BEROALDO, Filippo, iunior
Nacque a Bologna il 1° ott. 1472, da nobile famiglia. Per la data di nascita v'è contrasto fra gli studiosi (c'è anche chi, confondendolo con Filippo Beroaldo senior, lo vuole nato il 7 nov. 1453: J. Paquier, De Philippi Beroaldi junioris [sic] vita et scriptis, Lutetiae Parisiorum 1900, p. 7, sulla base del Tractatus Astrologicus di Luca Gaurico, Basilea 1575)
Era nipote di Filippo Beroaldo senior, com'egli stesso dice nella lettera ad Aldo Manuzio del 18 luglio 1500, edita da P. de Nolhac (Les correspondants d'Alde Manuce, in Studi e doc. di storia e diritto, Roma 1887, p. 268), in quanto figlio di cugino, mentre il Paquier (p. 96) lo crede figlio del fratello (ma cfr. V. Cian nelle note all'edizione del Cortegiano del Castiglione, Firenze 1898, p. 207). Alcuni lo hanno ritenuto addirittura figlio di Beroaldo senior, come Marco Antonio Flaminio, che in un epigramma lo chiama "Clari progenics colenda patris", e come il Voss (De historicis Latinis, Lugduni Batavorum, 1627, III, p. 668). Ma definitivi sono i dati di fatto che lo indicano come figlio del notaio Nicola Beroaldo (Rotuli lectorum artium dell'università di Bologna) e di Bartolomea Formaglini, anch'essa bolognese. Del resto, il preciso rapporto di parentela con Beroaldo senior è attestato, oltre che da lui, anche dallo stesso Beroaldo senior, che nel l. IX dei suo commento ad Apuleio scrisse un elogio di B., e da Erasmo da Rotterdam che, nel Ciceronianus, colloca il B. tra i ciceroniani, a differenza dal senior, ma che nella lettera del 1°marzo 1524 da Basilea a Jodoco Gavero lo giudica superiore a Beroaldo senior, che chiama suo "cognatus".
Il B. studiò all'università di Bologna con Beroaldo senior e con Antonio Urceo detto Codro, in onore del quale avrebbe composto l'epitafio che è il decimo degli Epigrammata e delle cui opere fu editore (Bologna 1502). L'uno e l'altro dei suoi maestri non gli lesinarono le loro lodi: Beroaldo senior nel Comment. in Lucium Apuleium IX (Venetiis 1510, f. 161) lo loda come già pari a sé a proposito di un emendamento a Comelio Celso; da una lettera di Antonio Urceo a G. B. Palrnieri del 15 apr. 1498 sappiamo che a ventisei anni egli aveva incominciato a professare a Bologna "humaniores litteras". Nel 1502 fu chiamato per la sua fama all'Archiginnasio di Roma, e il Bembo, nel discorso su Guidubaldo da Montefeltro, testimonia che fu bene accolto e stipendiato. Tornò talvolta a Bologna, dove nel 1505, alla morte di Beroaldo senior, lo invitarono ariprendere l'insegnamento; ma egli conservò la residenza a Roma, dove Giulio II gli si era mostrato benevolo. Da una lettera a lui del Bembo inviata da Venezia il 5 maggio 1506 apprendiamo che a Vicenza si pensava di invitarlo con alto stipendio come pubblico maestro di retorica. A Roma il card. Giovanni de' Medici, futuro Leone X, lo fece suo segretario ("secretario nostro antico" lo chiama nella bolla del 1514 in cui lo nomina praepositus dell'Accademia Romana), per i servizi sacri nella cappella dell'Accademia, che non è da confondere con quella di Pomponio Leto, ma è senz'altro l'università. In conseguenza, il B. entrava a far parte dei canonici della basilica vaticana, pur non arrivando mai ad essere ordinato sacerdote, nonostante la sua persistente condizione di celibe. Arrivò anche ad esser membro dell'Accademia fondata da Pomponio Leto, che allora era diretta dal tedesco romanizzato Giovanni Goritz (Corycius), sì da aver assunto il nome di "Academia Corytiana": e in onore del Corycius egli compose tre strofe (in Vat. lat.9719, Corytiana, ma poi stampate in Blossius Palladius, Corytiana, Roma 1520). Successivamente, nel 1516, Leone X lo nominò curatore dei privilegi di Santa Romana Chiesa in Castel Sant'Angelo e prefetto della Biblioteca Vaticana. Tuttavia nonpoté mai ottenere dal papa gli sperati emolumenti e per questo condusse vita grama e triste; Leone X gli prometteva maggiori prebende se avesse cambiato vita; in Carm., III, 2, egli rispose che si ostinava a preferire gli amori alle ricchezze: singolare è che uguale taccia di lussuria, almeno per il periodo in cui fu celibe, si dà a Beroaldo senior nella biografia di lui che accompagna la sua edizione commentata del De vita Caesarum di Svetonio e che è stata scritta da Bartolomeo Bianchini bolognese.
Il B. morì a Roma il 30 ag. 1518. Già in Carm., III, 7(Ad monachum quaesitorem), egli aveva lamentato le denunce dei frati contro la sua vita, le immeritate fortune di altri scrittori e l'inutilità di "aulam incolere antistitis aridi".
Pietro Bembo, allora segretario del papa, dettò un epigramma per il suo sepolcro. Fu amico di molte delle più illustri personalità letterarie dell'epoca: a parte il Bembo, furono in rapporto con lui il card. Bibbiena, il Reuchlin, il Sadoleto, Giovanni Antonio e Marco Antonio Flaminio, il Molza, Gerolamo Aleandro. Fra i suoi discepoli si ricordano Wolfgang Schilick, i conti Ludovico di Sambonifacio, Ercole Rangone e il Conte dei Popoli di cui parla il Castiglione nel Cortegiano, e Iletwollf von Stein, la cui morte fu pianta in un discorso da Ulrich von Hutten.
L'opera che ne ha assicurato la fama è l'editio princeps (Roma 1515) dei primi sei libri degli Annales di Tacito, il cui codice, il cosiddetto Mediceo primo (Laurentianus 68, 1), sottratto al monastero di Korvey, era pervenuto nel 1508 nelle mani di Francesco Soderini e da lui ceduto al cardinale Giovanni de' Medici, che, divenuto pontefice, ne affidò l'edizione la Beroaldo.
Accanto ai libri restituiti dal codice, il B. pubblicò tutto il resto dell'opera, riproducendo per esso il testo pubblicato a Milano nel 1476 da Francesco dal Pozzo (editio Puteolana). Nell'edizione egli rabberciò alla meglio la grossa lacuna del l. V, considerandola una parte del libro successivo, sì che ci parla di cinque libri tornati alla luce, anziché di sei: considera ancora Annales e Historiae come costituenti una sola opera, secondo il vezzo dei copisti e dei primi editori che all'insieme delle due opere maggiori di Tacito davano il titolo di Historiarum libri. Le cure dei grandi filologi del secondo Cinquecento, specie di Giusto Lipsio, hanno fatto impallidire la figura del B. come editore tacitiano; ma bisogna riconoscere che a lui va il merito di emendamenti tuttora accettati dai dotti, come in Dial.,25, in Annal., IV, 64, 1, in Annal., VI, 51, 3, due volte; il numero degli emendamenti che gli odierni critici hanno ereditato dal B. nei libri tramandati dal Mediceo primo è anzi tale che il più recente editore degli Annales (Lipsiae 1960), E. Köstermann, ha avvertito all'inizio dell'apparato che "eae lectiones, quibus nomen emendatoris adscriptum non est, a Beroaldo correctae sunt".
Come studioso di classici il B. aveva già tradotto in latino lo scritto A Demonico di Isocrate: Isocratis ad Demonicum oratio praeceptiva e Graeco in Latinum versa, Bologna 1502, con epistola dedicatoria a Costanzo Bentivoglio.
L'opera isocratea era già stata tradotta in latino proprio da Antonio Urceo Codro, alla fine del sec. XV, e un'altra versione ne era stata fatta all'inizio del sec. XVI. La versione del B. talvolta si allontana dal testo greco, talvolta è errata. Se ne fecero altre due edizioni (Parigi 1513,Augusta 1515), dove è notevole l'opinione che nel Principe il Machiavelli abbia desunto dal ???Ilpò,; Ntxox1km??? di Isocrate, nella sostanza delle idee, sia la lettera dedicatoria a Lorenzo de' Medici sia il finale.
Ma il B. merita d'essere ricordato soprattutto nel solco della letteratura umanistica originale: soprattutto come poeta in latino egli merita un'attenta rivalutazione. Come prosatore egli va ricordato anzitutto per la lettera ad Antonio Galeazzo Bentivoglio composta come prefazione all'edizione delle opere di Antonio Urceo, nella quale parla del Francia, l'illustre pittore suo concittadino, lodandolocome orafo. Vanno inoltre ricordate: un'epistola scritta in italiano il 29 giugno 1515, a nome di Leone X, a Lorenzo de' Medici, duca d'Urbino; un discorso ai discepoli all'inaugurazione di un anno (Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 914, ff. 263-267); tre lettere, rispettivamente del 18 luglio 1500, dell'8 marzo 1501 e del 15 nov. 1505, ad Aldo Manuzio, edite dal Nolhac, ibid., pp. 268-70; due lettere al Reuchlin, rispettivamente del 25 maggio 1517 e del 5 dic. 1517; l'orazione in difesa di Francesco Maria Della Rovere, duca d'Urbino, processato da Giulio II alla presenza di quattro cardinali per l'uccisione del card. Francesco Alidosi avvenuta a Ravenna nel 1511: il manoscritto, con alcune annotazioni, si trova nella Biblioteca Vallicelliana di Roma (G. 61), e il Paquier (pp. 96-113) ne ha pubblicato lunghi brani.
Il Guicciardini che parla dell'assassinio, nella Storia d'Italia (l. IX, cap. 5),riconosce che esso violava la dignità del cardinalato e che perciò molto se ne dolse il pontefice, anche perché questa violazione era stata commessa da un suo nipote e perché egli era personalmente molto legato all'ucciso; ma ammette che il morto era "degnissimo, per i suoi vizi enormi ed infiniti, di qualunque acerbissimo supplizio": riconosce cioè la validità delle accuse che il B. accumula sul morto per scagionare l'accusato. Ma nel l. X, cap. 1, il Guicciardini asserisce che nel concistoro tenuto a Roma nel medesimo anno Giulio II assolse il nipote, "presenti i Cardinali congregati…, non per via di giustizia, come prima si era trattato, repugnando a questo la brevità del tempo, ma come penitente per grazia e indulgenza Apostolica". Invece G. B. Leoni (Vita di Francesco Maria di Montefeltro Della Rovere, Venezia 1605, p. 135) asserisce che il duca fu assolto col voto di quattro cardinali, essendosi provato che l'Alidosi era in trattative coi Francesi. Ad ogni modo nell'orazione il B. carica le tinte sulla nequizia del cardinale ucciso e quindi imita prima la Secunda actio in Verrem nel narrare le sue delittuose gesta, e poi la Pro Milone: ma il suo ciceronianismo è più apparente che reale; - il lessico è zebrato da infiniti apporti della tarda latinità e della latinità medievale, di cui risente anche in alcune caratteristiche formali (ac dinanzi a vocale).
Nel codice Vat. lat.5809,f. 1r, è conservata una lettera al card. Giulio de' Medici, il futuro Clemente VII, in cui sono presentate le elegie di Guido Postumo Silvestro da Pesaro, dedicate al medesimo cardinale. Nella lettera è notevole il paragone fra poesia e pittura ereditato dalla Pro Archia di Cicerone, nel senso che le lodi dei poeti che eternano la nostra immagine ideale sono da apprezzare ancor più delle ben remunerate fatiche dei pittori che eternano la nostra immagine fisica; sono notevoli inoltre la protesta di fedeltà alla casa Medici e una affermazione in cui è contenuta la poetica dei B.: "Nam cum in summo poeta quatuor illa praecipue soleant requiri, spiritus in rebus, sublimitas in verbis, in affectibus motus, decor in personis…". Il secondo libro delle elegie di Guido Postumo, che è chiuso da un componimento in faleci, è interrotto dallo Epicedium in matrem in esametri nel quale (primo verso del f. 39v) è nominato il B. insieme col Bembo e col Sadoleto come "dignati magno alloquio hospitioque Leonis". Marco Antonio Flaminio nel principio dell'ode al B. parla di opere storiche che egli intendeva comporre ("scribes") sul Bentivoglio e su Giulio II: ma evidentemente egli non ne ha poi fatto nulla.
Il più dell'opera poetica del B. è raccolto nei tre libri di Carmina e nel libro di Epigrammata pubblicati postumi a Roma nel 1530, a cura del Lelio, il quale nella lettera dedicatoria del 13 ottobre al card. A. Trivulzio dice di aver ritrovato miracolosamente, dopo il sacco di Roma, il "libellus" dei Carmina dell'amico B., i quali perciò non avrebbero ricevuto dall'autore l'ultima mano: cosa che sembra confermata dal fatto che nella copia esistente nella Biblioteca Vaticana vi sono varianti manoscritte, di mano contemporanea, a I, 11 e I, 12 e ad Epigr., 21, per non parlare di una correzione a I, 7 ("dum me releves" per l'errato "olum me reveles" del testo stampato) e di un errata-corrige a stampa posto alla fine degli Epigrammata.
Dopo i Carmina e gli Epigrammata la copia vaticana comprende Syphilis dei Fracastoro e De arte poetica, De bombyce, De ludo scacchorum, Hymni e Bucolica dei Vida. Nella stampa non v'è numerazione di pagine, ma una mano, forse la medesima delle correzioni, l'ha introdotta a penna percoppie di pagine, limitatamente alla parte contenente le opere del Beroaldo. L'edizione è accompagnata da una lettera d'autorizzazione, con lodi dei poeta, di Clemente VII, del 23 sett. 1530, con la controfirma di Blosio Palladio, segretario del papa, e compagno del B. nelle esercitazioni poetiche, nell'attività culturale e negli amori, come dimostra il suo famoso epigramma in morte di Madonna Imperia, in cui è detto che contro Marte e Venere benefattori di Roma per averle dato l'uno "imperium" e l'altro "Imperiam", "steterunt Mors et Fortuna, rapitque / Fortuna imperium, Mors rapit Imperiam".
Fuori dall'edizione del 1530 sono da ricordare le già menzionate strofe in onore di Giovanni Coricio, gli endecasillabi a Traiano Accursio in calce all'in-folio delle Orationes di Cicerone a cura di Beroaldo senior (Bologna 1499), altri endecasillabi in calce all'edizione delle lettere di Plinio a cura di Beroaldo senior (Bologna 1502), i sei faleci contenuti, insieme con quelli di Christophorus Funda Foroiuliensis, nel primo foglio del codice Urb. lat.767 del 1499 (lo descrisse e ne dette brani lo Zannoni in Rend. dell'Acc. dei Lincei, classe di scienze morali, s. 4, VII [1891], pp. 69-78), relativi al poema in distici in quattro libri De legitimo amore di Dario Tiberto.
C. Stornaiolo, che ha descritto il codice piuttosto sommariamente e non senza inesattezze (Codices urbinates latini, II, Romae 1912, p. 349), è incerto se attribuire la paternità dei versi al B. o a Beroaldo senior. Ma il fatto che noi non conosciamo un'attività poetica di Beroaldo senior e l'esistenza degli altri coevi endecasillabi del B. nelle edizioni sopra ricordate di commenti di Beroaldo senior obbligano ad attribuire al B. la paternità di questi sei versi che suonano: "Carmen nobile molle delicatum / Condit Pierio Tibertus ore, / Cui dulce eloquium stilunique tersum / Et largam ingenii benigna venam / Parca indulserat, alter ut Tibullus / Nostri temporis hic queat vocari".
Da ultimo è da ricordare la graziosa elegia dal titolo Triumphus Cupidinis, che si legge nel codice Vat. lat. 3351, f. 147v, preceduto da una lettera a Fausto Bolognese in data 3 sett. 1505. Il Paquier cita solo la lettera, tralasciando di avvertirci dell'esistenza del componimento poetico, che il B. dice composto per consolarsi della morte di Beroaldo senior avvenuta proprio in quei giorni.
Se questi versi ci profilano un B. poetante ancora nel solco più tipicamente catulliano e ovidiano della poesia umanistica della fine del Quattrocento, se gli Epigrammata dedicati al cipriota Livio Podocataro, e del quale l'ultimo (c. 25) è una supplica a Leone X perché gli faccia fare carriera, sono di sapore catulliano e ne riprendono spesso il tono scommatico negli sfoghi contro i mestieranti delle lettere più fortunati dei poeta, i tre libri dei Carmina, dedicati ad Augusto Trivulzio (ma il l. II è dedicato a Gianfrancesco Della Rovere), rappresentano il primo sistematico e impegnativo riecheggiamento della lirica oraziana nella poesia latina d'età rinascimentale. Lo testimoniano anche i metri che comprendono la strofe saffica, la strofe alcaica, i sistemi asclepiadei 2°, 3°, 4° e 5°, l'alcmanio, a parte il metro di I,20, che è una strofe tristica, formata da un anacreonteo catalettico, un gliconeo e un trimetro ionico (e non un dimetro anapestico ipermetro come sembra al Paquier, p. 81). A parte la costante eleganza dello stile e la non rara felicità espressiva che fanno di questi carmi uno dei prodotti più notevoli della lirica umanistica, il loro fondamentale interesse, che da solo consiglierebbe una riedizione, è di carattere storico. Essi bastano da soli a darci uno specchio completo dell'ambiente della Roma papale agli inizi del Cinquecento e dei riflessi immediati di tutti gli eventi storici principali sulla corte di Giulio II e di Leone X: si inveisce ferocemente contro la memoria di Alessandro VI (c. s degli Epigrammata); si celebrano (III, 1) le scoperte portoghesi nel lontano Oriente, traendone incentivo apredicare la pace fra i sovrani europei e la necessità di aderire alla crociata contro il Turco progettata da papa Leone X; si introduce (I, 5), sulle orme del XVI epodo oraziano, la considerazione delle terre scoperte come sedi di una persistente età dell'oro, e quindi s'inaugura il mito rousseauiano del buon selvaggio riguardo agli abitatori dei nuovi continenti; si rimpiange (I, 6) la morte di Lorenzo il Magnifico e si depreca l'occupazione della Lombardia da parte della Francia e quella del Regno di Napoli da parte della Spagna; si esprime (I, 7) la prima condanna di Lutero; si,esalta (II, 4) la liberazione dei card. Giovanni de' Medici dalla prigionia francese dopo la battaglia di Ravenna; per la storia del costume sono notevoli I, 20 e I, 22 relativi a Madonna Imperia e allusivi agli amori di lei col poeta, col Sadoleto e persino col card. Giulio de' Medici, e il c. 42 degli Epigrammata in cui ai vv. 48-49 sono nominati Marforio e Pasquino. Per l'ambiente culturale sono da ricordare II, 11 (carme ad Agostino Chigi per le pitture della Famesina), il c. 47 degli Epigrammata in cui si piange la morte di Serafino da Aquila, i carmi I, 23 e II, 3 esaltanti Isabella marchesa di Mantova, e i molti carmi (I, 9; II, 2; II, 13; III, 5; III, 8; III, 9; cc. 34 e 50 degli Epigrammata) nei quali o si piange la morte di Beroaldo senior, o ci si indirizza al Trissino lamentando la scarsa considerazione in cui son tenuti sia il mittente sia il destinatario, o si rivendica il valore della poesia e della cultura umanistica, arrivando anche ad immaginare, in occasione della morte di Tommaso Fedro da Volterra o del cretese Marco Musuro un Eliso o di dotti umanisti (il Pontano, il Marullo, Pico della Mirandola, lo Strozzi, il Poliziano, Beroaldo senior) o di dotti bizantini della passata generazione (il Bessarione, Gemisto Pletone, ecc.).
A suo tempo il volume dei Carmina fulodato nel De poetis nostrorum temporum di Lilio Gregorio Giraldi (dialogo primo), il ferrarese che fuprotonotario apostolico sotto Leone X e Clemente VII, e negli Elogia del Giovio (Basilea 1577, p. 102).
Bibl.: Oltre agli autori già citati, cfr. G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 1003-1020; G. Fantuzzi, Scrittori bolognesi, II, Bologna 1782, pp. 111-145; L. Frati, I due Beroaldi, in Studi e mem. per la storia dell'Univ. di Bologna, II, Bologna 1911; R. Sabbadini, Storia del ciceronianismo, Torino 1885, pp. 42-45; E. Raimondi, Codro e l'Umanesimo a Bologna, Bologna 1950, partic. pp. 12 e 152; E. Paratore. Un ignoto poeta della Roma di Leone X, in Strenna dei romanisti, XXVII(1966), pp. 344-354.