FRESCOBALDI, Bettino
Figlio di Berto, il mercante e banchiere fiorentino capo della omonima compagnia commerciale, nacque con ogni probabilità a Firenze nella seconda metà del sec. XIII. Nel 1296 ottenne la dispensa papale per il matrimonio che aveva contratto con Maddalena di Dino Ruffoli, sua parente in quarto grado.
Mercante e banchiere come il padre, è attestato in Inghilterra almeno dal 1302 come rappresentante della ditta paterna. Ebbe parte, con il fratello Amerigo e i figli Dino e Pepo, in tutte le iniziative economiche e finanziarie intraprese dai Frescobaldi in quell'isola. Fra il 1310 e il 1312 fu particolarmente coinvolto nelle vicende economiche e giudiziarie che condussero al tracollo della società. Accusato, insieme con i suoi parenti e i suoi collaboratori, dinnanzi al re e alla magistratura, mentre suo figlio Dino riuscì ad abbandonare l'Inghilterra con autorizzazione ufficiale fin dal febbraio 1311, il F. e tutti gli altri membri della famiglia e della compagnia si trovarono nelle condizioni di dover lasciare di nascosto il Regno. I primi a fuggire furono due fratelli del F., Amerigo e Guglielmo; li seguirono poi Pepo, suo figlio, e lui stesso verso la fine del 1311. Come veniamo a sapere da un libro di conti della società, scritto dallo stesso Pepo, fu sotto la regia del F. e con la collaborazione del fratello di questo, Guglielmo, che la compagnia riuscì a far uscire di nascosto dall'isola vasellame d'oro e d'argento, lana e altri beni, che si progettava di trasferire in prima istanza sul continente e di depositare presso la Curia pontificia, ove i Frescobaldi pensavano di poter riorganizzare le loro forze e le loro attività. Sappiamo tuttavia che una piccola parte della "merce" venne spedita direttamente, una volta giunta sul continente, dal porto di Gand a Firenze.
Come primo punto di appoggio, dopo la fuga, il F. utilizzò Bruges, dove la società aveva suoi rappresentanti; successivamente insieme con i suoi parenti e i suoi collaboratori si diresse verso la Svizzera dove arrivò verso la fine di gennaio del 1312. Sua intenzione era quella di raggiungere il Delfinato e Vienne, perché lì si trovava il papa Clemente V, impegnato nei lavori del concilio riunito per decidere sulla questione dei Templari. A Vienne con il loro prezioso carico il F. e i suoi si trattennero dal 21 febbraio all'8 maggio, quando per via di terra partirono per Avignone: soltanto Pepo, malato, si servì per raggiungere quella città della via fluviale del Rodano. Nell'agosto il F., caricata su navi, a Marsiglia, la maggior parte dei beni che era riuscito a salvare e a portare fuori dall'Inghilterra, la fece giungere a Firenze. Il F. si stabilì quindi con i suoi ad Avignone, in una casa presa in affitto. Da lì tentò con ogni mezzo di ottenere la liberazione degli operatori della sua compagnia che avevano svolto la loro attività nel Ducato di Guascogna, di dominio inglese, e che per ordine del re Edoardo II erano stati arrestati a Bordeaux per essere tradotti in Inghilterra. Fra loro era anche Guelfo Frescobaldi, figlio illegittimo del padre del F., Berto.
Tutti gli sforzi si rivelarono vani. La Corona inglese era stata perfettamente informata delle vicende occorse ai Frescobaldi dopo la loro fuga dall'isola e delle mosse da loro compiute in terra di Francia. Edoardo II, anzi, attribuiva al F. la responsabilità di aver fatto trasferire ad Avignone quanto la sua società era riuscita a salvare dei beni mobili e dei preziosi che aveva posseduto in Inghilterra e, in piccola parte, forse anche nei territori di dominio inglese sul continente. Il sovrano intervenne perciò presso il papa, il 3 dic. 1312, chiedendo l'aiuto del pontefice per rivalersi appunto sui responsabili della sede di Avignone della compagnia fiorentina e in particolare sul F.: questi, secondo il re, avrebbe dovuto essere arrestato e tenuto in carcere fino a quando non si fosse verificata la correttezza dei rendiconti forniti dalla società dei Frescobaldi.
Tuttavia già prima di questa data il F. era incorso, con i suoi, in difficoltà con la giustizia proprio ad Avignone: era stato infatti denunciato dinanzi alla locale magistratura da Walter di Langton, vescovo di Coventry e già tesoriere di Edoardo I, il quale vantava un ingente credito nei confronti della compagnia fiorentina. Questi aveva ottenuto, il 24 ott. 1312, il "fermo" giudiziario dei beni che la compagnia dei Frescobaldi aveva in Avignone. Il provvedimento non raggiunse il suo obiettivo: il F. riuscì a mettere in salvo le cose della società e - sia pure con molte spese per pagare interventi legali e illegali - arrivò a sottrarsi nella quasi totalità ai procedimenti che erano stati intentati contro di lui e contro i suoi. Del resto, fin dall'autunno avevano lasciato Avignone per Genova due dei fratelli del F., Guglielmo e Buonaccorso, ecclesiastici. Tra la fine del 1312 e gli inizi del 1313 li seguì nella città ligure, con altri della società, lo stesso F. che si ritirò, come già aveva fatto suo fratello Amerigo, a Firenze.
Il 22 marzo 1313 Edoardo II chiese al pontefice la consegna del figlio del F., Pepo, che, rimasto ad Avignone, era stato arrestato poco prima insieme con un altro socio, Lapo della Bruna. Solo quest'ultimo, tuttavia, venne estradato in Inghilterra, da dove riuscì a fuggire intorno al 1315.
Gli affari della società dei Frescobaldi erano in quel torno di tempo divenuti a rischio in tutto l'Occidente europeo: proprio quando il conflitto tra Firenze e Arrigo VII rendeva ardue le operazioni bancarie nella stessa Italia. Non a caso, ad esempio, i Frescobaldi nell'ottobre del 1312 avevano potuto sottrarsi al decreto di espulsione da Genova, che colpì tutte le compagnie fiorentine attive in quella città, soltanto perché Guglielmo e Buonaccorso, fratelli del F., che la rappresentavano, furono in grado di fare appello al loro stato di chierici.
Grazie agli sforzi del F. la compagnia, riassestata la propria organizzazione, poté continuare, sia pur in tono minore, nelle sue attività: il F. è attestato ancora attivo come banchiere nel 1319. Dopo questa data, più nulla le fonti ci dicono di lui.
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