola vera patria degl'Italiani... alla costituzione della nazionalità italiana. Questo lo scopo finale. Che se i governi ora odiano che venga per la via dell'unità, se non vogliono farlo venire con la federazione è necessità che lo preparino con l'assimilare quanto piu possono i propri sudditi agl'Italiani degli altri stati".

Nell'ottobre del 1847 il R. fu mandato inviato straordinario dal granduca al re Carlo Alberto, perché questi si facesse mediatore con il papa nel conflitto che era scoppiato tra la Toscana e Modena per alcuni compensi territoriali che Modena pretendeva in seguito all'annessione di Lucca alla Toscana.

Questa missione dava occasione al R. di conoscere da vicino e di ammirare il Piemonte e il suo re. Egli si convinse sempre più allora della necessità di stringere la Toscana al Piemonte "per gettare le basi della nuova politica italiana". Tornato a Firenze e nominato gonfaloniere del comune di Firenze, si dimise per gli eccessi della demagogia. "La schiavitù la più schifosa - diceva allora nel manifesto ai suoi elettori - è quella del disordine che ci opprime". Non fu perciò alieno dall'invocare il ritorno del granduca che nel frattempo si era riparato a Gaeta.

Negli anni della reazione, il R. fu quasi sempre lontano da Firenze. Tornò a fare l'agricoltore nella Maremma dove attese alla bonifica di una tenuta. Fu egli il primo a introdurre macchine agricole, osservando che "solamente dalle macchine e dagli strumenti perfezionatissimi l'agricoltura maremmana può sperare la sua salute". E intende tutto il valore morale dell'impresa per "stringere un vincolo di affetti e di interessi fra l'agricoltore che dirige e i lavoratori che lo secondano, affinché una popolazione errante e malevola venga a formarsi una famiglia di cooperatori alla medesima impresa che riuscirà, se le mie speranze non mi illudessero, ad un miglioramento dello stato presente delle Maremme".

Le sciagure d'Italia del 1849 non abbatterono l'animo del R., egli sempre più ebbe fede nel Piemonte. Dopo Novara scriveva: "Io non ho mai tremato per il Piemonte. Si faccia propaganda per il Piemonte, che solo io credo sia destinato ad un avvenire. Ogni anno che passa, per il Piemonte, è un periodo maturato di vita rigenerata... là si vive, e si vivrà".

La prima esplicita affermazione del pensiero politico unitario del R. si trova in una lettera del 14 ottobre 1856: "Aborro - così scrive - dai progetti eunuchi; ed eunuchi considero tutti quelli che più o meno lasciano divisa in parti l'Italia... niun principe, salvo il Piemonte, andrebbe contro l'Austria... quindi per prima cosa è necessaria la rivoluzione per scacciare tutti i principi e muoversi poi concordi contro l'Austria. Stolto consiglio rifare l'Italia con due o tre principi, piuttosto che darle subito quell'unità gagliarda e feconda, cui tendono tutte le cose di qualunque sorte siano". La preparazione spirituale di quel pensiero, che si allacciava allora al programma della Società nazionale era lontana. Quando a Firenze nel 1857 era sorta l'idea di pubblicare la Biblioteca civile dell'italiano e il R. fu invitato a collaborare, rispose che se si fosse trattato di fare opera "da liberali toscanini, non ci voleva entrare, no, no, ma se si trattava di fare la grande e liberale politica italiana, allora di buon grado ci si metteva".

Dopo la partenza del granduca, il 27 aprile '59 il R. fu nominato ministro dell'Interno del governo della Toscana dal commissario straordinario Boncompagni. Dopo l'armistizio di Villafranca e il ritiro del Boncompagni, il R. assunse il potere dittatoriale. Momento questo difficilissimo: abbandonato il paese a sé stesso, i granduchisti sospiravano la restaurazione lorenese; i diplomatici delle grandi nazioni osteggiavano l'annessione, i bonapartisti intrigavano per un regno d'Etruria a favore di Girolamo Napoleone, lo stesso ministero La Marmora-Rattazzi, preoccupato per eventuali complicazioni, era proclive a un ritorno lorenese. Il R. seppe con la sua fede e con la sua energia superare tutti gli ostacoli e nel marzo del '60 portava il voto del plebiscito al re per l'annessione della Toscana. Nel frattempo diede opera a favorire l'impresa garibaldina perché l'unità si compisse.

Chiamato alla morte del Cavour a succedergli nel governo, coerente al suo programma unitario, impedì che nell'ordinamento amministrativo dello stato prevalessero criterî regionalistici. Cercò di risolvere la questione romana, che per lui si collegava a tutta una politica ecclesiastica per elevare anche le condizioni del basso clero; egli confidava nel patriottismo di un clero italiano anche perché pacificamente la questione romana fosse risolta. Non fu fortunato; intrighi diplomatici e parlamentari offesero la naturale sua fierezza, e nel febbraio del '62 si dimise. Ritornò al potere nel giugno del 1866. Scoppiata la guerra con l'Austria, fu quello il periodo - egli scrisse - più doloroso della sua vita. Si ribellava all'idea di dover posare le armi senza tentare la rivincita dopo la sconfitta. Fu costretto a cedere.

Volle allora tentare la conciliazione col papato, ma la missione segreta da lui mandata sollevò clamori dall'anticlericalismo demagogico, ed egli, non vedendosi sorretto dalla fiducia del parlamento, si dimise. Pur partecipando in seguito ai lavori del parlamento, non ebbe più tuttavia grande parte in essi. Il 23 ottobre 1880 moriva nel suo castello di Brolio.

Fu di fiero carattere. Aveva domato il corpo come un anacoreta. Nella vita privata e pubblica dava esempio di austerità, di rigida disciplina, di tenacia di lavoro. Aveva un senso rigidissimo del dovere, per cui il "barone di ferro" era severissimo e aspro con sé stesso e con gli altri nel compimento di ciò che credeva dovere. Aveva un'anima profondamente religiosa. La sua azione politica negli anni del 1859-61 lo pone tra gli artefici dell'unità nazionale.

Bibl.: A. Gotti, M. Tabarrini, Lettere e documenti del barone R., Firenze 1887-1894; A. Gotti, Vita del barone B. R., ivi 1884; F. Dall'Ongaro, B. R., Torino 1860 (in una copia del volumetto del Dall'Ongaro, conservata all'Archivio di Brolio il barone R. aggiunse postille e note autobiografiche, le quali sono state trascritte anche in una copia della Biblioteca Nazionale di Firenze); W. K. Haucock, R. and the Risorgimento in Tuscany, Londra 1926; N. Rodolico, B. R. agricoltore, in Atti dell'Accademia dei georgofili di Firenze, 1926.

Vedi anche
Raffaello Lambruschini Pedagogista (Genova 1788 - San Cerbone, Figline Valdarno, 1873). Fu una delle figure più alte del clero liberale del Risorgimento. Sacerdote, rinunciò alla carriera ecclesiastica, non condividendo le direttive politiche della Santa Sede. Centrale nel suo pensiero è il problema del rapporto tra autorità ... Marco Tabarrini Uomo politico e letterato (Pomarance 1818 - Roma 1898). Esponente del moderatismo toscano, pubblicista, nel 1848 combatté contro gli Austriaci al comando di un corpo di volontarî. Segretario del Consiglio di stato sotto Leopoldo II (1849), nel 1859 fu chiamato da B. Ricasoli a ricoprire la carica di ... Toscana Regione dell’Italia centrale (22.993 km2 con 3.677.048 ab. nel 2008, ripartiti in 287 Comuni; densità 157 ab./km2). Di forma grosso modo triangolare, ha limiti naturali relativamente ben definiti, in quanto corrisponde approssimativamente al versante tirrenico dell’Appennino Settentrionale, compreso ... Alfonso Ferrero di La Màrmora La Màrmora, Alfonso Ferrero di. - Generale e uomo di stato (Torino 1804 - Firenze 1878). Combatté la prima guerra d'indipendenza (1848). Nominato ministro della Guerra (1849-59), riorganizzò l'esercito piemontese. Nel 1855-56 guidò la spedizione di Crimea. Presidente del Consiglio (1859; 1864-66), nella ...
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