bestemmiare
. Presso i Settanta βλασφημει̃ν, pur senza corrispondere esattamente a qualche verbo ebraico determinato, indica sempre un'offesa recata direttamente o indirettamente a Dio. E tale significato mantiene sostanzialmente anche nel Nuovo Testamento.
Per s. Tommaso la bestemmia " importare videtur quandam derogationem alicuius excellentis bonitatis et praecipue divinae ". Essa riveste una duplice forma: l'una, quella di negare a Dio una sua prerogativa, l'altra, quella di attribuirgli ciò che non gli si addice. Se l'atto è solo interno, si avrà la blasphemia cordis; l'offesa verbale, invece, vien detta blasphemia oris. La prima di queste due forme è propria di tutti i dannati: attaccati ancora al vizio che li ha perduti, essi odiano le pene che forzatamente subiscono e, di conseguenza, detestano la Giustizia divina che li punisce. L'altra forma comparirà soltanto dopo il giudizio finale (Sum. theol. II II 13 1 e 4; vedi anche BESTEMMIATORI).
D. utilizza sapientemente questa dottrina, e poiché, per motivi poetici, dà ai suoi dannati parvenza corporale, attribuisce loro anche la bestemmia orale, che farà parte del clima spirituale del doloroso regno. Anche nella divisione del terzo girone del settimo cerchio (If XI 46-51 Puossi far forza ne la deïtade, / col cor negando e bestemmiando quella, / e spregiando natura e sua bontade; / e però lo minor giron suggella / del segno suo e Soddoma e Caorsa / e chi, spregiando Dio col cor, favella), il poeta ha chiaramente presenti queste pagine della Summa. Si noti soprattutto la punteggiatuta del v. 51, richiesta non solo dall'esattezza dottrinale, ma anche dalla rispondenza stilistica col v. 47 col cor negando e bestemmiando quella.
Bestemmiano, perciò, i lussuriosi, travolti dalla bufera, ogni volta che passano davanti alla ruina, la quale, comunque vada intesa, acuisce le sofferenze fisiche e morali dei dannati, provocandone lo sfogo verbale blasfemo: Quando giungon davanti a la ruina, / quivi le strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina, V 36. Bestemmiano anche le anime ammassate dell'Acheronte, non appena sentono le parole minacciose di Caronte: Bestemmiavano Dio e lor parenti, / l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme / di lor semenza e di lor nascimenti, III 103. Il passo, poeticamente efficace, è stato suggerito a D. da Iob 3, 1-26, che, a sua volta, dipende da lerem. 20, 14-18. Va notato, tuttavia, che qui b. significa piuttosto " maledire ", come del resto anche in Vn XXXVII 2 Onde più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei, e dicea loro nel mio pensero: " Or voi solavate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa condizione, e ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira... ma quanto potete fate, ché io la vi pur rimembrerò molto spesso, maladetti occhi, ché mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime avere restate "; e cfr. anche Cv II IX 4. Sennonché, maledire Dio è pur sempre bestemmiarlo, e perciò giustamente lo Scartazzini, commentando il passo di If III 103, cita il testo di s. Tommaso sulla bestemmia già da noi riportato.
Non ricordiamo, invece, in questa sede, né le grida della turba anonima degl'ignavi (III 22-30), né le parole rabbiose di Pluto (VII 1), né i lamenti degl'iracondi immersi nelle acque fangose dello Stige (VII 115-126), giacché i tre passi si prestano anche ad altre interpretazioni.
Ai bestemmiatori D. consacra appena dieci terzine (lf XIV 43-72): alla sua coscienza di cristiano questa categoria di peccatori ripugnava, come si vede palesemente dall'aspro rimprovero rivolto da Virgilio a Capaneo (su questo problema, v. BESTEMMIATORI).
Bestemmiano, inoltre, altri due dannati, Vanni Fucci e Bocca degli Abati. Per entrambi, anche per altri motivi, D. mostra profondo disprezzo. Il primo termina la sua predizione di sventura con gesto osceno e parole ingiuriose: Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: " Togli, Dio, ch'a te le squadro! ", XXV 1-3. Il poeta non adopera la parola b., ma sia le parole proferite dal pistoiese, sia il gesto che le accompagna - anche il gesto è un vero linguaggio - sono decisamente blasfemi. Il castigo, particolarmente umiliante, è immediato: due serpi gli si avvinghiano al collo e al braccio, togliendogli l'uso della parola e immobilizzandolo. Al che il poeta, soddisfatto, esclama: Da indi in qua mi fuor le serpi amiche (v. 4). Bocca, il traditore di Montaperti, colpito alla testa da D., piange, sgrida il poeta e, per sfogare la sua rabbia, bestemmia duramente e a lungo (XXXII 73-86). Anche per lui D. ha parole severe di condanna.
I Settanta adoperano βλασφημει̃ν anche per l'offesa fatta a Dio dai pagani quando condussero schiavo il popolo eletto (Is. 52, 5). Tale estensione di significato è stata favorita dall'uso ebraico di identificare il nome con la persona. Così un'offesa fatta a Dio viene considerata come una bestemmia contro il suo nome. Lo stesso uso si trova anche nel Nuovo Testamento (Rom. 2, 24, Iac. Epist. 2, 7). Con analoga estensione blasphemare viene adoperato da s. Agostino nei suoi commentari ai Salmi (ediz. Migne IV 196, 1899). È comprensibile, perciò, che D., riferendosi alla sua descrizione, d'ispirazione scritturistica (Ezech. 17, 3-21, Apoc. 12, 3-4), del duplice danno recato al carro trionfale simboleggiante la Chiesa, dall'aquila prima e dal drago poi (Pg XXXII 109-135), abbia adoperato l'espressione ‛ bestemmia di fatto ' (vedi su questo punto BESTEMMIA).